Saturday, 8 October 2011

Il Cavaliere d' Autunno

Cronologicamente questo racconto precede "La Terra dell' Estate", spiegando l' origine degli Spiriti della Terra e del bando che il Leone dell' Estate aveva posto sullo spirito che al termine della storia giungeva al lago conducendo per le briglie un cavallo roano.




Chiusa nella sua torre Erhis, figlia del Signore di Croanor, esteriormente immobile fremeva internamente per l’ attesa, mentre stava davanti alla finestra da cui cercava invano di scorgere cosa accadeva sul Campo di Baldwin. Dietro di lei la sua governante e le sue tre ancelle tremavano e si lamentavano, sprofondate sul divano e le poltrone del salottino privato.
Le mani della giovane smisero di stringersi convulsamente per andare a tormentare ora il colletto della veste, ora le lunghe trecce in cui i capelli dorati erano raccolti. Erhis si morse delicatamente le labbra: le riusciva incomprensibile come il boschetto dei liquidambra, con le foglie che si arrossavano in autunno, che fino a quel giorno era stato per lei una vista tanto amata, fosse divenuto all’ improvviso motivo di rabbia e frustrazione. Quando era bambina, ricordava che gli alberi ancora giovani permettevano di scorgere le sommità dei padiglioni e gli stendardi che garrivano al vento ai margini del Campo di Baldwin durante i tornei estivi. Con gli anni gli alberi erano cresciuti, ed ora le cime dei liquidambra chiudevano completamente la vista della piana in cui suo padre, alla testa dei suoi pochi cavalieri, della guardia del castello e dei villici frettolosamente armati, stava affrontando l’ attacco dei Ruach- carnach, i feroci abitanti dei monti.
Grida, nitriti e tintinnare dell’ acciaio giungevano fino alla torre, trasportati dal vento, ma non permettevano minimamente di capire quale fosse il volgere della battaglia, aumentando invece l’ incertezza.
Il giorno scorse lento. Erano gli ultimi giorni estivi, prima del sopraggiungere dei temporali e poi dell’ autunno. Le messi erano state raccolte, trebbiate e riposte nei granai; gli armenti erano grassi per i pascoli estivi, i vitelli e i puledri erano stati svezzati. Come tutti gli anni, era questo il momento che i predoni dei monti avevano scelto per attaccare. Ma non avevano mai condotto un attacco in così gran numero. I vari clan dovevano essersi riuniti sotto un unico capo per riuscire a mettere in campo un esercito così numeroso invece delle solite bande male attrezzate e ancor peggio organizzate.
Fu circa un’ ora prima del tramonto, mentre l’ aria già diventava troppo fresca per rimanere al balcone, che gli stendardi verdi di Colin, Signore di Croanor, fecero la loro comparsa da dietro il boschetto dei liquidambra. Con un grido di gioia Erhis lasciò la finestra e corse nella piazza d’ armi ad attendere il padre e i suoi cavalieri insieme agli altri abitanti del castello.
I guerrieri fecero il loro ingresso sporchi e stanchi, alcuni feriti e portandosi dietro numerosi destrieri senza cavaliere, ma con gli elmi appesi alle selle e sui volti segnati avevano dei sorrisi per la vittoria conquistata. Colin scese da cavallo con l’ aiuto dei suoi scudieri, coperto di polvere e sangue.
-Erhis-, disse sorridendo, -prenditi cura di tuo fratello.
Il giovane Coller fu fatto scendere anche lui dal cavallo, e mentre la sorella gli si avvicinava disse: -Non è niente di grave, una ferita leggera.
Senza rispondere Erhis controllò la freccia che spuntava tra le piastre dorsali dell’ armatura di Coller, all’ altezza della spalla sinistra.
-Mi hanno colpito verso la fine degli scontri.
-Sei fortunato che fosse un arco e non una balestra, altrimenti sarebbe andata più a fondo.
Vieni, mentre ti medico mi racconterai della battaglia.
E così, mentre Erhis aiutata da un paggio smontava le piastre della corazza, estraeva la freccia e procedeva a pulire e medicare la ferita, Coller le raccontò la battaglia.
-Non credevo che sui nostri monti vivessero così tanti clan: c’ erano il Lupo e l’ Orso, il Tasso, il Cervo e il Cinghiale, l’ Aquila e il Salmone, i Lupi Grigi e i Cani Feroci; e poi stendardi che non avevo mai visto, con un puma e un cinghiale in lotta, un falco che ghermisce un serpente, una vipera pronta a mordere e un cinghiale cintato. Ed altri ancora che non sono riuscito a distinguere perché erano lontani. Noi eravamo poco più di cinquecento, contando i villici, ma i Ruach-carnach ci erano superiori almeno di cinque volte. Era Freich il Sanguinario, del clan dei Lupi Grigi a guidarli: sia io che nostro padre abbiamo cercato di raggiungerlo, ma si è sempre tenuto lontano da noi.
Coller si interruppe, volgendosi a fissare sua sorella, lo sguardo cupo. -Abbiamo vinto solo perché non avevano cavalli e non erano in grado di tener testa alla carica della nostra cavalleria, ma anche così molti dei nostri non ce l’ hanno fatta. Ho visto Kellar di Ponte Lungo venire tirato giù di sella e finito a colpi di accetta, e il giovane Melar, il figlio del mugnaio, letteralmente sbranato da un bruto con la bava alla bocca reso folle dal sangue. Ma la metà di loro è morta, e i Ruach non saranno in grado di recarci danni per molti anni, vedrai.
Nostro padre ha dato ordine di dare degna sepoltura a ciascuno dei nostri caduti al margine est del Campo di Baldwin, là dove a primavera spuntano i crochi e i bucaneve, mentre i Ruach-carnach verranno bruciati su delle pire nel centro della piana. Ah! Stai tranquilla: ha dato ordine ai boscaioli incaricati di fare legna per le pire di non toccare i liquidambra a cui tieni tanto.
Erhis annuì, con un groppo in gola ed incapace di dire al fratello che avrebbe voluto vedere tagliato alla base fino all’ ultimo degli alberi del boschetto.

