Lo avevo trovato alcuni giorni
prima in uno dei Rifugi, là dove l’Acido delle bombe aveva consumato il suolo
corrodendolo in profondità per metri, lasciando solo pochi manufatti di cemento
armato o di metallo ad ergersi come funghi macabri dallo strato di polvere
rossa che ricopriva il suolo. Trovare qualcuno vivo, trovare un Rifugio ancora
parzialmente funzionante, era stata una grande sorpresa. Di lui sapevo
praticamente niente, giusto quel poco che avevo potuto dedurre dalle
circostanze, in quanto lui mi aveva detto solo il suo nome, Francis, la sua data
di nascita per cui, sebbene ancora solo un ragazzetto, aveva un’ età maggiore
della mia, e il nome del suo primo amore, MaryAnn. Poi la sua mente si era
inceppata, bloccata da un orrore che non poteva sopportare. E non aveva detto
più niente.
Avevo disattivato la capsula
criogenica che lo conteneva, osservando il ragazzino mentre i dispositivi lo
risvegliavano lentamente, progressivamente. Un ragazzino di un’altra epoca, di
un tempo prima della Guerra e della terra distrutta dall’Acido. Un corpo di sì
e no dodici anni giunto da un’epoca anteriore alla mia nascita e a quella di
mio padre. Era arrivato alla consapevolezza, con lentezza, mentre gli parlavo
con una tranquillità che in realtà non possedevo, eccitato dal suo ritrovamento
come ero in quel momento. Nessuno delle centinaia di migliaia di Rifugi venduti
alla gente in previsione della Guerra aveva funzionato a lungo, le loro pile
fallendo nel sostenere i sistemi di sopravvivenza e lasciandone morire gli
occupanti nel sonno criogenico.
In principio parlai solo io,
lui fu capace di dirmi niente di più che il suo nome e quanti anni aveva.
Quanti anni aveva quando si era addormentato nella capsula. E per tutto il
tempo feci in modo di rimanere fra lui e le altre capsule criogeniche dove due
corpi in parte liquefatti, quelli dei suoi genitori immaginai, galleggiavano
nel liquido amniotico ingiallito come pus. Lo feci vestire con quello che
trovai nello scomparto sotto la capsula. Nulla di adatto ad affrontare la
Polvere, ma non volevo rischiare che la vista dei genitori morti lo shockasse.
Gli troverò altri vestiti nel prossimo Rifugio, mi ero detto. Ma non avevo
tenuto conto di una cosa.
Mentre lo sospingevo
attraverso l’uscita, costituita da due porte di cui la più interna soltanto era
a tenuta stagna e divise da una piccola anticamera, il suo sguardo cadde su un
mucchio di cenci rosa sbiadito in un angolo. Un tempo erano stati il vestito di
una bambina sul punto di diventare ragazza. Un tempo il colore doveva essere
stato rosa vivo. Le ossa della bambina sparse intorno al vestito, il teschio
ancora coperto di capelli sbiancatisi e festoni di pelle secca.
Alla vista Francis si
immobilizzò, mormorò “MaryAnn”, rabbrividì e tacque. Non disse più una parola.
Né compì una qualsiasi azione autonomamente. Mi occorsero dieci minuti buoni
per portarlo via di là, e niente di ciò che gli dissi credo lo abbia mai
raggiunto. Si era ritirato in se stesso. Alla fine lo presi per un braccio e lo
trascinai fuori.
Da quel momento camminò in
maniera automatica, con lento passo regolare e pesante, le braccia abbandonate
lungo i fianchi, spesso costringendomi a fermarmi per aspettarlo. Camminava
nella direzione su cui lo mettevo, lo sguardo perso non so dove, a contemplare
luoghi che io non potevo vedere. Gli occhi sempre più incavati in occhiaie come
due pozze scure. Mangiava quello che gli mettevo in mano, con un altrettanto
lento e ritmico movimento della mascella, a volte dimenticando di inghiottire,
continuando a masticare e masticare, mentre fissava un paesaggio che non esisteva
più, in cui camminava una bambina che non viveva più.
I giorni si susseguirono.
