La
Contea era una terra ricca di storie, ma erano storie vecchie, anzi
antiche. Ne parlavano solo i libri di storia nelle biblioteche
polverose e vuote dei nobili, scambiandosi, con gli altri libri,
segreti sussurrati nel silenzio della notte. E i pochi menestrelli
girovaghi che traversavano la Contea, diretti magari verso i Porti
Luminosi per imbarcarsi verso terre più ricche di miti o ancora
giovani e affamate di antiche racconti. Una di queste storie, scritta
in inchiostro rosso, contenuta in un libro ormai andato perduto,
parlava di Ancrisia e Parmane e del loro destino.
Ancrisia,
figlia di Carade, re di Tannaria, visse in un'epoca antecedente la
formazione della Contea. Allora la conformazione di quelle terre era
completamente diversa e i luoghi erano chiamati con nomi che poi
sarebbero stati dimenticati. Tannaria sorgeva al confine sud delle
Terre del trifoglio, che sarebbero state poi conosciute come Prati
degli Antichi, dopo che la migrazione dall' est di coloro che
avrebbero costruito Norges avesse raso al suolo la citta'. Il piccolo
regno di Carade era ricco e protetto da numerosi, forti guerrieri
vestiti di cotte a scaglie di bronzo ed elmi crestati dall'aspetto
spaventoso. Con le loro lance di legno di quercia avevano piu' volte
respinto i nemici oltre i confini, rendendo questi sicuri e stabili.
Il popolo viveva di pastorizia, oppure commerciava il vasellame che
produceva con coloro che abitavano lungo le sponde del fiume
Linnosante, scambiandolo con pesce o prugne essiccate o sale scavato
nelle miniere delle Terre dei Vagabondi.
Il
destino di Ancrisia parve segnato al compimento del suo
quattordicesimo anno di eta'. Proprio mentre il padre iniziava ad
organizzarne la ricerca di un marito, la ragazza cadde malata. La
malattia era tale che lasciava poche speranze, e cosi' terribile che
a pochi fu permesso di conoscerne i dettagli e quei pochi furono
sottoposti a giuramento di non parlarne ad alcuno. La madre di
Ancrisia fu preda della disperazione e non volle piu' lasciare le sue
stanze, Carade stesso passava le giornate a tormentarsi sul destino
della figlia senza sapere cosa fare per aiutarla. La malattia della
fanciulla fu tenuta segreta, in quanto Carade non aveva altri figli o
figlie a cui potesse essere passato il trono. Su consiglio del mago
di corte, fu annunciato che Ancrisia non avrebbe lasciato le sue
stanze fino al giorno del matrimonio, in quanto non avrebbe piu'
incontrato alcun uomo fin quando il suo futuro marito non fosse stato
di fronte a lei. Ma insospettiti dal dolore dei genitori, molti
iniziarono a mormorare che non fosse quello il reale motivo.
E
mentre le ricerche del marito per Ancrisia procedevano volutamente
rallentate, i mormorii divennero sussurri nel buio, e i sussurri
piani per spodestare Carade. Nella citta' l' atmosfera divenne cupa e
il sospetto striscio' nelle sue vie, mentre i vari partiti si
andavano formando, con alleanze e promesse e accordi contro gli
alleati.
Poi,
un giorno, tre mesi dopo che Ancrisia si era ammalata, Parmane giunse
a palazzo. Parmane era un pastore, della stessa eta' di Ancrisia,
anzi era nato lo stesso giorno della ragazza, ma mentre lei era stata
partorita al mezzodi' del Solstizio di Primavera, Parmane era stato
partorito nel buio della mezzanotte. Il giovane viveva sulle colline
al confine del regno, ed aveva camminato per quattro giorni per
raggiungere Tannaria, seguendo le istruzioni di sua madre.
Si
presento' alla porta del palazzo e disse che voleva appellarsi alla
Giustizia del Re. Siccome in quell'epoca chiunque poteva appellarsi
al re, fu fatto entrare e condotto alla presenza di Carade, che
sedeva solitario nel boschetto sacro cercando senza riuscirci di
pregare i suoi alari.
-Che
vuoi, ragazzo?- chiese Carade, che nonostante il dolore non sarebbe
mai venuto meno ai suoi doveri.
-Mia
madre e' una veggente-, disse Parmane, ripetendo parola per parola il
discorso che sua madre gli aveva fatto mandare a memoria. -Ha fatto
un sogno. E nel sogno tua figlia era malata e orrendamente sfigurata.
Il
cuore di Carade ebbe un balzo, perche' nessuno fuori del palazzo
sapeva della natura della malattia di Ancrisia.
-Mia
madre mi ha detto che avrei parlato con te nel luco, e che tu mi
avresti ascoltato perche' nulla ti e' piu' caro su questa terra di
tua figlia. Mia madre ha sognato un uomo, che vive nelle terre piu'
lontane del Meridione, un uomo di conoscenza e di potere, sempre in
cerca di nuovo sapere. Ma il suo cuore e' nero, come la pietra della
torre in cui vive e le vesti che indossa. Lui conosce la cura per la
malattia di tua figlia.
"Per
curare tua figlia dovrai recarti da lui, ma non chiedere il suo aiuto
perche' non lo otterrai. Ma avrai da lui la cura se soddisferai tre
richieste, non da parte dell'Uomo Nero ma di una potenza che guida le
nostre vite. Ma dovrai stare in guardia, perche' l'Uomo Nero
cerchera' di ingannarti.
Carade
rimase in silenzio, fissando il ragazzo. In realta' aveva smesso di
ascoltarlo non appena udito che qualcuno conosceva il modo per curare
sua figlia. Con un cenno comunico' a Parmane di seguirlo e lo
condusse nel cuore del palazzo, nella sala dove teneva udienza coi
suoi capitani e consiglieri.
-Tua
madre sa dove trovare quest'uomo?- chiese il re al ragazzo..
-Mi ha
detto di dirti che lo troverai nella Casa dei Sussurri, che sorge ai
piedi del Monte delle Bestie.
Carade
fremette, perche' conosceva quei luoghi. Non di persona, ma si
narravano molte storie sugli Otto Dominii Meridionali, un regno retto
da otto sovrani, potenti re-stregoni. I Dominii erano terre abitate
da un popolo crudele, dedito all'adorazione di divinita' malvage che
richiedevano sacrifici umani. Lo straniero che ne avesse varcato i
confini non invitato, molto facilmente sarebbe finito rinchiuso nelle
baracche degli schiavi, oppure legato su una pietra sacrificale.
-C'e'
altro che tua madre ti ha detto?
-No,
mio signore.
Carade
annui'. -Recati nelle cucine, e prendi tutto cio' di cui hai bisogno.
Prendi anche qualcosa per ripagare tua madre del suo avvertimento.
"Vai.
Parmane
annui' e lascio' il re da solo.
Carade,
fremente nello spirito, prese a passeggiare in lungo e in largo nella
sala. Sfioro' tutti gli scranni, sosto' sotto ognuno dei numerosi
scudi appesi alle pareti, si fermo' ad osservare la trama di un
grande arazzo cercando fra i suoi intrecci una risposta al suo
dilemma. Perche' anche se adesso sapeva dove cercare la cura per sua
figlia, essa rimaneva comunque irraggiungibile. Indipendentemete da
chi avesse inviato a sud, per numero, sapienza o forza, nessuno
avrebbe fatto ritorno dagli Otto Dominii.
Infine,
quando ormai il pomeriggio sfumava nella sera, Carade fece venire il
mago di corte, nella speranza che l' uomo avesse quella soluzione che
lui non riusciva a trovare. E cosi', seduti uno di fronte all'altro
nell'angolo piu' lontano e in ombra della sala, il re racconto' al
sapiente cio' che aveva appreso da Parmane. Il mago, un uomo di eta'
indefinibile proveniente dalle montagne a nord, le Punte Aguzze,
ascolto' in silenzio il suo re. Infine chiese: -Hai gia' mandato via
il ragazzo?
-Si'.
Il
mago scosse il capo, fissando meditabondo il pavimento, un gomito
appoggiato ad una gamba e il bordone intarsiato adagiato nell'incavo
dell'altro braccio. -Peccato. Mi sarebbe piaciuto parlargli.
"Non
importa. E' questo tutto cio' che ti ha detto? Che questo sapiente
dei Dominii possiede la cura per tua figlia?
Carade
annui'.
-Che
intendi fare?- chiese il mago.
-Pensavo
tu mi avresti consigliato!
Il
mago sorrise. -E cosa potrei consigliarti? Di mandare incontro a
morte certa uno dei tuoi migliori guerrieri? Magari il piu' fedele di
loro? Conosciamo entrambi le storie che si raccontano sulle genti di
quella terra.- E scuotendo la testa aggiunse: -Ma non hai molte
alternative. Non credo che inviare una richiesta tramite qualcuno dei
mercanti che sono autorizzati a varcare i confini degli Otto Dominii
possa essere di qualche utilita'. Perderemmo solo tempo nell'attesa
di una risposta che forse non arriverebbe.