Il fumo nero delle pire su cui venivano arsi i Ruach-carnach salì ad oscurare il cielo per cinque giorni, appestando l’ aria del castello e del villaggio che gli sorgeva vicino; la cenere si sparse sulle vie di terra battuta e sui campi ancora da dissodare in vista delle semine. I pianti delle donne invece si levarono per sette interi giorni, poi il lutto dovette essere accantonato per tornare ai lavori quotidiani in vista dell’ inverno. E se anche c’ erano meno braccia per lavorare i campi, quell’ autunno, ci furono anche meno bocche da sfamare, e il numero dei cavalieri dimezzato richiese meno soldi per le rendite, che furono coperte dalla vendita delle spoglie di guerra: poche armi valide e ancor meno corazze e usberghi di maglia di ferro, ma molte pellicce e trofei di caccia, corni e vesciche per bere, alcuni buoni archi e corde di tendine d’ orso molto ricercati dai signori del sud per andare a caccia, carne essiccata e otri di pelle pieni del forte liquore di bacche di prugnolo. Così la mancanza di braccia per lavorare fra la popolazione del villaggio e delle campagne della Signoria fu compensata dall’ abbondare delle scorte alimentari e dallo sgravio delle tasse per la popolazione, e se al centro del Campo di Baldwin il terreno rimase nero e l’ erba non vi crebbe per due anni, al suo margine orientale le ondulazione dei tumuli divenne, in primavera, prima bianca per il germogliare dei bucaneve, poi, quando le giornate si fecero più calde, gialla e viola per la distesa dei crochi prima e degli anemoni poi.
E come aveva detto Coller i Ruach-carnach non furono più un pericolo per molti anni, tanto che le campagne e i boschi furono sicuri fino ai piedi dei Monti di Carnach, ed anche sui pascoli estivi in alta quota le ruberie divennero rare. La selvaggina ripopolò le montagne e i predatori naturali, lupi, volpi e tassi, non si fecero più vedere a valle neanche d’ inverno.
Fu in questo clima di serenità e sicurezza che Erhis prese l’ abitudine di fare lunghe passeggiate da sola e nessuno ebbe da ridire. Quasi sempre a piedi, raramente sul suo pony grigio, la ragazza cominciò a passeggiare nei campi alle spalle del castello, in esplorazioni che la conducevano via via sempre più lontano, fino a percorrere i boschi e i sentieri delle colline. In principio si limitò a raggiungere la tomba di sua madre, che aveva voluto essere seppellita vicino alla Cascata dell’ Arcobaleno, dove il Rio Acquaneve precipitava lungo una parete di roccia alta trenta metri in una cascata di tre salti, infrangendosi nel secondo su uno sperone di arenarie, così che la grande pozza sul fondo della cascata era perennemente sovrastata da un arcobaleno. In quel luogo, durante l’ estate, Erhis e suo fratello venivano portati spesso dai loro genitori a passare le giornate più calde e trascorrevano il pomeriggio nuotando nella vasta pozza. E lì, sul letto di morte, la madre dei due ragazzi aveva chiesto di essere seppellita.
La tomba era stata scavata alla base della parete di roccia, al limitare della spiaggia di ciottoli scuri e grigi, guardata dall’ alto da una statua in grandezza naturale della moglie che Colin di Croanor aveva fatto realizzare da un artista chiamato appositamente da Brunwick, la capitale. Erhis si recava spesso in questo luogo, dopo la Battaglia del Campo di Baldwin, specie nel mese di maggio, quando i rosai che Colin aveva fatto piantare sulla tomba aprivano i loro bocci ed esibivano le corolle di bianchi petali contornanti i pronunciati stami giallo-oro. Rimaneva a lungo assorta a fissare la statua della madre, di marmo bianco venato di scuro giunto dalle lontane cave della costa meridionale, coi capelli sciolti sulle spalle, un cesto di fiori e frutti nell’ incavo del braccio sinistro, il braccio destro levato in una sorta di benedizione e i rosai profumati cresciuti a nasconderla fino all’ altezza della vita. Un’ edera dalla piccole foglie variegate, radicata nelle crepe della parete di roccia, scendeva a incorniciare la statua in un arco di festoni che il giardiniere del palazzo curava meticolosamente.
E se in primavera la Cascata dell’ Arcobaleno era la sua meta preferita, in inverno amava percorrere le rive del piccolo Lago Specchio, la cui superficie ghiacciata diventava la pista per i pattini dei bambini e dei giovani, oppure spingersi fino al più grande Lagoscuro, alla base del monte Puntaspezzata, contornato di giovani abeti argentati, a guardare il passaggio sulla strada per Brunwick delle grandi slitte dei mercanti di pellicce trainate da cavalli dai ricchi finimenti carichi di campanelli tintinnanti. La dura sconfitta inflitta ai Ruach-carnach aveva reso più sicure le strade montane, i cacciatori di pellicce erano aumentati e gli stessi abitanti delle montagne avevano dovuto iniziare a vendere ai mercanti delle Terre Basse, con un incremento dei traffici nella Signoria di Croanor e un aumento della gittata delle tasse per le casse di Colin.