Durante il giorno lo spronavo a camminare: una volta provai senza alcun effetto
a pungolarlo con la punta della mia spada. La sera, seduti uno accanto
all’altro di fronte ad un fuoco di rami morti e spazzatura della civiltà
precedente, la Civiltà dei Rifugi come qualcuno dei sopravvissuti l’aveva
rinominata, gli parlavo del Cammino, il viaggio che in molti di noi compiono,
alla ricerca di altre comunità di sopravvissuti per cercare una compagna e
portare sangue nuovo nel gruppo di appartenenza. La notte non sono sicuro
dormisse realmente, credo che semplicemente il suo stato di catatonia
proseguisse inalterato dal giorno alla notte e nuovamente al giorno.
-Attraversiamo la Polvere-,
gli stavo dicendo una sera, -seguendo
i Rifugi. Contengono cibo e acqua ben conservati. Prendiamo solo il minimo
indispensabile.
Le parole che stavo per dire
dopo mi morirono in gola. Ebbi una fugace visione di ciò che Francis vedeva. La
bambina col vestitino rosa. Sporco e consumato, bruciato dall’acido, come
bruciata dall’acido era la sua carne. Emisi un ansito e la visione scomparve.
Guardai alternativamente da Francis al punto sul limitare del cerchio di luce
creato dal fuoco. L’avevo vista. Una visione fugace ma distinta.
Era questo che Francis vedeva?
Vedeva MaryAnn, la carne corrosa dall’Acido? Cercai d inghiottire, ma avevo la
gola secca. Francis teneva gli occhi fissi là dove il fantasma della bambina si
era stagliato ai confini della luce. E magari stava ancora là, almeno per
Francis. Ero io che non riuscivo più a vederlo. Ma perché, anche se
momentaneamente, ero riuscito a vederlo?
Mi addormentai con questo
pensiero e dormii male. La mia coscienza spesso risaliva verso un dormiveglia
tormentato da mormorii e lamenti che credevo di sentire. Ma vicino a me c’era
solo Francis, e lui non emetteva mai un suono.
Il giorno seguente riprendemmo
il Cammino senza che niente fosse cambiato eccetto il mio stato d’animo. La
visione della bambina sfigurata dall’Acido mi aveva turbato in un modo che non
riuscivo a capire.
Camminavamo lungo una strada
che altro non era che un percorso segnalato da pietre posate con regolarità in
mezzo ad una pianura arida. Eravamo ormai fuori dalla Polvere, e non ne avremmo
trovata un’altra zona per giorni. Eppure quella terra era vuota e silenziosa,
se non per il gemito del vento, un vento freddo che soffiava da nord. La strada
era stata tracciata durante gli anni della Nuova Alba, quando gli uomini
avevano tentato di costituire un nuovo ordine sociale e tenerlo insieme con i
Pony Express. Ma poi era finito tutto: i Pony Express erano scomparsi, molte
comunità di sopravvissuti pure a causa del numero troppo piccolo di
appartenenti, nessuno aveva più parlato di alba e gli uomini si erano limitati
a sopravvivere nel crepuscolo, abbandonando definitivamente aree come quella
che stavamo attraversando. Ciò che rimaneva della presenza degli uomini lì, dei
loro sforzi di recuperare un territorio che un tempo era stato loro, erano
pietre allineate a distanze regolari per indicare un percorso e poco altro.
Verso sera, col sole nascosto
dietro un velo di nubi alte, un sole che aveva emanato poca luce e nessun
calore lungo tutto il corso della giornata, mi fermai per l’ennesima volta ad
aspettare Francis, il cui passo lento lo faceva rimanere indietro. Mi voltai
per vedere quanto indietro fosse il ragazzo e lei era nuovamente là. Mostruosa,
gigantesca, incedeva alle spalle di Francis facendosi più vicina ad ogni passo.
Questa volta ebbi modo di osservarla per bene, il volto sfigurato, la carne
disciolta e la pelle secca che si staccava a scaglie; gli occhi perennemente
aperti perché le palpebre erano state consumate dall’Acido e così pure le
labbra su un lato del volto, scoprendo i piccoli denti regolari. La visione
questa volta non scomparve, ma si fece sempre più corporea mentre la fissavo
senza riuscire a muovermi, quasi senza riuscire a respirare. Mentre si faceva
sempre più vicina a Francis, crescendo in statura mentre gli si approssimava.
Quando la vidi distendere due
braccia anormalmente lunghe, lasciate nude dalle corte maniche a sbuffo del
vestitino in tutto l’orrore delle loro piaghe, mi riscossi.
-Per amor del cielo, Francis!-
gridai. –Corri!