Gli
occhi grigi del mago si fissarono negli occhi del re. -Trova qualcuno
da mandare in quelle terre. Io nel frattempo cerchero' un'altra
soluzione, sperando esista.
E
cosi' Carade riuni' i suoi migliori guerrieri, gli uomini piu' fedeli
e fidati. Spiego' loro la situazione, dove potesse essere il rimedio,
e chiese un volontario. I primi due ad offrirsi, solo perche' furono
i piu' veloci, perche' nessuno di quegli uomini si sarebbe mai tirato
indietro e nessuno lo fece quel giorno, furono Maraco di Tsobor e
Affium, uno straniero giunto da uno dei regni dell'est.
Carade
li fisso' in silenzio, triste in cuore perche' nel profondo era
sicuro che non avrebbe piu' rivisto quei due valorosi, poi annui e
disse: -Andrete insieme, cosi' potrete esservi di aiuto l'un l'altro.
E
cosi' i due partirono, il giorno successivo, viaggiando a dorso
d'asino, perche' a quei tempi nessuno ancora montava i cavalli, che
venivano usati solo per trainare i carri da guerra. Sarebbero stati
poi i fondatori di Norges, giungendo dall' Est, a mostrare a tutti
che i cavalli erano un utile strumento di guerra, piu' adatto a
trasportare un solo uomo che a trainare un pesante sebbene robusto
carro da guerra. Veloci e spietati avrebbero travolto nella loro
cavalcata ogni citta', ogni ostacolo, ogni avversario si fosse parato
loro davanti, attraversando il continente da un mare all'altro, per
poi stanziarsi nell'Ovest, imporre la loro cultura e fede e
ridisegnare i confini e gli equilibri di tutte quelle terre, dalle
ghiacciate coste del Nord fino alle arse terre affacciate sul Mare
del Sud, terre di cui in una furia mossa da una fede cieca avrebbero
fatto un deserto.
E
cosi' Maraco e Affium lasciarono Tannaria, uscendo dalle sue mura di
mattoni cotti in fornaci prima del sorgere del sole, diretti verso
sud, stolidi e silenziosi, consapevoli di cio' cui andavano incontro.
Si diressero prima verso sud-est, fino a raggiungere il Linnosante,
di cui seguirono il corso. E seguendo il fiume attraversarono terre
popolate di piccole comunita' insediate sulle sue sponde, divise da
distanze che talvolta richiedevano giorni per essere coperte, dove
non c'erano strade ne' sentieri, se non quelli segnati dagli animali,
i cui percorsi erano diversi da quelli umani cosi' come diversi erano
i loro intenti. Camminarono per prati, giovani boschi e canneti che
si stendevano per chilometri a fianco del fiume dallo scorrere pigro.
Talvolta, quando furono fortunati, poterono usufruire del servizio di
una chiatta che discendeva un breve tratto navigabile del fiume, ma
piu' spesso acquitrini di cui non si vedeva la fine li costrinsero a
lunghe deviazioni che li portavano cosi' distanti dal fiume che poi
era difficile ritrovarlo perche' magari il suo corso aveva compiuto
una deviazione che lo portava nella direzione opposta alla loro.
In
occasione di una di queste deviazioni, giunsero, sul far della sera,
ai piedi di un colle, un' altura solitaria dall' aspetto brullo.
Nessun albero cresceva sui suoi crinali, cosparsi di rocce biancastre
e grigie che affioravano numerose, grandi e piccole, dal terreno
coperto di licheni e cespugli di ginestrone. Si era quasi in estate,
della gialla e copiosa fioritura del ginestrone rimanevano solo pochi
singoli fiori su qualche ramo. Solo sulla cima una corona di cipressi
ornava il colle come una corona ornava la testa di un re. I due non
lo sapevano, ma la gente che viaggiava per quel territorio chiamava
il colle con la sua ghiera di cipressi il Teschio Incoronato, anche
perche' il colle, per colui che vi si approsimava arrivando da sud,
aveva la conformazione di un teschio.
-Accampiamoci
sulla vetta, stanotte-, suggeri' Maraco. -Siamo vicini alle mie
terre, forse con l' alba saro' in grado di riconsocere qualche punto
di riferimento.
Affium
non disse niente, perche' anche se il Linnosante era lontano sulla
loro sinistra, i suoi luoghi natii erano giusto al di la' del fiume,
ed una triste nostalgia lo aveva preso e gli pareva di riconoscere,
negli odori portati dal vento, quelli di dove era cresciuto, e fra
questi l' odore che sprigionava dalla legna di un particolare acero
che cresceva solo la' e che la sua gente bruciava sul far della sera
per scacciare l'umidita' dalle case. E questo gli aveva fatto pensare
che non avrebbe piu' avuto occasione di rivedere la sua casa, perche'
dal Meridione non avrebbe fatto ritorno.
I due
salirono sul colle, varcarono il circolo di giganteschi cipressi per
lo piu' morti, e si ritrovarono sulla cima piatta del colle. Al
centro esatto una costruzione di pietre tagliate, un portale ormai in
rovina, dava accesso ad uno spazio sotterraneo, una grotta naturale
buia e silenziosa. Era l'imbrunire, il sole era ormai tramontato e
l'oscurita' saliva lenta dal suolo, inghiottendo piano piano ogni
cosa. Lontano a ovest una catena montuosa non molto alta si stendeva
lungo tutto l'orizzonte. Ai suoi piedi brillavano le luci di alcuni
fuochi domestici, la' dove il buio gia' nascondeva i particolari,
mentre dove ancora la luce riusciava a giungere da oltre l'orizzonte
piegato, si vedevano i profili irregolari dei monti, coperti di
boschi interrotti da ampi pascoli.
Nessuno
dei due commento' cosa avevano trovato sulla cima del colle, sebbene
consapevoli si trattasse di una tomba. Una tomba antica,
probabilmente di quel popolo pre-umano che le leggende dicevano
avesse abitato tutte le terre fra le Punte Aguzze e il Linnosante.
Prepararono il campo, accesero il fuoco e mangiarono carne secca e
pane non lievitato. Poi si sistemarono per la notte. Ma entrambi non
riuscivano a dormire. Cosi' si levarono, e preso ciascuno un ramo a
mo' di torcia, si accinsero ad esaminare l'antica sepoltura.
Discesero
alcuni scalini intagliati nella roccia sgretolata dal ruscellare
dell'acqua. Un tempo l'accesso alla scala doveva essere stato chiuso
da una porta, ma ora non ve ne era piu' traccia. Dopo l'ultimo
scalino frono in una sala vagamente circolare, di pochi metri di
raggio. Nel punto piu' lontano da loro videro un trono, completamente
in pietra, su cui giacevano i resti quasi irriconoscibili di cio' che
era stato una mummia. Qualche pezzo d'osso era sparso sul pavimento,
mentre frammenti di metallo e forse pelliccia erano mescolati alle
polveri sullo scranno. La desolazione riempiva il resto della sala,
depredata ormai da innumerevoli anni: rimaneva solo polvere e
terriccio e foglie secche di cipresso portate li' dentro dal vento.
Escrementi di animali che avevano occupato il luogo temporaneamente,
i segni dell'acqua ruscellatavi dentro durante qualche forte
temporale e niente altro: questo era il tesoro contenuto dalla tomba.
Piu'
delusi che sollevati i due tornarono all'aperto, si stesero ed infine
dormirono, lasciando che il fuoco si spengesse. Entrambe sognarono
quella notte, ma dimenticarono i loro sogni al risveglio, e quando
l'alba giunse Maraco osservo' attentamente il panorama umido di
banchi di nebbia che il sole andava tingendo di rosa.
La
catena montuosa correva verso ponente allontanandosi da loro. E
questo disse a Maraco che erano in prossimita' del Passaggio a
Ponente, accesso alle Grandi Praterie, abitate dai selvaggi Navii,
cacciatori di antilopi, uomini piccoli e d'aspetto infantile, ma
battaglieri e insensibilmente crudeli. Nessuno cercava di avere
rapporti coi Navii, che consideravano la Gente Alta come una
differente razza, quindi da trattare alla stessa stregua degli
animali. C'erano anche viaggiatori che raccontavano di aver visto i
propri compagni uccisi e mangiati da una qualche tribu' navii, ma se
fosse vero questo Maraco non lo sapeva.