Le maggiori entrate permisero a Colin di indire ancora tornei estivi per assoldare nuovi cavalieri che rimpiazzassero coloro che erano caduti sul Campo di Baldwin. E durante i suoi vagabondaggi Erhis li vedeva arrivare dalla strada per Brunwick, che si trovava a sud-est, o scendere dai passi montani di Pelcan e Serrafredda, giungendo dalle piccole signorie straniere dell’ Esvenia, la Terra dei Fiordi. Altri arrivavano dai Principati dell’ Ovest, lungo le polverose strade che tagliavano gli sterminati campi di frumento, orzo e farro, oppure sulla Pista Orientale, che giungeva dal porto fluviale di Castel Franco sul Colle, dove il Re aveva istituito un libero mercato per le merci che viaggiavano sul grande fiume Alcare. Tutti loro cavalcavano fieri tenendo alti i propri colori, che fossero soli, accompagnati da un singolo scudiero o da un seguito numeroso; alcuni, incontrandola, si fermavano per chiederle informazioni sulla strada che rimaneva per il castello, o per elargire complimenti sulla bellezza sua e di quella terra di frutteti e campi verdi di cereali e pascoli fioriti. A tutti loro Erhis rispondeva con cortesia per proseguire solitaria nei suoi vagabondaggi.
Ma era l’ autunno la stagione che la fanciulla prediligeva, perché la commemorazione dell’ anniversario della Battaglia del Campo di Baldwin era ormai alle spalle, non c’ erano più feste popolane i cui preparativi l’ avrebbero impegnata e la prossima festa religiosa coi suoi digiuni e cordogli era lontana nel mezzo dell’ inverno. Così, sebbene le giornate andassero accorciandosi rapidamente, aveva molto tempo libero per le sue passeggiate. E se i mattini erano freschi, nel pomeriggio la terra rilasciava il suo calore e i suoi odori; poi i colori che si accendevano nel bosco e nelle siepi di confine dei campi la ammaliavano e riempivano di stupore a fronte di tanta bellezza e fantasia. Il boschetto dei liquidambra, tornato ad essere uno dei luoghi preferiti di Erhis, con le foglie che da verdi diventavano rosse, il giallo pallido dei pioppi e il color oro bruciato di querce e frassini. In questa stagione i suoi giri la portavano alle pendici dei Tre Fratelli, le vette più basse dei Monti Carnach ma i più vicini al castello, riserva di caccia personale della sua famiglia. Le guardie forestali mantenevano aperti i sentieri e pulite le radure coi capanni di sosta, ma l’ intervento umano era ridotto al minimo. Sotto i castagni cominciavano ad accumularsi i ricci e le castagne e i marroni, mentre le prime foglie brune cominciavano a cadere. Le macchie di rovi cominciavano ad arrossarsi e le bacche di prugnolo a farsi nere e quelle delle rose canine erano già rosse, mentre dentini, steccherini dorati e finferli crescevano mescolati alle amanite, ai celestini e ai cimballi: il fondo bruno del bosco era punteggiato di giallo, bianco, rosso e del viola chiaro dei ciclamini.
Fu durante una delle passeggiate, il terzo autunno dopo la Battaglia del Campo di Baldwin, che vide, in lontananza, un cavaliere. Montava un possente destriero roano, lanciato al galoppo lungo una stretta strada delimitata da siepi di biancospino. Viaggiava in direzione del castello ed Erhis immaginò si trattasse di un messaggero inviato a suo padre da qualche Signore confinante. Ma quando fece rientro e chiese del cavaliere nessuno lo aveva visto: che fosse un messo o un semplice viaggiatore non si era fermato al castello, ed anche se era diretto altrove era strano che non lo avesse fatto. Colin accantonò il fatto come un atto di scortesia o di eccessiva fretta e non ci pensò più, ma nei giorni successivi ad Erhis capitò di vederle ancora il cavaliere. Un paio di volte da molto lontano, così che non essendo sicura fosse lui o uno dei cavalieri di suo padre non ne parlò con nessuno. Ma una volta le sfrecciò molto vicino, così che lo vide bene: era un uomo di età indefinita, con capelli ondulati castano dorati, con vesti verdi e marroni e un mantello bruno che gli sventolava sulle spalle. Al suo passaggio si sparse un intenso odore di sottobosco e un mulinello di foglie secche si sollevò nell’ aria. Quella volta con lei c’ erano due delle sue ancelle, che cavalcavano dietro di lei parlando fra loro. Il passaggio del cavaliere sul roano non interruppe lo scambio fra le due, ed un attimo dopo una delle ragazze le disse: -Comincia a fare freddo, mia signora. Perché non rientriamo al castello?
Erhis si voltò sulla sella ed incontrando lo sguardo dell’ ancella comprese che non lo aveva visto. Nessuna delle due ragazze aveva visto il suo passaggio, nonostante fosse transitato a pochi metri da loro. Annuì e girò il cavallo in direzione del castello.