Avevo portato la mano all’elsa
della spada, portata di traverso sulla schiena, ma lì mi ero bloccato.
Sfoderarla per fare cosa? Per combattere uno spettro?
Il mio grido, però, aveva in
qualche modo raggiunto Francis nel mondo in cui si era rifugiato. Il tono, la
paura nella mia voce, qualcosa aveva toccato una corda della sua psiche
spingendolo a compiere tre passi affrettati, un po’ come si fa quando
inciampiamo e cerchiamo di recuperare l’equilibrio. Solo tre passi, prima di
tornare allo stato di apatia di cui era prigioniero, ma furono sufficienti. Il
fantasma della bambina si bloccò, tremolò per alcuni secondi, quindi si
dissolse in una nebbia quasi liquida, rosea, che letteralmente cadde al suolo e
fu assorbita dalla terra arida e compatta.
Niente stava lungo la strada.
Solo io e il ragazzo, pietre deposte a distanze regolari in due linee parallele
che si estendevano e scomparivano all’orizzonte, una distesa di terra battuta e
dura come pietra color marrone chiaro e crepata. Niente altro. Francis, col suo
passo regolare da automa, lo sguardo fisso avanti a sé, mi raggiunse e mi
superò, continuando a camminare oltre di me come se io non esistessi. Se non mi
fossi scansato mi avrebbe addirittura urtato. Avrebbe continuato a camminare
per tutta la notte e i giorni successivi fino a cadere a terra stremato, se la
sera non lo fermavo io. Avrebbe camminato dentro il mare o dentro il fuoco, se
l’uno o l’altro si fosse trovato sulla sua strada.
Io continuai a fissare a lungo
la strada che avevamo percorso. Cominciavo a dubitare dei miei sensi. E allo
stesso tempo cominciavo a pensare che MaryAnn fosse reale, non solo un fantasma
che tormentava il ragazzo. Reale e solido come un senso di colpa.
Quando infine mi riscossi,
Francis era una figurina lontana sulla pianura spazzata dal vento. Mi avviai di
buon passo per raggiungerlo.
Quella notte feci fatica a dormire,
svegliandomi di frequente. Aprendo gli occhi potevo vedere Francis seduto di
fronte al fuoco ormai spento, le braccia appoggiate sulle ginocchia e il capo
sulle braccia incrociate. Non so se dormisse. Non so se quello era sonno o
qualcosa d’altro. Stava dimagrendo a velocità impressionante, il volto si stava
scavando e i tendini si facevano giorno dopo giorno più marcati. In parte era
dovuto alla marcia forzata, ma per lo più era dovuto al fatto che non si
nutriva adeguatamente. La sera non era possibile farlo mangiare più di tanto:
masticava per un po’, inghiottiva qualcosa, ma dopo un certo tempo, anche se
gli avvicinavo del cibo alle labbra, non apriva più la bocca. Certi giorni
faticavo a farlo bere a sufficienza.
Ad uno di questi miei risvegli
lo sentii mormorare distintamente delle parole. –No, papà-, disse. –Non lo
fare… non chiudere la porta.
Mi si gelò il sangue. Era il
mormorio di un sonnambulo, il parlare nel sonno di un’anima tormentata. –Non lo
fare, ti prego… Può stare con me. C’è spazio abbastanza…
E forse c’era anche dell’altro
nel suo progressivo indebolimento, c’era qualcosa, nascosto in quel paesaggio
che occupava la sua mente, che succhiava le sue forze, che gli succhiava la
vita. Un fantasma con un vestitino rosa. Un senso di colpa vecchio quanto il
suo corpo rimasto bambino.
Il giorno dopo MaryAnn
ricomparve. Una volta ancora giunse dalla stessa strada che avevamo percorso
noi, un essere sfigurato con occhi pieni di rancore, un fantasma in rosa che
crebbe passo dopo passo, incombente alle spalle di Francis.
Quando gli urlai di correre le
mie parole non sortirono nessun effetto, questa volta. E il fantasma si fece
più vicino, più minaccioso. Non so quali fossero le mie paure, cosa temessi una
visione potesse fare. In fondo si trattava di una proiezione della mente di
Francis. Non poteva fargli del male, no? Ma spinto da un impulso irrazionale
fui io a correre: corsi verso MaryAnn, mi piantai sulla strada fra le sue
braccia allungate e Francis, mi piantai lì a sbarrarle il passo.