Se
loro si trovavano vicino al Passaggio a Ponente, il Linnosante era
molto lontano dalla lor attuale posizione, si disse Maraco. In
realta' non erano cosi' prossimi al Passaggio bensi' a mezza via fra
esso ed il Linnosante. Ma nessuno aveva neanche pensato, all'epoca,
di disegnare una mappa di quelle terre, cosi' difficilmente ci poteva
rendere conto di quali realmente fossero le distanze e la propria
posizione relativamente. Non esistevano bussole, solo i marinai
conoscevano la posizione delle Stelle Fisse; esistevano l'Oriente e
l'Occaso, dove il sole sorgeva e tramontava, il Mezzogiorno la' dove
il sole si levava a meta' del di' e la Mezzanotte per indicare il
punto in cui il sole non arrivava mai. Viaggiare era difficile,
facile perdere l'orientamento, specialmente se il cielo era velato di
nubi. Chi era costretto a viaggiare lo faceva mal volentieri e
seguendo solo piste conosciute, perche' ogni luogo sconosciuto poteva
celare un pericolo inaspettato; e quando si era costretti a recarsi
in terre mai visitate si ricorreva ai servizi di guide esperte,
uomini selvaggi quasi quanto gli animali di cui indossavano le pelli,
che vivevano all'aperto tutto l'anno e conoscevano tutti i trucchi
per orientarsi e trovare cibo e riparo.
-Ci
siamo allontanati molto dal fiume-, disse Maraco. -Propongo di
camminare verso Mezzogiorno, poco importa se devieremo sulla destra o
la sinistra, perche' comunque piu' avanti il Linnosante scorre da
levante a ponente e lo incontreremo sicuramente.
"Solo
sara' bene non avvicinarvisi troppo, perche' sull'altra sponda ci
sono le Terre dei Vagabondi.
E
cosi' i due guerrieri mossero verso mezzogiorno. Camminarono per
giorni in un territorio ondulato, qua e la' pianeggiante, percorso da
ruscelli e piccoli fiumi, in cui usando le lance riuscivano
facilmente a pescare trote e altri pesci con cui sfamarsi. Le sponde
di quei corsi d'acqua erano inoltre rigogliose di numerose erbe
selvatiche, nutrienti e dissetanti, che crescevano in mazzi numerosi
e potevano essere facilmente raccolte e consumate crude durante il
cammino. Quelli furono in realta' i giorni piu' facili del loro
viaggio, i meno faticosi e quelli durante i quali si nutrirono
meglio, tant'e' vero che misero su anche un chilo o due di peso.
Poi i
monti tornarono ad avvicinarsi, annunciando che la catena era quasi
al suo termine, il Linnosante prossimo, e le calde terre del
meridione sempre piu' vicine. Non gli Otto Dominii, quelli erano
ancora molto lontani, ma oltre il Linnosante la terra cambiava, si
faceva arida e le temperature crescevano, rendendo piu' difficile la
coltivazione del suolo, e gli animali di grossa taglia scomparivano
quasi del tutto. Temendo i bruti chiamati Vagabondi, primitivi e
sanguinari, ultimi delle razze preumane abitanti un tempo il
continente, Maraco e Affium contornarono gli ultimi contrafforti dei
Tsobor, procedendo parallelamente al Linnosante verso Ponente. Quando
gli Tsobor divennero una linea a malapena continua di basse
ondulazioni collinose li abbandonarono, cercando di puntare quanto
piu' precisamente possibile a meta' fra strada fra Mezzogiorno e
Ponente. Cosi' avrebbero evitato le Grandi Praterie tenendosi al
contempo a debita distanza dal Linnosante e le Terre dei Vagabondi.
E
mentre l'estate progrediva il loro viaggio progredi' di pari passo: i
monti Tsobor scomparvero alle loro spalle, nel cielo gli avvoltoi si
sostituironoai falchi e sulla terra distese a perdita d'occhio di
cespugli spinosi si sostituirono ai boschi e ai prati. Infine una
citta' comparve all'orizzonte di fronte a loro.
Era la
citta' di Tinn-Iddinh, bastione fortificato del popolo dei Torod. I
Torod, uomini dalla pelle olivastra, astuti e avidi, coltivavano
agrumi e pistacchi, la vite e l'olivo nella fascia di terra giusto
oltre il Linnosante, dalle Terre dei Vagabondi fino al mare.
Costruivano citta' cinte da mura di pietre non squadrate lungo i
confini, le strade mercantili e sulla costa; il loro entroterra era
invece disseminato di grandi masserie, anch' esse fortificate e
inacessibili, nelle quali vivevano anche centinaia di persone, dedite
alla coltivazione della terra. Erano i Torod che estraevano il sale
dalle miniere nelle Terre dei Vagabondi, coi quali erano in lotta fin
dall'inizio dei tempi. I loro miti raccontavano delle sanguinose
battaglie combattute per strappare quelle terre alle tribu' di
Vagabondi e ai giganteschi orchi che vivevano nelle numerose caverne
di cui il territorio era disseminato. La ricca tradizione orale dei
Torod parlava del loro arrivo via mare da una terra sconosciuta
dell'Occaso, dell' insediamento sulla costa alla foce del Linnosante
e della lenta colonizzazione delle terre risalendo il suo corso, dove
via via piantavano gli alberi e le viti che avevano portato con se'
dalla madre patria. Molto tempo prima avevano infine occupato tutto
quel territorio a loro congeniale, relegando i Vagabondi nella plaghe
quasi sterili dove tutt'ora vivevano, dove li avevano lasciati
indisturbati fino alla scoperta delle miniere di sale.
Tinn-Iddinh
era la piu' grande delle citta' dei Torod, l'unica presente sulla
riva destra del Linnosante, centro commerciale da cui partivano e
arrivavano le merci per e da il nord. E soprattutto fortezza
dell'unico ponte sul Linnosante. I due uomini vi si avvicinarono con
senso di timore, tanto piu' grande di Tannaria era Tinn-Iddinh, e
pensando a come dovessero essere le citta' del Meridione, al cui
confronto la citta' dei Torod si diceva fosse un piccolo villaggio.
Le sue mura alte quattro volte un uomo di grande statura,
intervallate di torri circolari su cui garrivano i narchis,
gli stendardi fatti di numerose striscie colorate che il vento
agitava in un frenetico arcobaleno contorcentesi, incombettero su
Maraco ed Affium quando questi si approssimarono alle imponenti porte
di legno scuro. Le guardie alla porta, vestivano corazze di cuoio
bollito, ed elmi conici sempre di cuoio rinforzato da stecche di
legno. I loro scudi pitturati con calce bianca giacevano appoggiati
alle rocce delle mura e loro stessemantenevano pose comode e
tutt'altro marziali. Piu' conce ad un rapinatore di strada che ad un
soldato. Ma i loro occhi scrutarono i due attentamente, valutando il
loro armamento e modo di muoversi. Non chiesero niente, ne' pretesero
pagamento alcuno, ma l'impressione che i due viaggiatori ebbero fu
che il loro comportamento fosse dovuto alla mancanza di voglia
prodotta dalla calura pomeridiana, e che in una differente occasione
avrebbero potuto decicedere di spogliarli di tutti i loro beni.
Fu
cosi' che Maraco ed Affium entrarono a Tinn-Iddinh, la piu' grande
delle citta' costruite dai Torod. Non potevano immaginare che uno di
loro non avrebbe lasciato quella citta' per riprendere il viaggio
verso il Mezzogiorno.
Mentre
i due guerrieri avevano intrapreso il viaggio in cerca dell'Uomo
Nero, Sursa, il mago di Carade, aveva seguito una sua sensazione.
Sursa non era dotato di preveggenza, ne' poteva vedere in sogno cose
che accadevano lontano da lui, o indovinare segreti celati agli
uomini, ma spesso uno strano istinto, una sensazione che gli si
annidava come un sapore ai lati della lingua, lo metteva in guardia
sulla possibilita' che accadesse qualcosa che lui non poteva mancare.
Aveva imparato a seguire quell'istinto che non lo lasciava
insoddisfatto fin quando l'evento non aveva avuto luogo, e cosi'
aveva preso a frequentare il mercato tutte le mattine, aggirandosi
fra le bancarelle e i recinti degli animali, e poi la riva del fiume
la sera, dove gli abitanti di Tannaria andavano a lavarsi alla fine
della loro giornata. Cosa aspettava, cosa cercava non lo sapeva. Ma
sapeva che doveva guardare accuratamente ogni volto che incontrava,
ascoltare ogni voce e ogni verso d'animale. L'evento stava per
comoiersi e lui non lo doveva mancare.