Vennero le prime gelate, il tempo dei funghi e delle castagne finì, mentre nei boschi e sui crinali spuntavano gli ellebori, annunciando l’ arrivo delle prime nevi. E con l’ inverno Erhis non vide più il cavaliere dal mantello bruno, fin quando smise di pensarlo.
La neve prima imbiancò i Monti Carnach, poi scese fino alle Terre Basse. Tornarono i mercanti di pellicce e le festività invernali, il tempo delle storie raccontate dai bardi nella sala del castello e dai vecchi davanti ai focolari delle case popolane. Tornarono il gelido vento del nord e le bufere di neve. Ma quando la scorta di legna da ardere è abbondante, la dispensa piena di provviste, gli abiti imbottiti e gli stivali robusti, neanche l’ inverno fa paura. E tanto meno faceva paura quell’ anno, coi nemici e i lupi lontani.
Poi il vento girò, l’ aria prese a riscaldarsi e la neve a sciogliersi. Sulle tombe degli eroi del Campo di Baldwin spuntarono i primi bucaneve, fino a diventare così numerosi che pareva avesse nuovamente nevicato, per essere nuovamente sostituiti dai crochi e dai fiori della primavera inoltrata, e infine dagli anemoni che spuntano sul far dell’ estate. Le messi che avevano riposato sotto la coltre di neve crebbero e indorarono, poi vennero mietute e raccolte in covoni, trasportate alle cascine, trebbiate sulle aie e riposte nei granai; le margherite succedettero agli anemoni, greggi e mandrie furono portate ai pascoli in quota e poi riportate a valle, la legna per l’ inverno posta nelle legnaie prima che le piogge autunnali la bagnassero. L’ Anniversario della Battaglia passò e fu accantonato, e poco dopo le foglie degli alberi cominciarono ad ingiallire.
E con l’ arrivo dell’ autunno tornò lo strano cavaliere. Erhis prese a vederlo spesso, mentre cavalcava in ogni direzione per le terre di suo padre. E, si rese conto, era lei la sola vederlo. Passava vicino ai contadini al lavoro e questi non alzavano la testa, il suo cavallo scalpitava accanto ad un carrettiere intento a caricare il suo carro e non lo infastidiva; le donne continuavano a lavare i panni o a stenderli, i bambini non interrompevano i loro giochi, le guardie del castello non lo fermavano, i cavalieri che incrociava non lo degnavano di uno sguardo. La conferma definitiva la ebbe quando lo vide entrare, indisturbato e senza che le guardie alle porte lo guardassero soltanto, nella piazza d’ armi del castello.
Era un giorno vessato da una pioggerella uggiosa tipicamente autunnale e da un po’ di nebbia, ed Erhis stava percorrendo il passaggio sotto una tettoia diretta all’ infermeria, per portare delle bende che aveva preparato con le altre donne del castello, quando lo vide attraversare sicuro le grandi porte delle mura. Passò così vicino alla sentinella che il cavallo agitando la coda lo colpì ad un braccio: il soldato non si accorse di niente. Erhis si fermò, stringendo al petto il mucchio di bende, e mentre il misterioso cavaliere avanzava attraverso la spianata in terra battuta i loro sguardi si incrociarono. L’ uomo le sorrise.
-Erhis?
-Eh? Cosa..?- Presa alla sprovvista la fanciulla sussultò, nel voltarsi per vedere chi la chiamava. Era la sua governante.
-Che ti prende? Ti sei bloccata a fissare il niente: ti senti bene?
-Sì... sto bene. Solo una cosa che mi sono ricordata.
E prima che la donna potesse ribattere partì verso l’ infermeria. Il cavaliere era scomparso.
Raggiunta l’ infermeria iniziò a riporre le bende in uno stipo, guardandosi preoccupata attorno. In quel momento non c’ era nessuno. L’ infermeria era una lunga sala, con brande addossate ad una parete mentre la parete opposta per metà della sua lunghezza era costituita da porte-finestre che si affacciavano su un giardino interno. Nella brutta stagione le porte-finestre venivano chiuse tendendo, fra ganci infissi nei telai, pelli d’ asino raschiate, così fini che il vento non poteva passare ma la luce sì. In quei giorni, però, alcune pelli non erano ancora state montate. Ed attraverso una delle porte-finestre Erhis vide nuovamente il cavaliere: camminava per il giardino tenendo il cavallo per le briglie, la mano sinistra, chiusa in un guanto di pelle scura, sfiorava una siepe di cornioli: al suo passaggio le foglie verdi ingiallivano, quelle gialle cadevano, e gli ultimi fiori delle rose perdevano tutti i petali. Poi, in un mulinello di rosse foglie d’ acero, cavallo e cavaliere scomparvero.