-Vattene!- urlai. –Lascialo in
pace! Non è colpa sua.
Cosa credevo di fare non lo
so, ancora non l’ ho capito. Il fantasma di MaryAnn proseguì come se io non
avessi parlato, come se non esistessi. Non era minimamente cosciente della mia
presenza. Proseguì a camminare dietro a Francis, proseguì fino a toccarmi.
Sentii le sue mani toccarmi,
affondare gelide nel mio petto, rimescolarmi le viscere, stringermi il cuore
nel tentativo di fermarlo. Sentii il gelo correre nelle mie vene, un gelo così
freddo da bruciare, e mentre nei miei muscoli esplodeva un fuoco che bruciava
come l’Acido doveva aver bruciato la carne di MaryAnn, ogni respiro che inalavo
portava il gelo giù per la gola fino in fondo ai miei polmoni.
Mi risvegliai in posizione
fetale sul suolo vetrificato. Squassato da brividi come quelli portati dalla
febbre alta, fui assalito da un conato di vomito che mi costrinse a rotolare
sulla pancia per non insudiciarmi con la mia stessa bile.
Piansi, tanto era il dolore
che mi scorreva su e giù per le membra, artigliandomi i muscoli della schiena,
contraendoli come nel tentativo di usarli per spezzarmi le ossa, congelandomi
il midollo nella spina dorsale. Stordito dalla nausea e dalla debolezza, gli
occhi ancora velati dalle lacrime, alzai la testa.
Non c’era niente intorno a me.
Solo il vuoto di una pianura morta. E una figurina piccola piccola
all’orizzonte. Nessun fantasma di bambine in vestitini rosa.
MaryAnn aveva sostanza.
Francis provava un così forte senso di colpa da dare sostanza, corporalità ad
una sua proiezione mentale. Aveva creato un ectoplasma e lo aveva riempito del
rancore che lui riteneva il suo amore morto dovesse provare nei suoi confronti.
E se questo ectoplasma, questo spirito vendicativo, era così forte da
presentarsi di tanto in tanto nel mondo reale, quanto terribile doveva essere
la sua presenza nel mondo immaginario in cui Francis si era rifugiato. Un mondo
fatto di ricordi, pensavo, assemblato con frammenti di un altro mondo ormai
perduto, un nascondiglio da usare per sottrarsi al senso di colpa. Ma lui
stesso aveva portato con sé la sua condanna, una condanna che aveva emesso da
solo nei suoi stessi confronti.
C’era un modo per strapparlo
da quel paesaggio fantasma percorso da bambine in vestitini rosa?
Mentre mi ponevo questa
domanda facemmo ingresso in un panorama nuovo, un angolo di terra che, sebbene
devastato dalla Guerra e minacciato dalla Polvere, che il vento trasportava nel
tentativo di avvelenarlo, ancora sopravviveva e respirava. Un piccolo fiume era
il suo confine. Un fiume che un tempo era stato immenso, ma che ora era ridotto
ad basso corso di acqua fangosa: in parte stagnante, fra due sponde senza fine
discendenti verso l’acqua, fra distese di ciottoli, pile di massi e macigni
solitari affondati in pozze di fango rappreso e crepato come il sangue in un
mattatoio. Piante contorte crescevano nell’alveo prosciugato: piccoli alberi
piegati nella lotta per sopravvivere, cespugli spinosi, erbe dalle foglie
cerose, graminacee in folte masse di vecchie foglie secche che facevano da
schermo e protezione alle poche nuove foglie verdi. E animali, pure: strani
anfibi nelle pozze fangose, pesci sinuosi che guizzavano a nascondersi sotto le
pietre o piatti che si mimetizzavano con la sabbia del fondale delle buche nel
momento in cui ci avvicinavamo.
Passato il fiume cominciammo a
vedere i resti di antichi insediamenti. Alcuni precedenti la Guerra: una linea
di edifici maestosi che si allungava all’orizzonte, vicino all’originale sponda
del fiume correndo via da essa; altri, più umili edifici eretti con legno e pietre
prese al fiume, o ciò che di loro restava, indicavano dove gli uomini avevano
tentato di insediarsi durante la Seconda Alba.