Fu il
mattino del decimo giorno, mentre si incamminava tra le bancarelle
del mercato, che una voce di giovane donna si levo' in un grido dalla
direzione da cui proveniva. Quella sensazione di gusto ferrugginoso
in bocca che non lo abbandonava da giorni si intensifico', e
fermatosi con uno scatto si volse a scrutare nella direzione da cui
era giunto il grido. Non individuo' la donna che aveva gridato, forse
solo per richiamare un bambino o l'attenzione di una amica, ma vide
un ragazzo alto e dai capelli neri, la pelle piu' abbronzata del
normale fra la popolazione della Terra del trifoglio, vestito di
pelle di capra, che stava come incantato a fissare la strada del
mercato. Quando i suoi occhi si posarono sul viso distratto del
ragazzo, Sursa seppe che l'evento era accaduto e la sensazione ai
lati della lingua scomparve.
A
passo svelto Sursa si avvicino' al giovane, temendo che il ragazzo
decidesse improvvisamente di scomparire di corsa in un vicolo.
-Ragazzo-,
disse Sursa gentilmente quando gli fu vicino. -Cosa guardi?
Il
giovane si riscosse e stupito volse i suoi grandi occhi neri verso il
mago.
-Mi
scusi, signore. Non stavo facendo niente di male. Mi ero solo
distratto.
Sursa
sorrise. -Certo che non facevi alcunche' di male. Ti ho solo chiesto
cosa guardavi con tanta attenzione.
Il
ragazzo torno' a guardare nel punto precedente, sollevando una mano
per indicare, ma il suo braccio si fermo' a meta' del gesto e la sua
bocca si apri' in una O.
-Non
c'e' niente... Mi era sembrato ci fosse una ragazza in quell'angolo
in ombra. Una ragazza che si versava acqua sulle spalle e le braccia
usando una ciotola di legno.
Nella
mente di Sursa baleno' l'immagine di Ancrisia, che nel suo giardino
privato passava la maggior parte del tempo vicina alla fonte,
raccogliendone l'acqua fresca in una larga e bassa ciotola di legno
per versarla sulle orribili suppurazioni che le coprivano il corpo
per affievolirne i bruciori. Ancrisia che piangeva ininterrottamente
mentre lo faceva, Ancrisia che soffriva senza alcuna colpa. Ancrisia
che pagava per un volere malevole, o che era stata scelta da qualche
potere superiore quale emblema di uno scopo misterioso.
Sursa
fisso' il ragazzo, la sua mente un subbuglio di idee e possibilita'.
La forzo' a tacere, ad aspettare, a non precorrere i tempi con
fuorvianti idee preconcette e scenari immaginati.
-Tu
non vivi in citta' ne' in uno dei paesi vicini-, disse il mago.
-No,
signore. Vengo dalle colline a Levante, sono un pastore. Mi chiamo
Parmane.
Il
mago annui'.
-E
cosa fai qui in citta'?
-Mia
madre mi ha mandato qua in cerca di un lavoro.
-Ho io
un lavoro, se ti interessa.
-Certo
che mi interessa, signore-, rispose entusiasta il ragazzo incredulo
di tanta fortuna.
Fu
cosi' che Sursa condusse Parmane alla sua casa, non distante dal
palazzo di Carade. In cambio di vitto, un pagliericio a fianco del
focolare e una piccola paga, Parmane inizio' a prendersi cura delle
cose del mago. Da principio si tratto' solo di pulire e riordinare le
stanze dove il mago dormiva, talvolta mangiava e riceveva gli ospiti,
che non erano molti, e dato che questo non richiedeva se non una
parte della giornata, Parmane curava anche l'orto e svolgeva
commissioni per Sursa. Col tempo le mansioni di Parmane divennero
piu' specifiche: Sursa lo istrui' riguardo le erbe che coltivava, su
quando raccoglierle e come trattare le varie parti e lo fece lavorare
nel giardino delle erbe, dove prima non poteva neanche strappare le
infestanti; gli fu concesso di accedere al laboratorio per riordinare
e pulire; le commissioni divennero da semplici acquisti di cibo vere
e proprie missioni per procacciare erbe ed alti prodotti che il mago
non poteva provvedere nella sua abitazione.
Poi,
una sera, Sursa accese il fuoco nel caminetto. Per scacciare un poco
di umidita' dalla stanza, disse. Parmane ne approfitto' per arrostire
alcune verdure e del pane per cena, che i due mangiarono
accompagnandolo con birra scura e amara delle terre a nord, bevanda
che il mago preferiva al vino piu' tipico fra la popolazione di
Tannaria.
Finita
la cena Sursa chiamo' il ragazzo.
-Mi
serve il tuo aiuto-, disse. -Siedi qui di fronte al fuoco.
Parmane
sedette sulla panca che Sursa aveva tirato davanti al caminetto, uno
sguardo interrogativo rivolto al mago che gli passo' alle spalle.
-Fissa
il fuoco senza distogliere lo sguardo, fissa un solo punto e non
lasciare che niente, ne' lingua bianco di fuoco ne' scintilla volante
ti distraggano o attirino la tua attenzione.
Sursa
continuo' a parlare, con voce bassa e calda come il fuoco che Parmane
stava fissando. Si chino' sulle spalle del ragazzo ed accosto' la
bocca al suo orecchio. Sussurrando prosegui' a parlare del fuoco,
mutevole e cangiante, portatore di vita e di morte, salvezza per
l'uomo e fonte di disperazione. Racconto' dei Grandi Fuochi che
ardono nelle voragini che dividono il mondo degli uomini da quello
degli dei, impedendo ai primi di raggiungere le terre dove non esiste
la morte; racconto' del Serpente di Fuoco, figlio di Argak, Signore
della Disperazione, che verra' scagliato contro l'umanita' durante
l'Ultima Battaglia alla Fine dei Tempi e consumera' il mondo intero e
i suoi abitanti; racconto' di Chioma di Fuoco, la fanciulla i cui
capelli sono fiamme danzanti, che ai primordi dei tempi dono' agli
uomini il segreto del fuoco e li salvo' dalle Bestie della Notte.
-Vedi
qualcosa nel fuoco?- chiese Sursa a Parmane.
-Vedo
un uomo, vestito di nero.
Sursa
trattenne il respiro.
-Vedo
una rocca, abitata solo da uccelli. E libri, tanti libri. Vedo
qualcuno che tiene in mano un libro, lo sfoglia. Ma sono io!
Parmane
sobbalzo', spaventato, e la visione che gli si era svelata nelle
fiamme disparve. I suoi grandi occhi neri si volsero verso il mago.
-Non
spaventarti-, disse Sursa con un sorriso. -Tua madre e' una veggente,
vero?
-Si'.
Sursa
annui'. -Hai lo stesso dono di tua madre, non c'e' niente di cui aver
paura.
-Davvero,
signore? Anch'io ho la vista come mia madre?
-Se
nello stesso modo non saprei, ma di sicuro hai la capacita' di vedere
cose che ai piu' sono celate.
"Descrivimi
nei particolari cosa il fuoco ti ha mostrato.
E
cosi' Parmane racconto' al mago cosa aveva visto. Gli racconto' di un
uomo alto paludato in nere vesti, attorniato di strani oggetti, che
gli si era mostrato solo per un breve istante prima che una lingua di
fuoco lo avvolgesse e trasformasse nello strapiombo di un monte. Su
questo strapiombo si affacciava una rocca circolare, con alte e
robuste mura. Innumerevoli uccelli volavano in circolo sopra di essa,
entrando e uscendo dalle sue strette finestre per raggiungere i nidi.
E poi aveva visto se stesso, seduto in una stanza piena di libri, a
sfogliare le pagine di un pesante tomo.
-Ma io
non so leggere-, disse quasi scusandosi.
-A
questo possiamo porre rimedio.
E dal
giorno successivo Parmane aggiunse alle sue mansioni lo studio della
parola scritta, che Sursa prese ad insegnargli personalmente usando
l'alfabeto di Aiyapaal, il grande impero che dominava le terre dove
sorge il sole, la cui lingua veniva usata da tutti commercianti delle
coste dei Mari del Sud e del Mare di Mezzo e dagli studiosi di gran
parte dei tre continenti affacciati sul Mare di Mezzo. A quell'epoica
ben pochi popoli avevano sviluppato una lingua scritta, e meno ancora
un alfabeto proprio, ma dato che quasi tutti, direttamente o
indirettamente commerciavano col grande impero, in molti avevano
fatta propria la sua lingua e il suo alfabeto, che usavano anche per
scrivere il proprio linguaggio di origine.
Studente
vorace e dal facile apprendimento, per la meta' dell' estate Parmane
fu ammesso nel laboratorio di Sursa mentre questi vi si trovava all'
opera. In grado gia' di leggere facilmente singole parole e semplici
frasi come quelle scritte sulle etichette dei vasi di terracotta del
laboratorio e della dispensa, il mago lasciava che il ragazzo lo
aiutasse nel suo lavoro e apprendesse come mescolare le erbe, le
radici e quelli che Sursa chiamava "succhi della terra".