Quell’ anno Erhis riuscì a vederlo ancora, ma sempre da lontano. Galoppava lungo le siepi di confine e queste rimanevano spoglie, percorreva i prati pedemontani e gli ultimi fiori scomparivano; passava vicino alle macchie di rovi e le piante ritiravano la linfa nelle radici, preparandosi all’ inverno; attraversava i boschi e questi si accendevano di mille colori cangianti, dal giallo pallido al rosso, passando per il color oro bruciato, l’ arancio e il viola, i colori bruni e quelli marroni; sotto gli alberi spuntavano funghi e ciclamini emergendo dallo spesso strato di foglie cadute, le castagne maturavano e precipitavano sul terreno in una cascola tambureggiante.
Poi l’ autunno finì, coi primi ellebori dalla corolla verde, ed il cavaliere non si fece più vedere.

I giorni fecero seguito ai giorni, gli uomini rallentarono insieme alla natura, recuperando le energie spese e preparandosi alle nuove fatiche. Erhis si fece sempre più insofferente, desiderosa del sopraggiungere di un nuovo autunno, insensibile alle bellezze delle altre stagioni che le scorrevano intorno senza che le avvertisse.
E quando il radunarsi delle rondini le disse che l’ estate stava per marciare a sud, iniziò a percorrere le campagne e i boschi alla ricerca del suo cavaliere.
Infine lo avvistò, figura lontana, piegato sul collo del suo cavallo in un galoppo sfrenato da nord-est. Cercando di intuirne il percorso Erhis andò a piazzarsi nel mezzo della strada che il cavaliere avrebbe seguito, decisa a bloccarlo. Quando lo vide arrivare, veloce e all’ apparenza inarrestabile, ebbe paura di esserne travolta, ma scorgendola il cavaliere portò il destriero dal galoppo al trotto e poi al passo per fermarlo infine a pochi metri da lei.
-Oh! La fanciulla che riesce a vedermi.
Col cuore che le batteva forte, Erhis chiese: -Chi... chi siete?
Il cavaliere sorrise. -Il mio nome è Huryon. Sono lo Spirito dell’ Autunno.
Lentamente un sorriso comparve sul volto di Erhis. -Io vorrei mostrarvi un luogo che mi è molto caro. Volete accompagnarmi?
Huryon annuì, e così i due, affiancati, se ne andarono insieme. Senza parlare Erhis condusse Huryon sulla strada per il castello e poi oltre, verso il Campo di Baldwin, fermandosi ai limiti del boschetto dei liquidambra. Con uno sguardo invitò il cavaliere ad avanzare.
Huryon fece avanzare il cavallo sotto i rami degli alberi. Un lieve odore di miele si sprigionava dai tronchi, i frutti caduti scricchiolavano sotto gli zoccoli dell’ animale. Erhis, quasi incredula, rimase a guardare le foglie dei liquidambra che diventavano d’ un rosso intenso via via che Huryon se li lasciava alle spalle.
Da quel giorno Erhis si fece accompagnare da Huryon durante i suoi girovagare, conducendolo in tutti i luoghi che le erano cari, scoprendo nuove piste e luoghi in cui non era mai stata, scorci inediti dei multicolori e variegati panorami autunnali. Cavalcarono uno a fianco dell’ altra, attraversando i frutteti che al loro passaggio perdevano le foglie, e camminarono mano nella mano al limitare dei prati e nei boschi di prugni selvatici che diventavano giallo oro. Finché un giorno, vedendo un elleboro che spuntava in un fosso nel folto del bosco, Huryon arrestò il suo destriero e si volse verso la fanciulla.
-Il mio Signore sta per giungere a reclamare questa terra nei suoi domini-, disse.
-Chi è il tuo Signore?
-Fynyass, il Re d’ Inverno. Fra pochi giorni sarà qui, giungendo sulle ali del Vento del Nord, ed io dovrò lasciarti per andare ad annunciare al Sud che lui sta arrivando.
-Tutte le terre devono cadere sotto il dominio di Fynyass?
-No. Come Fynyass possiede un regno nell’ Estremo Nord, così Horos il Marciatore, il Leone dell’ Estate, detiene il suo possesso nel Profondo Sud. Ho visto entrambi i loro domini, anche se solo da lontano, e nessuno dei due mi è piaciuto. Preferisco di gran lunga le terre dove io ed Ayleen, lo Spirito della Primavera, possiamo camminare.
Alcune notti dopo Erhis fu svegliata da un bacio leggero. Il buio della sua camera era permeato dell’ odore di bosco: terriccio, foglie e funghi.
-Erhis, mia amata-, sussurrò una voce, -colui che mi segue è giunto ed io devo andare. Ci vedremo il prossimo anno.
Completamente sveglia Erhis si alzò a sedere. La stanza era vuota e pensò di aver sognato. Ma l’ odore di bosco rimaneva, e quando andò alla finestra vide che fuori tutto era coperto di brina.