Tutto parte del passato,
ormai. Un passato da cui proveniva Francis, pensai gettandogli uno sguardo di
sguincio. Un passato da cui il ragazzo non poteva o, più probabilmente non
voleva, distaccarsi. I ricordi di giorni felici sono un luogo facile da
raggiungere per chi tenti di sottrarsi alla realtà.
La realtà di Francis era che
MaryAnn, la ragazzina che aveva amato di un amore innocente e stupido come solo
i bambini sono capaci, era morta. Era morta tanto tempo prima, in circostanze
di cui lui non aveva alcuna responsabilità. Circostanze decise da altri. Ma
l’ignoranza della fanciullezza fa di noi il centro dell’universo, fin quando
l’arroganza dell’età adulta mal vissuta sopraggiunge a sostenerne il diritto
d’essere. Ma mentre l’età adulta è fornita di quel senso di autoconservazione
che porta a colpevolizzare soggetti differenti da noi stessi, la fanciullezza,
che ne è completamente sprovvista, si autoaccusa di colpe non sue.
Francis era intrappolato in un
mondo che aveva costruito in cerca di salvezza, intrappolato là per essere
tormentato da un amore perduto, e l’ectoplasma di MaryAnn, formato e guidato
dal rancore che lui stesso le attribuiva, si materializzava nel mondo reale per
portarlo definitivamente nel paesaggio sorto dalla sua mente.
Non avevo idea di come
aiutarlo. Potevo solo cercare di ostacolare l’ectoplasma, sperando che
quell’ingranaggio fermo nella mente del ragazzo si sbloccasse. E così feci quando MaryAnn si presentò ancora.
Ci eravamo accampati tra i
ruderi di una vecchia fattoria. Eravamo ormai lontani dal fiume, la cui acqua
nel periodo successivo alla Guerra e durante la Nuova Alba doveva essere stata
più abbondante e la cui carenza era stata poi la causa dell’abbandono degli
insediamenti. Numerosi edifici ormai diroccati erano stati costruiti
intorno ad un pozzo poco profondo, ma, come sospettavo a causa della
vegetazione che cresceva folta tutt’intorno, ancora ricco d’acqua. L’acqua
risultò non solo facile da attingere con un recipiente di fortuna, ma bevibile
e pulita come fosse di sorgente. Mi chiesi come mai la fattoria era stata
abbandonata. Il numero e dimensione degli edifici indicava che qui era vissuta
una comunità numerosa. E gli alberi e i cespugli che adesso stavano crescendo
fin dentro le mura diroccate un tempo dovevano essere stati un anello di
vegetazione che proteggeva la fattoria dai venti. Il terreno non pareva
contaminato, né arduo da coltivare come sull’altra sponda del fiume.
Accesi il fuoco al riparo di
un muro solitario, la fiancata di un fienile o di un ovile, poi attinsi l’acqua
dal pozzo. Intendevo cucinare una zuppa liofilizzata presa in un Rifugio.
Quando alzai lo sguardo dal pozzo vidi che MaryAnn era nuovamente comparsa.
Avevo lasciato Francis con la schiena contro il muro, ed ora era una figura dai
contorni resi nebulosi dal calore irradiato dal fuoco dietro il quale sedeva.
Il gelo che emanava dall’ectoplasma divenne immediatamente percepibile.
Scivolando lungo il muro, una figura che nonostante camminasse ingobbita
superava i tre metri di altezza, andava avvicinandosi al ragazzo, le braccia
protese e smisuratamente lunghe. Ulcere rosse marcavano gli avambracci dalla
carne consumata, le dita delle mani erano mozziconi e appuntite ossa scoperte,
mentre i capelli stopposi e sbiancati le ricadevano ai lati del viso.
Non te lo
lascerò prendere, pensai. Non ne hai diritto.
Sguainai la spada e mossi a
lunghi passi decisi verso l’ectoplasma.
-Vattene!- urlai.
Questa volta il fantasma di
MaryAnn si rese conto della mia presenza. Il viso dilaniato si voltò lentamente
verso di me, fissandomi con occhi incapaci di chiudersi, occhi pieni di un
rancore bruciante. Il suo odio era così palpabile che mi colpì come un pugno,
mozzandomi il respiro. Mi arrestai, cercando di respirare, la spada impugnata
con entrambe le mani. Poi gli occhi di MaryAnn tornarono a posarsi su
Francis e io fui libero: a lunghe falcate, in silenzio, piombai su di lei aggirando
il fuoco. Le sue braccia andavano allungandosi verso il corpo inerme del
ragazzo, allungandosi ancor di più, snodate come tentacoli, quando calai la
spada con tutta la rabbia e la forza che avevo in corpo.