Un
giorno, durante il quale Sursa era impegnato in una preparazione piu'
laboriosa del solito, Parmane incuriosito chiese di cosa si
trattasse.
-Preparo
una pozione per alleviare i dolori della figlia del Re.
Parmane
aveva appreso qualcosa riguardo la situazione di Ancrisia, essendo
presente mentre il mago parlava con i principali consiglieri del re,
ma non aveva idee chiare al riguardo. Sapeva solo che la ragazza
soffriva di una malattia sconosciuta che l'aveva deturpata e le
provocava acute sofferenze.
-Se e'
una pozione deve berla, giusto?
-E'
una pozione da bere, si. Ma non e' Ancrisia che dovra' berla.
-Ah
no?
Parmane
era confuso, al che Sursa sorrise.
-La
magia non sempre funziona per vie dirette, ma talvolta necessita di
intermediari. Questa pozione dovra' berla qualcun altro perche'
Ancrisia possa beneficiarne: qualcuno cosi' desideroso di alleviare
le sue sofferenze al punto da essere disposto a farsene carico almeno
in parte.
-Molti
membri della sua famiglia saranno disposti a farlo.
Sursa
divenne scuro in volto. -Non e' cosi' semplice. Quali membri,
innanzitutto? Suo padre o sua madre? Sua madre e' preda della
disperazione al punto da non credere in niente, ormai. E come potrei
permettere che il Re venga distratto dai suoi compiti in questo
momento? Ma, soprattutto, la persona che berra' la pozione deve
essere desiderosa di accollarsi i dolori di Ancrisia nel profondo del
suo cuore, perche' se non lo fosse non funzionerebbe. E neanche del
cuore di un padre o di una madre si puo' essere realmente sicuri,
perche' spesso i propri desideri piu' intimi si discostano, a nostra
insaputa, da cio' che sappiamo bene per i nostri figli. Riesci a
immaginare cosa accadrebbe se, data da bere la pozione a Carade, essa
non sortisse alcun effetto? Cosa succederebbe all'animo del Re se
dovesse scoprire che nel profondo del suo cuore non esiste realmente
un amore per sua figlia cosi' grande come lui crede? Ne verrebbe
distrutto, perche' l' Amore pensa di essere infinito e troppo spesso
non lo e'. Ma e' anche incapace di guardare a se stesso ed ammettere
i propri limiti, perche' non dovrebbe averne. E, cosi', l' Amore
costretto a guardarsi per cio' che realmente e', si vede addirittura
peggiore e inorridisce di se stesso, dimentica i suoi doveri e fugge
le proprie responsabilita', ed inevitabilmente ne muore.
"No,
non posso rischiare di fare questo a coloro che piu' amano Ancrisia e
che devono essere il pilastro di questo piccolo regno.
Quella
notte Parmane non prese sonno. Le parole di Sursa gli erano
incomprensibili. Un Amore che in realta' non ama, o non ama
abbastanza? Ripenso' ad accadimenti avvenuti sulle sue montagne, fra
la povera gente che era la sua famiglia: sua madre che si gettava
contro l'enorme cane di un pastore perche' aveva afferrato la piu'
piccola delle sue sorelle; Anture lo Zoppo, che non sapeva nuotare,
ma si era tuffato nel fiume in piena per salvare il figlioletto che
vi era caduto giocando e che ne era uscito afferrandosi ad un grosso
ramo; gli uomini del villaggio che insieme affrontavano una banda di
razziatori ardinei. Quale padre o quale madre avrebbe fallito tale
prova?
-Non
sempre le nostre azioni corrispondono ai nostri desideri nascosti,
nascosti anche a noi stessi perche' considerati sconvenienti-, gli
aveva detto Sursa cercando di spiegargli il concetto. -Cio' che
facciamo e' spesso condizionato dall'essere visti dagli altri uomini,
o perche' riteniamo che sia giusto o doveroso farlo. Ma cio' non
significa che desideriamo farlo. I guerrieri di Carade vanno in
guerra per lui: combattono ed uccidono e muoiono, perche' ritengono
che sia loro dovere fare cio' per il loro Re. Ma quanti di loro credi
desiderino veramente morire? Quanti, potendo, liberi da vincoli e
giuramenti, non sceglierebbero invece di vivere, di rimanere lontani
dai pericoli?
E se
Parmane pensava alla natura dell' Amore, cosi' come Sursa gliela
aveva svelata, questi pensava alle visioni di Parmane cosi' come il
ragazzo gliele aveva raccontate. L' Uomo Nero era certamente la
figura che per prima gli era apparsa. Ma aveva visto cosi' poco e
cosi' fuggevolmente che non poteva essere d'aiuto alcuno. La rocca
circolare sul bordo di un precipizio, una rocca ormai abbandonata da
tempo sufficiente a divenire rifugio per gli uccelli dei monti, non
doveva essere cosi' difficile da scoprire quale fosse, se essa
sorgeva in questa parte del mondo. E una rocca piena di libri, poi,
era sicuramente unica.
La
cosa singolare era che Parmane aveva visto se stesso nella biblioteca
di quella rocca. E si era riconosciuto immediatamente, quindi vi si
sarebbe trovato fra non molto tempo, prima che il suo aspetto venisse
mutato dall' avanzare dell'eta', che' la giovinezza fuggiva
velocemente a quei tempi. Ma sicuramente non prima che fosse in grado
di leggere quel libro.
Ma la
vera domanda era: in che modo Parmane, Ancrisia e l'Uomo Nero erano
collegati? Il collegamento era indubbio, ma come i due uomini
avrebbero agito nei confronti della giovane principessa? Con quali
propositi Parmane avrebbe raggiunto la biblioteca racchiusa nella
rocca sconosciuta? E vi si sarebbe recato inevitabilmente,
indipendentemente dallo svolgersi degli eventi, oppure era suo
compito, di Sursa il mago, far si' che il ragazzo vi si recasse?
Nei
giorni successivi Sursa comincio' a cercare notizie di questa rocca,
nei documenti piu' antichi, rotoli e quaderni cosi' usurati da
sbriciolarsi per un tocco disattento, e nei piu' recenti resoconti di
esploratori e mercanti. Ma non trovo' cenno alcuno, ne' nei crespi
papiri giunti dall' est, ne' inciso con inchiostro ormai sbiadito
sulle morbide cartapecore in uso fra le genti del nord del
continente. Cosi' invio' un messaggio tramite un piccione al
Bibliotecario di Rejkapur. La citta', sorta sul delta del grande
fiume Apur, era gia' all'epoca centro delle rotte commerciali del
Mare di Mezzo, e la sua biblioteca, custodita in una torre cosi' alta
che dalle navi la si avvistava un giorno prima di vedere la costa,
raccoglieva studiosi ed opere da tutto il mondo conosciuto, ed alcune
provenienti da luoghi ben oltre il piu' lontano confine dell' Impero
di Aiyapaal, da terre misteriose che si dicevano abitate ancora dalle
razze preumane e luogo di prodigi e conoscenze che agli uomini erano
state proibite dagli dei stessi.
I
piccioni sono uccelli tenaci, resistenti e veloci nel volo, anche se
dall' aspetto non pare lo siano. E sebbene siano una delle prede
favorite dai falchi non sono certo una delle piu' facili. I piccioni
allevati a Rejkapur, poi, erano di una specie che tutte queste
caratteristiche le avevano intensificate. La risposta impiego'
comunque dieci giorni a giungere, e il responsabile delle uccelliere
consegno' a Sursa il messaggio del Bibliotecario piu' o meno al tempo
in cui Maraco e Affium facevano il loro ingresso a Tinn-Iddinh.
Maraco
e Affium presero alloggio in una locanda dentro le mura della citta',
cercando di attrezzarsi nel modo piu' adeguato al viaggio verso
Mezzogiorno. Giunti ai confini dei possedimenti Torod, dove nuove
aspre terre disabitate e selvagge li avrebbero ancora divisi dai
Dominii, avrebbero reclutato una guida. Ma non avevano tenuto conto
dell'avidita' di quella gente, e fecero cosi' l'errore di far sapere
di essere gli inviati di un Re e non solo dei viaggiatori solitari.
Il proprietario della locanda penso' che gli emissari di un Re, per
quanto piccolo e lontano, dovessero avere con se molto piu' di quello
che gli avrebbe fruttato ospitarli alcune notti e procurargli le
vettovaglie e vesti che avevano chiesto. Anche rubando sul prezzo.
Cosi' chiamo' il Capo delle Guardie e disse che i due, dopo aver
alloggiato per giorni nella sua locanda, erano stati uditi
pianificare una fuga dalla citta' senza pagare il conto. E presento'
una lunga lista di cibi e vini che i due avrebbero consumato e ancora
non pagato.