Sulle cime dei Monti Carnach il gelido Vento del Nord ululava insieme ai lupi, animali possenti e selvaggi, dai denti lunghi e acuminati e il lungo pelo grigio, riuniti in branchi feroci e temibili. Comparendo da un passaggio fra due rocce frastagliate, un’ alta figura avvolta in un manto nero avanzò sicura verso il Cerchio delle Pietre e del Sangue. Freich del Clan dei Lupi Grigi, ritto in piedi nel centro del Cerchio, rimase a guardare la figura ammantata che scendeva verso di lui. Era giunto lì con una torcia, ma le raffiche di vento l’ avevano spenta, e tutt’ ora lo scuotevano, infilandosi sotto le pesanti pellicce dei suoi abiti. Il nuovo venuto, invece, sembrava che non venisse nemmeno toccato dal vento: le folate facevano mulinare la neve tutt’ intorno a lui, ma il suo passo non esitava mai. Con la mano posata sull’ elsa della spada, Freich attese, pieno di dubbi. Al bisogno, temeva in cuor suo, né spada né frecce lo avrebbero aiutato contro lo sconosciuto.
Quando infine l’ alta figura entrò nel Cerchio delle Pietre e del Sangue, Freich poté osservarlo meglio. Era completamente avvolto dallo sbrindellato mantello di stoffa nera lungo fino a terra, con un cappuccio che gli celava il volto. Il vento lo strattonava ma non riusciva a smuoverlo né ad aprilo, sebbene Freich non riuscisse a vedere né alamari né spille che lo tenessero chiuso. L’ uomo sotto quel manto, oltre che molto alto, doveva essere molto magro. Così magro che in certi momenti, a seconda di come il vento ne premeva la stoffa, pareva che sotto non ci fosse un vero corpo. Al fianco destro, in un fodero di pelle maculata sorretto da una cintura di maglie metalliche, portava una lunga spada, e nella mano destra aveva un bordone nodoso, appena sgrossato e ricavato dal ramo di un albero dotato di spine.
-Salute, Freich il Sanguinario-, disse una voce fredda e sibilante, una voce che era la stessa del feroce Vento del Nord.
Ingoiando la rabbia per quel soprannome datogli dai suoi nemici, e combattendo il timore che la figura ammantata gli incuteva, Freich disse: -Sei tu che mi hai convocato, chiamandomi insistentemente nei sogni?
-Si.- Un monosillabo duro come l’ acciaio: la voce che arrivava dalle ombre del cappuccio tagliava in profondità come una lama.
-Chi sei?
Una risata lieve si levò dal cappuccio. -Non riconosci un tuo simile? I lupi dell’ inverno sono il mio vessillo così come sono il tuo.
Con un gesto ampio e circolare della mano sinistra la figura indicò il cerchio di monoliti infissi nel terreno simili a zanne. Guardando nell’ oscurità Freich vide i lupi che fino a poco tempo prima avevano ululato lontano, assiepati appena all’ esterno del Cerchio, fissarlo con occhi brucianti.
-Io sono un re, Freich, Signore di lande ghiacciate tempestate dal vento, dominatore di terre che non vedono la luce del sole per metà dell’ anno. Io sono Fynyass, il Re d’ Inverno.
Freich inghiottì a vuoto. -Cosa vuoi da me, Spirito? Perché mi hai fatto venire in questo luogo? Nessuno dei Feroci vi viene più da anni, ormai.
-Seguimi-, disse Fynyass con un gesto delle dita ossute, e passando oltre Freich raggiunse il centro del cerchio, dove una grande pietra a forma di parallelepipedo vi era stata collocata distesa. Fynyass la aggirò e, fermatosi sul lato opposto a quello dov’ era Freich, vi appoggiò una mano. Anche nel buio si vedeva una grande macchia più scura sulla pietra. -Freich del Clan dei Lupi Grigi,- disse Fynyass sguainando la sua spada e tendendola sopra la pietra, -riconosci la mia signoria su queste terre e io darò in tua mano i tuoi nemici. Lo giuro qui, in questo luogo sacro eretto dai tuoi antenati quando essi vennero scacciati dalle Terre Basse.
Freich fremette, un moto che gli giunse dal profondo, un misto di repulsione ed esultanza. Guardava la lunga spada, affilata e grigia, di acciaio ghiacciato, e non sapeva decidersi.
-Un giuramento-, disse, -dovrebbe essere suggellato da un sacrificio, ma i nostri sacerdoti sono stati tutti uccisi molti anni fa.
-Diventa tu un sacerdote.
La spada si mosse di scatto ad indicare un punto del Cerchio alla destra di Freich: il guerriero si voltò a guardare ed ecco che la fila dei lupi si aprì per far passare due giganti della loro specie, che trascinavano per gli abiti un ragazzo. I due lupi portarono il ragazzo esanime fino alla pietra e lo lasciarono cadere ai piedi di Freich, poi andarono a sedersi ai limiti del Cerchio. Il capo clan si chinò ed afferratolo per il bavero voltò il ragazzo, così da guardarlo in volto. Anche al buio lo riconobbe: Edmur, figlio di Tear del Clan del Cinghiale, che cinque anni prima era stato il suo più fiero alleato nei preparativi dell’ attacco alle Terre Basse, per diventare il suo peggior nemico dopo la sconfitta. Il ragazzo aprì gli occhi e lo riconobbe. -Freich-, sussurrò, -aiutami.
-I lupi cacciano i cinghiali, Freich-, disse la fredda e dura voce di Fynyass alle sue spalle. -E se diventano abbastanza forti attaccano anche gli uomini.
Con un moto deciso, afferrando le vesti di Edmur, Freich lo sollevò sulla pietra. Estrasse il suo pugnale e lo usò per tagliare le vesti del giovane, poi sollevò la lama sopra la testa. L’ ultimo sacerdote dei Feroci era stato ucciso quando lui era ancora un bambino, e più nessuno ricordava i rituali che avevano praticato. Ma era sicuro che ciò non avesse importanza.
Nel buio della notte, sulla cima del Picco dei Lupi, si levò una gelida risata, simile al sibilo di una lama, che il vento trasportò lontano. L’ ululato di cento lupi le faceva da coro.

Il mattino successivo, scendendo a piedi verso il suo villaggio, Freich il Sanguinario incontrò Tear del Cinghiale, accompagnato da cinque dei suoi guerrieri.
-Freich-, disse Tear. -Sto cercando mio figlio che ieri non è tornato dalla caccia.
Freich sogghignò. -Il cinghiale è una preda, non un predatore.
-Che stai dicendo? Hai perso il senno?
-Troverai tuo figlio al Cerchio delle Pietre e del Sangue. I lupi lo hanno portato a me.
Tear a quel punto capì, ed il sangue che macchiava le mani ed il volto di Freich, le maniche della sua giubba di pelliccia che ne erano intrise fino ai gomiti furono la conferma.
-Maledetto! Cosa hai fatto?
Tear sguainò la spada, ma non fece a tempo a caricare Freich perché ovunque fu un’ esplosione di ululati e due lupi giganteschi gli balzarono addosso, trascinandolo giù di sella e squarciandogli la gola. I suoi guerrieri rimasero paralizzati dal terrore, coi lupi che li circondavano e i cavalli che nitrivano e scalpitavano. Quando ad un cenno di Freich i lupi si ritirarono, i cinque guerrieri si volsero a guardarlo.
-Andate a dirlo a tutti: i Clan tornano a riunirsi, e chi rifiuterà di sottomettersi a me verrà preso dai lupi e sacrificato sulla Pietra del Dolore. Andate!
I cinque voltarono i cavalli e scomparvero.
-Ricorda, Freich-, disse nel vento la voce di Fynyass, -a te il dominio sugli uomini, a me il dominio sulla terra e sul tempo.