La lama mozzò una delle
braccia, vicino al gomito. L’ectoplasma emise un grido acuto, io mi paralizzai
attraversato da un’ondata di gelo che passò dalla spada alle mani e ai polsi,
per poi risalire veloce fin sopra i gomiti, fino alle spalle, avvolgendomi la
gola come mani che tentavano di strangolarmi, affondando dolorosamente nei
muscoli delle spalle come dita di acciaio, e poi giù per la schiena fino alle
gambe. Queste cedettero, totalmente irrigidito caddi su un fianco e urtai il
suolo con una spalla, sbattendo poi il lato della testa. L’ultima cosa che
ricordo, prima che l’oscurità mi avvolgesse annichilendo i miei sensi, fu un
forte dolore all’orecchio sinistro.
Piano piano il calore del
fuoco sulla schiena, o per meglio dire quel calore che andava scemando,
richiamò il mio corpo fuori dall’insensibilità che il tocco gelido
dell’ectoplasma mi aveva trasmesso. Col ritorno della sensibilità la diga del
dolore si aprì e questo invase il mio corpo come una fiumana, fluì in ogni
parte di me lungo vene ed arterie.
Il fuoco si era quasi estinto
quando mi risollevai boccheggiando, braccia e gambe scosse da tremiti,
singhiozzi di pianto repressi nel petto. Niente ectoplasmi in vista, nessun
fantasma, nessuna bambina. Nessun vestitino rosa. Ancora una volta soltanto io
e Francis, e il suo rancore che bruciava senza scaldare, solo consumando ciò
con cui veniva in contatto. Mi sforzai di aggiungere legna al fuoco perché non
morisse: lo feci bruciare alto perché il calore delle fiamme scacciasse il gelo
dal mio corpo.
Seduto sul lato del fuoco
opposto a quello dove stava Francis lo osservai. Il volto era ormai affilato,
gli zigomi sporgenti, gli occhi totalmente infossati nelle orbite e circondati
da occhiaie nere. Ormai era un guscio, un guscio sottile, consumato dall’interno
e vicino a creparsi. Ma conteneva qualcos’altro oltre al rancore, al senso di
colpa? C’era, là dentro da qualche parte, qualcosa del ragazzino che era stato,
il bambino di un’altra epoca? C’era ancora una scintilla da cui poter partire
nel tentativo di recuperarlo? C’era rimasto qualcosa per cui valeva la pena di
lottare?
I suoi occhi vuoti e
inespressivi non davano nessun indizio.
Sollevandomi con uno sforzo,
facendo perno su una mano, recuperai la mia spada e feci per allontanarmi.
-Vado a fare un po’ d’acqua-,
dissi colto da un ripensamento, voltandomi a guardarlo. Nessuna risposta,
nessuna reazione. Che gli parlavo a fare? A lui che i suoi bisogni se li faceva
per lo più nei calzoni, ridotti ormai ad una crosta dura e maleodorante. Con un
sospiro mi allontanai fino ad una macchia di cespugli.
Mentre urinavo mi guardai
intorno nel buio, osservando i contorni spezzati dei muri crollati, chiedendomi
ancora una volta perché i suoi abitanti avessero abbandonato quel luogo. La
vegetazione che cresceva rigogliosa indicava un terreno fertile. I prati che
avevamo attraversato nei giorni precedenti erano adatti alla pastorizia. Perché
quel luogo era stato abbandonato? Troppo tempo era passato perché fosse
possibile stabilirlo.
I rami degli alberi stormirono
mossi dal vento. Poi crepitarono, agitati con maggior vigore. Ma da quale
vento? E poi accadeva solo alla mia sinistra. Le
piante alla mia destra erano completamente immobili!
Mi riallacciai le brache in
fretta e furia e mi avviai verso la relativa sicurezza del fuoco,
improvvisamente inquieto. Ogni movimento della vegetazione si era fermato nel
momento stesso in cui io mi ero mosso. Coincidenza? Può essere stata
una folata di vento isolata, talvolta si generano e subito si esauriscono, mi
dissi. Ma cercavo solo di tranquillizzarmi.
Quando giunsi in vista del
fuoco capii che la comunità che un tempo aveva abitato questa fattoria non se
ne era andata. Non l’aveva abbandonata. Era stata
portata via.