Il
Capo delle Guardie prese la lista, fece arrestare Maraco e Affium
nottetempo e li trasse di fronte al magistrato senza che neanche i
due capissero cosa stava accadendo. Il locandiere fu liquidato
facendogli sapere che il giorno dell'arrivo degli stranieri era noto,
ma dato che anche il Capo delle Guardie mirava ai loro beni, invece
di scarcerarli muto' l'accusa in blasfemia. Di fronte al magistrato i
due furono accusati da uomini che non avevano mai incontrato,
sfaccendati che stavano tutto il giorno davanti alla Casa del
Magistrato in attesa che l' Accusatore li reclutasse per testimoniare
in una o l'altra delle tante pantomime che venivano recitate la' dove
invece si sarebbe dovuta accertare la verita'; e il magistrato
pronuncio' la condanna senza che i due potessero parlare per
discolparsi. Li condanno' ad essere spogliati di tutti i loro beni,
comprese le vesti che portavano addosso, in cambio delle quali
avrebbero avuto una tunica di tessuto grossolano.
Affium,
che aveva un carattere pronto all' ira, di fronte alle ingiustizie,
udendo le parole del magistrato e comprendendo infine cosa stava
accadendo, inizio' a urlare. Con un sorriso compiaciuto il magistrato
fece un cenno ed un soldato colpi' Affium alla testa. Incredulo
Maraco udi' le parole di una condanna nei confronti dell' incosciente
Affium ad essere venduto come schiavo per risarcire il magistrato
stesso dell'offesa subita, in quanto non aveva altre proprieta' con
cui risarcire il danno se non se stesso.
Tutti
i loro beni furono presi, compresa la lettera di accompagnamento che
Carade aveva dato loro, che fu accantonata in un deposito in quanto a
quell' epoca ci si curava poco degli emissari di un governante, se
questo non era vicino e potente abbastanza da muoverti guerra. E i
Torod piu' di ogni altro popolo non si curavano affatto degli
stranieri, che per loro erano tutti nemici e verso i quali provavano
solo o disprezzo o invidia, se non ambedue le emozioni insieme.
Affium fu tratto in catene e portato via, mentre Maraco, a cui
avevano dato una veste consunta, fu condotto fuori delle mura
cittadine e gli fu concesso di riprendere il suo viaggio.
All'
ombra di un boschetto in vista della citta' Maraco si fermo' a
pensare alla sua situazione. Comprendendo appieno la natura avida di
quella gente gli era chiaro che lo lasciavano proseguire verso
Mezzogiorno per un motivo soltanto: doveva attraversare tutte le
Terre dei Torod, privo di cibo o alcun che con cui pagarlo, e se
avesse colto qualcosa da un campo o anche solo preso un pesce da un
torrente che attraversava una proprieta', il proprietario avrebbe
potuto accusarlo di furto e imprigionarlo a vita come schiavo. A tali
uomini serviva solo una scusa per prendere cio' che era degli altri,
e forse i piu' tale scusa erano pronti ad inventarla.
La sua
missione si faceva sempre piu' priva di speranze, viste le condizioni
in cui si trovava. Deciso a procurarsi qualcosa con cui sopravvivere
e vendicare i torti subiti la' dove poteva, fece ritorno in citta',
scalando nel buio della notte le mura. Raggiunse la locanda dove lui
e Affium avevano preso alloggio, e preso un lungo coltello dalle
cucine entro' nella camera del locandiere. Lo udi' lamentarsi con la
moglie per il trattamento subito dal Capo delle Guardie, che si era
spartito i beni degli stranieri col magistrato senza dare a lui
niente, neanche la pigione per la notte che i due avevano passato
nella locanda. Preso da un furia gelida, agendo velocemente, Maraco
taglio' per primo la gola alla donna, e mentre il locandiere lo
guardava incredulo, lo pugnalo' al cuore.
Pulitosi
dal sangue frugo' nella camera, prendendo tutto cio' che di prezioso
trovo', e le vesti e le armi che il locandiere doveva aver sottratto
con l' inganno a qualche altro sfortunato straniero, perche' durante
il suo viaggio nessuno, vedendolo con indosso la veste di un
condannato e oro nella mano, lo potesse facilmente accusare di furto.
Lascio'
la citta' per la stessa strada da cui era entrato, quindi si
allontano' per una direzione diversa da quella che era stato visto
prendere. E viaggio' cosi' per le Terre dei Torod, per lo piu' di
notte per evitare incontri, e pieno di rabbia uccidendo quanti Torod
incontrava a viaggiare da soli, derubandoli e nascondendo i loro
corpi. E senza saperlo costrui' cosi' la sua futura rovina.
Raggiunse
infine il confine di quelle terre, trovandosi di fronte al paesaggio
aspro di una pianura costellata di rocce, con poca vegetazione e
completamente priva di alberi. Un folto gruppo di grossi animali,
simili a gatti ma grandi quanto il piu' grande cane da pastore lui
avesse mai visto, si muoveva in distanza. Non c'era acqua in quella
terra, per lo meno non dove lui era in grado di trovarla, ma solo
pericolo. Era morte certa, l'avventurarvisi.
Domandandosi
cosa fare, Maraco ripenso' alle parole del suo Re. "Il Monte
delle Bestie si trova su una grande penisola, che e' l'ultima
propaggine di quelle terre. Non distante dalla Citta' delle Ombre, il
cui porto e' il piu' grande di questa parte del mondo." Un
porto, quindi poteva raggiungere la citta' via mare. Ma quanto
distava il mare? Dato che la cosa non aveva importanza, non avendo
altra scelta, si incammino' verso l'Occaso, tenendosi a distanza
dalla pianura selvaggia ma ancor di piu' dalle proprieta' dei Torod.
Cammino'
per giorni, e quando il cambio dei venti gli disse che l'estate era
finita, giunse in riva al mare. Maraco non lo aveva mai visto, ne
aveva solo udito descrizioni da menestrelli girovaghi e mercanti. Ne
aveva avvertito l'odore gia' da molto, un odore cosi' intenso che non
poteva non capire che stava per giungere vicino a qualcosa di
completamente diverso da tutto cio' che aveva fino a quel momento
conosciuto. L'immensita' della massa d'acqua, il suo incessante e
rumoroso movimento lo spaventarono, da principio, e se ne ristette a
lungo a rimirarlo da lontano. Non poteva poi essere cosi' diverso da
un lago, anche se non aveva mai neppure sognato un lago cosi' grande,
si disse. Un lago dall'acqua velenosa, gli avevano detto, che non
poteva essere bevuta. E la lunga distesa di sabbia bruna, che
scompariva in dune dolci ad entrambi i suoi lati, priva di piante per
una lunga distanza dalla linea dell'acqua, gli confermava che
quell'acqua era velenosa.
Infine
si avvio' verso Mezzogiorno, costeggiando la spiaggia, affranto senza
neanche sapere perche', perche' non era uomo in grado di collegare
quello stato d'animo alla sensazione di sentirsi piccolo a confronto
di qualcosa che non aveva ne' voce ne' volonta' propria.
Quando
Sursa lesse la risposta del Bibliotecario non fu affatto contento. Il
Bibliotecario aveva con certezza riconosciuto la fortezza come un
antico luogo conosciuto col nome di Rocca della Speranza. Era stato
costruito ed era abitato dagli Elder, una razza preumana da sempre
restia a mescolarsi con gli uomini ma non a questi avversa. Anzi, in
piu' occasioni erano andati in loro soccorso, per poi tornare al loro
isolamento. La Rocca della Speranza era stata uno dei loro piu'
importanti insediamenti, luogo di raccolta di vaste conoscienze a cui
chiunque bisognoso di aiuto poteva rivolgersi. La Rocca era
lentamente scivolata nell'oblio: lontana dalle vie di scambio
commerciale fra i popoli circostanti, fuori dalle aree piu' ricche e
fertili, una lunga epoca di sommovimenti e migrazioni aveva
cancellato tutte le strade che vi conducevano e infine anche la sua
memoria. Al giorno d'oggi, scriveva il Bibliotecario, nessuno sa piu'
dove essa sia con precisione, ma solo che ancora esiste, abitata
dagli ultimi degli Elder, celata fra alte montagne.
Non
piu' abitata, penso' cupo Sursa, ed accantono' spazientito il
messaggio. Il Bibliotecario non gli era stato di grande aiuto.
Neanche le supposizioni sui possibili siti in cui la fortezza fosse
che aveva aggiunto in calce al messaggio lo erano. Il mago sapeva che
il tempo cominciava a scarseggiare. Della missione di Maraco ed
Affium non si avevano notizie, ma nessuno vi aveva mai riposto reale
fiducia. E nel frattempo malumori ed invidie erano andate montando in
citta'. Troppo spesso si udiva la parola ribellione, sussurrata nel
buio o detta a mezza voce alla luce del giorno. Ben presto qualcuno
l'avrebbe urlata nelle piazze.