I giorni passarono, la neve cadde. Freich sedeva sul trono di ossa, in fondo alla Casa Grande al centro del villaggio del clan e riceveva gli atti di sottomissione degli altri capi. In principio alcuni di loro si erano opposti a lui, ma dopo che i capi dell’ Orso, dell’ Aquila e del Tasso erano stati aggrediti ed uccisi dai lupi, Merach del Tasso addirittura nel suo letto, tutti i clan gli si erano sottomessi. Le famiglie dei capi avversari erano state trucidate sulla Pietra del Dolore, sacrificio alla rabbia e alla sete di vendetta. E Fynyass, appostato dietro il trono di Freich, gelida ombra che solo lui poteva vedere, rideva soddisfatto.
-Tieni a mente-, sussurrava, -che solo io potrò darti la vittoria e rendere alla tua gente le Terre Basse che vi furono strappate. Ma solo tu potrai fermare la mia nemica. E’ Ayleen, lo Spirito della Primavera, la sola che può scacciarmi. La attenderai sulla Via del Sud e la trafiggerai con la daga di ghiaccio che ti ho dato. Dopo che avrai ucciso la Primavera, nessuno potrà sconfiggerci.
Ed ora raduna tutti i guerrieri dei Feroci, scendi nelle valli insieme ai miei lupi e fai scempio di coloro che vi cacciarono dalle vostre terre. E non temere, dal meridione non giungeranno rinforzi fin tanto che la neve ed il ghiaccio rimarranno a chiudere le strade.

Fu così che i Ruach-carnach, accompagnati dai branchi di lupi grigi, scesero in pieno inverno dai loro monti. Protetti dal buio e dalla neve che cadeva copiosa sciamarono nelle valli montane, sorprendendo le poche guarnigioni ed assalendo le fattorie isolate. I branchi di lupi scivolarono oltre gli avamposti attaccati, tagliando le vie di fuga e uccidendo i messi inviati a chiedere l’ aiuto del Signore di Croanor.
Ben presto l’ intera Signoria fu sotto l’ attacco delle bande di Feroci. La notizia giunse al castello di Colin, ma la neve continuava a cadere e i cavalieri non poterono uscire. Colin e suo figlio Coller guidarono delle spedizioni di fanti, uccidendo alcuni Ruach-carnach, ma i più sfuggivano loro ed assalivano gruppi isolati di militari e civili. Ormai era ovunque lo stato di assedio.
I combattimenti si protrassero, le guarnigioni si asserragliarono, le famiglie di villici si rifugiarono al castello o alle stazioni di posta, quelle che ancora non erano cadute. Trovando le fattorie vuote i Feroci le bruciarono, poi sfogarono la loro rabbia distruggendo i frutteti. La guerra continuò fra agguati e sortite, coi lupi che assediavano gli uomini dentro le loro case e i Feroci che tendevano agguati a Colin e ai suoi soldati.
Il numero dei rifugiati e le ruberie dei Feroci fecero diminuire sensibilmente le scorte di viveri. Una notte i lupi erano riusciti ad introdursi nelle stalle e avevano ucciso tutti i cavalli. Se anche la neve fosse andata via, Colin non aveva più una cavalleria da guidare all’ attacco.
-Le scorte basteranno fino all’ arrivo della Primavera-, disse Colin al consiglio dei suoi guerrieri.
Anche Erhis assisteva a quella riunione, seduta silenziosamente in un angolo.
-Ma non abbiamo più cavalli: come ricacceremo i Ruach-carnach sui monti?
-Sono sicuro che i mercanti di pellicce hanno già dato l’ allarme nel meridione: col disgelo il Re invierà le sue truppe in nostro aiuto.
Molti mercanti di pellicce erano stati trovati morti sulla strada per Brunswick, sbranati dai lupi, ma da chiare tracce si era dedotto che alcuni, pochi per la verità, erano riusciti a girare in tempo le loro slitte e a sfuggire alle fiere. Si trattava di rimanere chiusi ed attendere, quindi.
Ma i Ruach-carnach non intendevano certo aspettare. Gli attacchi si intensificarono, le stazioni di posta caddero, poi le torri di guardia e i piccoli castelli dei vassalli di Colin. E il giorno della Festa di Mezzo Inverno Freich il Sanguinario si recò sotto le mura di Colin. Portava con sé molti prigionieri, soldati per lo più, ma anche donne e bambini.
-Colin, guardami!- urlò. -Tu solo resisti ormai: i Feroci si sono ripresi ciò che i tuoi avi tolsero loro. Le Terre Basse sono nuovamente nostre!
Dalle file dei clan si levarono urla e acclamazioni, i lupi ulularono in coro.
-Apri le tue porte ed arrenditi, ed io risparmierò il tuo popolo. Se non lo farai li ucciderò tutti, dal primo all’ ultimo.
E per sottolineare le sue parole tagliò la gola ad un giovane contadino. In tutta la Signoria, ormai, la neve era divenuta rossa di sangue.
Fu così che Colin cedette. Lui e suo figlio furono posti in catene, insieme ai cavalieri sopravvissuti. -Portateli al Cerchio delle Pietre e del Sangue-, udirono dire a Freich. Gli uomini incatenati furono portati via e più nessuno li vide.
Dall’ alto del Picco dei Lupi, assiso su un trono di ghiaccio esposto alla furia del Vento del Nord, Fynyass rise.