Erano strisciati fuori dalla
vegetazione fra gli edifici e giù lungo il muro diroccato, sostenuti da lunghe
zampe sottili. Ragni, grossi come cani. Il più grande, calatosi giù lungo il
muro proprio sopra la testa di Francis, aveva già iniziato ad avvolgerlo nella
sua tela.
-Francis! Svegliati!
Spada in pugno avanzai verso
quelle mostruosità venute fuori da chissà dove. Erano circa una decina, meno di
una decina. Oltre al ragno che stava avvolgendo Francis, un paio erano grandi
come un cane di grossa taglia, ma gli altri erano poco più grandi di un gatto.
Con sibili rabbiosi i ragni si
volsero a fronteggiarmi, muovendo verso di me tutti contemporaneamente, spinti
da movimenti veloci delle loro zampe sottili. Tagliai in due il primo che mi
arrivò a portata, sempre urlando per richiamare l’attenzione di Francis, per cercare
di svegliarlo. Un secondo ragno, un altro di quelli più piccoli, si lanciò
verso di me solo per finire ribaltato con due zampe mozzate. Poi abbattei la
spada verso la testa di uno dei più grossi. L’aracnide sollevò una zampa
uncinata ad intercettare il mio colpo, deviandolo, ma si ritirò sibilando di
dolore.
-Francis!
Nessuna risposta, nessuna
reazione. Il ragno gigante continuava la sua opera, avvolgendolo in un bozzolo
giallastro che andava facendosi sempre più spesso. Lo strato era ancora
semitrasparente, ed ero sicuro che se mi sbrigavo avrei ancora potuto
strapparlo a mani nude. Roteando la spada a due mani mi mossi per raggiungere
il ragazzo ed il mostro che lo aveva catturato.
Mi trovai la strada sbarrata
dai due ragni, mentre i loro compari più piccoli mi assalirono sui fianchi. Fui
costretto ad arretrare un paio di passi, uccisi uno dei ragni più piccoli, ne
scalciai via un secondo e tagliai una zampa ad un terzo. Poi riuscii ad
affondare la punta della spada fra gli innumerevoli occhietti neri di uno dei
due bestioni. La sua ritirata mi aprì un varco verso Francis, ma come mi mossi
per raggiungerlo i rami degli alberi ripresero a crepitare, i cespugli si
agitarono e vomitarono innumerevoli altre creature, ragni grandi come gatti,
ragni enormi come pastori danesi.
-Francis!- urlai. I ragni
erano troppi perché ci fosse qualche speranza di raggiungerlo. Non senza che
lui lottasse per raggiungermi.
Urlai, ed urlai ancora, mentre
a colpi di spada e calci tenevo i mostri indietro, correndo a destra e sinistra
per non essere circondato. Cedendo terreno, lentamente, ma allontanandomi dal
ragazzo metro dopo metro. Urlavo con voce quasi rotta dalla disperazione.
Ed a quel punto incrociai il
suo sguardo.
Sì, i suoi occhi fissavano me,
da una fessura ancora rimasta nel bozzolo che ormai lo avvolgeva quasi
completamente. I suoi occhi, che erano stati vuoti e spenti e sperduti in
paesaggi perduti, si erano puntati su di me. Erano gli stessi occhi di MaryAnn.
Pieni di rabbia e rancore. Francis mi odiava, realizzai improvvisamente. I
ragni mi si strinsero intorno.
Mi girai e corsi via. Fuggii nelle tenebre.
Fuggii e abbandonai Francis,
lo abbandonai ai ragni, al suo destino. Abbandonai il ragazzo nel paesaggio
morto di un mondo scomparso, un paesaggio forse di prati verdi percorso da
bambine in abiti rosa.
Lo abbandonai alla sua
memoria, alla memoria del mondo che aveva conosciuto e dell’amore che aveva
perduto ancor prima di comprendere cosa l’amore fosse. Lo abbandonai al suo
ricordo di MaryAnn, a cui io avevo cercato di strapparlo. Lo abbandonai in un
mondo fantasma in compagnia del fantasma di una bambina che là, nella mente di
Francis, adesso lo sapevo, non mostrava alcuna cicatrice sulla sua carne. Corsi
nel buio, fuggii lontano.
E non vidi più fantasmi di
bambine con vestitini rosa.