Cosi'
si decise a chiedere l'aiuto di qualcuno cui non avrebbe mai voluto
chiederlo. Scese nel sotterraneo della casa, in una piccola stanza a
cui ne' a Parmane ne' ad alcun' altra persona era permesso l'accesso.
La porta che la chiudeva era robusta, bloccata da un grosso lucchetto
e da un divieto che solo colui che lo aveva creato poteva sciogliere,
oppure qualcuno dotato di un potere molto piu' grande. Nella stanza
vi era uno scranno, intagliato nella roccia che era il fondamento
della casa, ed ai suoi piedi una polla d'acqua nera e immota, un
pozzo dai bordi irregolari scavato nella roccia madre.
Con
una sensazione di oppressione al petto, Sursa accese un lume ad olio,
poi ando' a sedersi sullo scranno. La fiamma gialla alimentata
dall'olio emanava una luce calda e soffusa, che trasformava la figura
del mago, seduto sul seggio di roccia ma proteso al di sopra delle
acque immote, in un'ombra tremula e distorta, resa piu' grande sulla
parete curva della stanza. Con parole sussurrate inizio' la sue
evocazione, ripetendole in continuazione, sempre alla stessa
velocita' e con la stessa tonalita' ed intonazione finche' qualcosa,
nella profondita' buia della acque, prese a muoversi. Qualcosa che
come un grosso pesce pesante si distacco' dal fondo lontano e risali'
verso la voce in lenti circoli.
Lenta
l'acqua si sollevo' ed assunse una forma vagamente umana, una figura
le cui braccia erano attaccate ai fianchi e solo vagamente delineate,
la testa priva di lineamenti e deformata dal ruscellare dell'acqua,
che scorreva su tutta la superficie esterna tornando alla polla da
cui si sollevava senza pero' incresparne la superficie.
Una
risata chioccia risuono' nella piccola grotta, poi una voce dal tono
canzonatorio, stridula e piena di malizia niente affatto velata,
disse: -E cosi', alla fine, sei venuto a chiedere il mio aiuto.
Con un
sospiro Sursa rispose:-Si, Maestro. Ho bisogno di risposte e il tempo
non e' sufficiente per trovarle. Spero che mi aiuterete.
-Sai
che non posso rifiutarti il mio aiuto-, disse sempre ridendo la voce
che proveniva dalla figura d'acqua. -Tu stesso ponesti quel vincolo
il giorno che mi lasciasti, diventando il mio piu' grande trionfo e
la mia piu' grande sconfitta. Ma sai che mi prendero' il mio prezzo.
Sursa
tremo' a queste ultime parole, dette quasi in un sibilo. Ricordava la
rabbia del suo Maestro, il fuoco magico che aveva riempito le grotte
che erano la loro casa sulle Punte Aguzze, il giorno in cui, avendo
deciso di abbandonare la via meschina del suo insegnante, lo aveva
preso ad un laccio pazientemente preparato e posto su di lui un
vincolo per il quale non avrebbe potuto nuocergli in alcun modo,
fosse anche rifiutandogli qualcosa di cui aveva bisogno. Il Maestro
era un mago potente, carico dell'esperienza maturata durante una vita
allungata artificialmente, e piuttosto che perdere un apprendista per
cui aveva speso cosi' tanto addestrandolo lo avrebbe distrutto. Sursa
avrebbe potuto semplicemente porre un divieto fra se e il Maestro, ma
un po' per tema di rappresaglie indirette, un po' per spavalderia
giovanile, era andato oltre creando un vincolo potente e ampio. Ma
avrebbe dovuto aspettarsi dal suo Maestro la capacita' di infilarsi
fra le pieghe del vincolo e annidarvisi per rovinarlo in qualche
maniera, per avvelenare la vittoria di Sursa, rendere amaro il suo
successo.
Al
fuoco generato dalla rabbia, era seguita una risata, un cachinno
cosi' forte che Sursa lo aveva udito a lungo e da grande distanza
mentre scendeva dal monte. Un brivido gli aveva gelato la schiena. Il
Maestro rideva di soddisfazione, perche' nessuno fra i vari
apprendisti che aveva istruito nella sua lunga vita, prima di Sursa,
era riuscito a sfuggire al suo controllo e alle sue rappresaglie,
alle sue distruttive punizioni con le quali schiacciava ogni forma di
insoburdinazione. E questo giovane non solo gli stava sfuggendo, ma
addirittura lo aveva imbrigliato con un vincolo che non aveva
possibilita' di spezzare.
Ma il
Maestro non era uomo da sottostare ad altri, non avrebbe permesso a
Sursa di sfruttare il suo aiuto impunemente, cosi' pose a sua volta
un vincolo sul vincolo di Sursa. Un incanto cosi' sottile che Sursa
tardo' ad accorgersene, qualcosa che col tempo avrebbe dato al
Maestro la sua vendetta.
Seduto
sullo scranno di pietra, le mani strette ai braccioli con cosi' tanta
forza da sbiancarsi le nocche, Sursa tremo' in cuor suo, ma si
sforzo' di parlare e fece la sua richiesta. -Ho bisogno di trovare la
Rocca della Speranza.- Chiedere di piu' sarebbe stato inutile, lo
sapeva: curare era qualcosa a cui il suo Maestro non si era mai
interessato. Rigenerava se stesso rubando agli altri esseri viventi,
guariva le proprie ferite caricandone qualcun altro; non avrebbe
potuto aiutarlo in alcun modo a trovare una cura per Ancrisia. Ne'
tanto meno un modo per mantenere il controllo del regno, dato che il
suo potere si nutriva del disordine e della violenza. Semplicemente,
era incapace di tali cose per natura.
Il
Maestro rimase taciturno per un lungo tempo. Poi disse:-E cosi' ti
stai interessando alle ossa degli Elder. O alla loro biblioteca. Non
ne trarrai alcunche', qualsiasi cosa tu stia cercando di fare.
Neanche riuscirai ad accedere alle sale dei Figli Piu' Grandi.
"Troverai
la loro ultima casa a meta' strada fra l'alba e il tramonto, dove il
terebinto affonda le radici nelle acque amare e gli uomini salutano
sfiorandosi le labbra con la punta delle dita. Fra le montagne di
quella terra, celata in un sogno d'oppio, una porta conduce oltre
cio' che mostra. Varca questa porta e sarai sotto le mura della Rocca
della Speranza.
Prima
che l'eco dell'ultima parola si spegnesse la figura d'acqua
collasso', la massa d'acqua perse la spinta verso l'alto e cedette
crollando su stessa, ritornando interamente alla polla la cui
superficie solo per breve tempo si agito', tornando rapidamente
all'immobilita'.
Sursa
lascio' andare il fiato, il peso al petto che andava mutando nella
sensazione di una mancanza. Cosa
si e' preso questa volta?
si chiese amaramente. Quale
parte di me?
Sapeva che ben presto lo avrebbe scoperto, si sarebbe reso conto che
una lacuna si era formata nei suoi ricordi, che eventi e nomi e
conoscenze acquisite in un determinato periodo della sua vita erano
svaniti. Sursa aveva chiesto l'aiuto del Maestro alcuni anni dopo
averlo lasciato. Aveva ottenuto cio' che gli serviva, ma da quel
momento aveva avvertito una sensazione che non era in grado di
descrivere. Dopo molto tempo si era reso conto che non riusciva piu'
a ricordare alcuni anni della sua infanzia. Ma non aveva collegato la
cosa al suo Maestro, ed era ricorso nuovamente al suo aiuto,
essendosi trovato in pericolo. Questa volta aveva perso il ricordo di
una ragazza che aveva amato nella sua giovinezza. Era impossibile, a
quel punto, ignorare il collegamento fra i ricordi persi e l'aiuto
ottenuto dal Maestro. Non era ricorso piu' a lui per circa dieci
anni, fin quando si era trovato ad affrontare tre maghi che il
Maestro aveva addestrato molto tempo prima di prendere lui come
apprendista. Nessuno dei tre era al suo pari, ma insieme erano
riusciti a soverchiarlo e ben presto lo avrebbero annichilito.
L'unico modo di sopravvivere era ottenere informazioni riguardo i tre
dal Maestro, e con l'occasione gli aveva posto la domanda, si era
fatto dire come aveva fatto a sottrargli i ricordi, nonostante il
vincolo che gli aveva imposto.
-Proprio
il tuo vincolo richiede tu ceda qualcosa-, rispose il Maestro. -Si'
potente artificio richiede un prezzo per sostentarsi. Io ho soltanto
definito le caratteristiche di questo prezzo, inserendo dei lemmata
fra le maglie del tuo vincolo, troppo grande per non avere dei
varchi. Ogni qualvolta io daro' qualcosa a te, tu dovrai cedere
qualcosa di intimamente tuo a me, di pari valore e importanza.
Dopo
quel terzo aiuto Sursa si era reso conto che un intero anno di studi
era scomparso dalla sua mente: si era scoperto incapace di compiere
artifici non complessi, o incapace di ricordare il perche' qualcosa
avveniva in una determinata maniera.
E se
le conoscienze di scienza e magia aveva potuto rimpiazzarle studiando
nuovamente cio' che aveva dimenticato, cosi' non poteva essere per i
ricordi della sua vita. Quelli non poteva viverli una seconda volta
ed erano per sempre perduti. Ricorrere all'aiuto del Maestro, quindi,
avrebbe significato distruggere se stesso un pezzo alla volta,
fornendo al Maestro quella vittoria finale che il vincolo stesso era
mirato ad impedire. Il vincolo, creato da Sursa per difendersi, era
divenuto anche l'arma per distruggerlo.
I
giorni trascorsero pesanti, dopo quel faccia a faccia: Sursa
riportava alla mente fatti e conoscenze, cercando di capire cosa
mancasse; Parmane si trascinava fra i suoi compiti, come stordito ma
senza capirne il motivo. Fin quando, un giorno, assolvendo ad un
incarico del suo maestro, si reco' in uno dei giardini interni della
casa di Carade. Doveva solo raccogliere una pietra che era stata
posta vicino ad una fontana, una pietra messa in una particolare
posizione alcuni giorni prima da Sursa stesso perche' si caricasse
dell'energia necessaria ad un incanto. Parmane non sapeva che quel
giardino faceva parte delle stanze private di Ancrisia e non si
aspettava di trovarvi alcuno. Rimase interdetto quando si rese conto
che qualcuno stava seduto sul bordo della fontana, ed era sul punto
di tornare indietro per non disturbare la persona quando si rese
conto che si trattava di una ragazza. Una ragazza che, usando una
ciotola di legno, prendeva acqua dalla fontana con gesti lenti e
misurati, per versarsela sulle membra e sul collo, non nell'atto di
lavarsi, ma semplicemente per bagnarsi, come volendo rinfrescarsi
sebbene le giornate non fossero piu' cosi' calde. Come nella visione
avuta il giorno che aveva incontrato Sursa.
Incuriosito,
si avvicino' a lenti passi, cercando di non far rumore. Un soffocato
singhiozzare giunse alle sue orecchie. Comprendendo che la ragazza
stava piangendo, Parmane dimentico' ogni altra cosa: il motivo per
cui era li', la possibilita' di essere punito per aver avvicinato un
membro della famiglia reale. Quando Parmane le fu vicino, la ragazza
volse il viso verso di lui: lacrime scorrevano lente, andando a
perdersi lungo la gola, mentre con gesti misurati e meccanici,
riempiva la ciotola di legno nella polla della fonte, la sollevava e
si versava l'acqua ora su un braccio, ora su una gamba o una spalla.
Gli occhi chiari di lei erano sgranati e pieni di sofferenza: sebbene
guardasse nella sua direzione, era chiaro a Parmane che non lo vedeva
veramente.
-Perche'?-
chiese lei, e Parmane sussulto' non aspettandosi gli rivolgesse la
parola. -Perche' deve fare cosi' male?
-Io...io...
non... lo so-, balbetto' Parmane.
-Fa
male. Tanto.
Nella
voce di lei c'era cosi' tanta sofferenza che il cuore di Parmane ne
fu straziato: lo senti' contrarsi dolorosamente, come se una mano
incorporea lo avesse stretto nella sua morsa,. Una tristezza profonda
calo' su di lui. Lei piangeva e lo fissava senza vederlo realmente,
continuando a chiedere “perche'?” e lui realizzo' quanto fosse
impotente, quanto gli eventi fossero troppo spesso al di fuori della
sua portata.
Con
questo dolore in cuore e questa sensazione di impotenza in mente,
Parmane rimase vicino ad Ancrisia per lungo tempo, vergognoso di
andarsene lasciandola sola al suo dolore, pur sapendo che niente
poteva fare e il tempo speso li' non era utile neppure alla
principessa.
Infine,
dopo quanto tempo non avrebbe saputo dire, la lascio', tornando mesto
verso la casa del suo maestro, senza aver preso la pietra per cui si
era recato in quel giardino.
Quando
Sursa lo vide rientrare comprese subito la grandezza del turbamento
del ragazzo. Non gli chiese niente, tanto meno della pietra che ormai
era rimasta esposta per piu' del tempo necessario all' incanto, ma lo
fece sedere a tavola e gli servi' la cena. Parmane la mangio' senza
proferire parola, poi si diresse al suo pagliericcio dove rimase a
girarsi tutta la notte.
Nei
giorni seguenti Sursa lo sollevo' tacitamente da ogni suo incarico,
limitandosi ad impartigli solo le consuete lezioni, che Parmane pero'
seguiva distrattamente. Finche' la sera del terzo giorno dopo
l'incontro con Ancrisia, Parmane si ritrovo' solo nel laboratorio.
L'ampolla con la pozione per guarire Ancrisia di fronte a lui.
“Questa
pozione dovra' berla qualcuno cosi' desideroso di alleviare le sue
sofferenze al punto da essere disposto a farsene carico almeno in
parte”, cosi' aveva detto Sursa. Tutte la parole che il mago gli
aveva detto quel giorno erano impresse nella sua mente.
Senza
esitazioni Parmane prese l'ampolla, ne tolse il tappo di cera d'api e
ne bevve un liungo sorso. Non c'era cura conosciuta, per la malattia
di Ancrisia, in quel momento lui ne era pienamente cosciente. Ma non
poteva importargliene di meno. Se il dolore della ragazza era colpa
del ludibrio degli dei, lo avrebbe affrontato insieme a lei, se le
era stato fatto carico di una colpa non sua, avrebbero condiviso la
punizione. Semplicemente non era giusto che l'universo permettesse
che un singolo essere umano fosse caricto di tale peso. Quindi rimase
in attesa, mentre risigillava l'ampolla con la cera, chiedendosi cosa
dovesse accadere.
Lo
scopri' quella sera, mentre cercava di prendere sonno: la pelle di
tutto il corpo comincio' a bruciare, fino ad ardere come per la
febbre alta. Il contatto della pelle coi vestiti o la superficie del
pagliericcio gli era insopportabile. Era come se qualcosa bruciasse
la sua pelle dall'interno, un'energia malefica che cercasse di uscire
e distruggesse la sua pelle nel passarvi attraverso.
La
notte trascorse nel tormento, spesso con fitte acute all'addome che
lo lasciavano senza fiato, col sangue che si surriscaldava e la pelle
straziata da vampate cosi' intense di calore che gli pareva di essere
finito su delle braci ardenti. Ma neppure per un momento, neanche
nella sua parte piu' profonda, intima e segreta, Parmane si penti' di
cio' che aveva fatto. Lui non se ne rese mai conto, ma forse neppure
il piu' grande eroe della storia del regno di Tannaria, avrebbe
affrontato tale prova, con la consapevolezza che forse non sarebbe
finita fino alla sua morte, con tale disinteresse per se stesso.
Il
mattino giunse ammantato di luce perlacea, e con essa Sursa e la
notizia che quella notte Ancrisia aveva avuto un inaspettato
miglioramento: I dolori non erano scomparsi, non del tutto, ma si
erano cosi' affievoliti che la ragazza era tornata a fare una vita
pressoche' normale. Una gioia che non si aspettava di provare riempi'
il cuore di Parmane, che dimentico' la svogliatezza dei giorni
precedenti, nascose al meglio il dolore che provava, e si rituffo'
nei suoi compiti quotidiani, svolgendo loro e le lezioni che Sursa
gli impartiva con raddoppiato vigore.
In
realta' Sursa si rese conto di cio' che era successo. Di certo non
poteva sfuggirgli che il contenuto dell'ampolla era diminuito, e
sebbene Parmane si sforzasse di nasconderli, i segni e le smorfie di
dolore erano fin troppo evidenti. Ma mai un momento parmane lascio'
che il dolore lo distogliesse da cio' che doveva fare, fin quando
esso divenne un motivo di sottofondo della sua vita, una parte d'essa
che sempre c'era stata e gli aveva anche fatto compagnia. La memoria
di giorni privi di dolore scomparve.
E
cosi', con gli studi di Parmane che presero a procedere con velocita'
superiore, con Ancrisia tornata alla vita pubblica e le voci di
ribellione soffiate via, almeno cosi' sembrava, dai primi venti umidi
dell'Occaso, si giunse all'autunno.
In
autunno Maraco giunse alla Citta' delle Ombre, sbarcando da una
piccola galea nel porto dell'immensa citta'.