Le lune scivolarono via una dietro l’ altra, e si giunse a quella che doveva essere la fine dell’ inverno. Relegata al ruolo di serva, Erhis attendeva l’ arrivo degli zefiri primaverili e del disgelo, confidando nell’ aiuto del Re. Da un giorno all’ altro i suoi cavalieri avrebbero potuto cavalcare a nord e giungere in loro soccorso. Alcuni coraggiosi, sfuggiti alla prigionia, erano riusciti a scivolare tra le maglie delle guarnigioni dei Ruach-carnach, a sfuggire all’ inseguimento dei lupi e raggiungere i confini delle Terre Basse. Qualcuno di loro era anche tornato indietro, a costo della vita, per riportare un po’ di speranza fra la gente oppressa riferendo che le truppe del Re erano accampate a Dun-Daerdach, la grande fortezza sul fiume Inondante. Aspettavano il disgelo per muovere a nord: il Re era con loro, ed aveva promesso che questa volta i Ruac-carnach sarebbero stati uccisi fino all’ ultimo uomo.
E i bambini?” si chiedeva Erhis, sola nella sua stanza, al freddo perché i Ruach-carnach le avevano tolto la legna da ardere. “E le loro donne? Che ne sarà di loro? Li ucciderete, come loro hanno ucciso noi? Li lascerete al loro destino, senza sapere se moriranno il prossimo inverno o se sopravviveranno per vendicarsi?”
E nel buio pianse: pianse per suo padre e suo fratello, scomparsi e sicuramente morti; pianse per la sua governante, che avevano sgozzato perché era vecchia e perciò inutile; pianse per le sue ancelle, prese da dei rudi montanari per farne serve e donne di piacere; pianse per tutti gli orfani del castello, le cui scelte erano fra una vita di stenti e una morte tutt’ altro che veloce.

Quando il primo zefiro soffiò timidamente sulla Piana di Baldwin, Fynyass chiamò a sé Freich.
-I venti primaverili chiamano i bucaneve che giacciono sotto la neve e la terra: destatevi, dicono loro, annunciate al Re d’ Inverno che è venuto il tempo per lui di ritirarsi.
Ma quest’ anno non sarà così. Io ho posto queste terre sotto il dominio del Regno del Gelo, e lo Spirito della Primavera qui non deve più giungere.
Vai, Freich, a compiere il compito che ti ho assegnato: io per te ho sottratto le Terre Basse ai tuoi nemici, tu ora sottraile per me alla Primavera.
E Freich il Sanguinario partì, su una slitta trainata da cani, portando con sé la daga di ghiaccio che il Re d’ Inverno gli aveva dato. Viaggiò fino al confine delle Terre Basse, giungendo in vista della possente fortezza di Dun-Daerdach. I vessilli sulle sue torri erano così numerosi che anche in lontananza se ne vedevano i cento colori. In quei luoghi Freich non trovò più neve, sebbene il terreno fosse gelato, e fiumi e specchi d’ acqua non erano più coperti di ghiaccio, ma solo lungo le sponde se ne vedeva un poco.
E mentre attendeva, solo in piedi al centro della grande strada, vide, a occidente, una figura che camminava solitaria. Le andò incontro, tagliando per i prati di trifoglio cotto dal gelo e i campi di cereali in attesa del caldo per crescere. Quando raggiunse la figura vide che era una giovane donna, alta e forte, bella e dallo sguardo dolce, vestita di una semplice tunica verde e coi lunghi capelli neri adorni di una corona di fiori. Camminava scalza, e dietro di lei l’ erba era tornata verde e i primi fiori cominciavano a spuntare.
-Tu sei lo Spirito della Primavera-, disse Freich, con le lacrime agli occhi.
-Non so chi sia tu che puoi vedermi-, disse la fanciulla, -ma perché piangi?
-Piango per la mia terra e la mia gente, caduti sotto il giogo di un terribile tiranno.
E con un gesto deciso affondò la daga nel ventre della donna.
Lo Spirito della Primavera morì lì, ai confini delle Terre Basse, tra le braccia di Freich il Sanguinario, che scosso da gemiti e singhiozzi, pieno di rimorso ma ancor più di paura, la vegliò a lungo, prima di decidersi a fare ritorno a nord.
E nuovamente Fynyass rise, assiso sul suo trono, lassù, tra le alte vette degli ultimi monti del Nord, oltre i quali ci sono solo le tenebre dell’ inverno, perché più nessuno, ormai, avrebbe potuto minacciare il suo regno.

Fu Huryon, Cavaliere dell’ Autunno, di ritorno da terre lontane oltre i mari, a trovare il corpo privo di vita di Ayleen, la Primavera. Lo raccolse e postolo sul suo destriero lo portò in luoghi sconosciuti, lontano dagli uomini e dalle loro bramosie. La natura gemeva per la morte della Primavera, bloccata nello stato in cui si trovava. E proprio i pianti che salivano dalla terra stessa avevano detto ad Huryon che qualcosa di cattivo era accaduto, inducendolo ad abbandonare i propri compiti per mettersi alla ricerca del male che affliggeva il creato.
Huryon sapeva già chi era il responsabile e lo andò a cercare. Col suo destriero si recò fino alla vetta del Picco dei Lupi, e là, cullato dal vento e dal gelo, trovò il Re d’ Inverno.
-Non scendi da cavallo, di fronte al tuo signore, Cavaliere dell’ Autunno?- chiese beffardamente Fynyass.
-Perché lo avete fatto?
-Taci! Tu sei solo un cavaliere, io un re! Perché ti dovrei rendere conto di qualcosa?
-Avete ragione, sono vostro servo. Araldo dell’ Inverno, è uno dei miei titoli. Ma a cosa serve un araldo, se ciò che deve annunciare è già venuto?
Vi prego di ritirarvi dai vostri intenti e di lasciare che queste terre si risveglino.
Fynyass scoppiò in un cachinno selvaggio. -Troppo tardi, Cavaliere. Ormai è troppo tardi per le preghiere. La Primavera è morta, bandita da queste e da altre terre, e presto io estenderò il mio regno fino al Profondo Sud.
Huryon abbandonò i monti, seguito dalla risata crudele e selvaggia del suo sovrano.

Lasciato Fynyass, il Cavaliere galoppò a lungo, sempre in direzione sud. Abbandonò le terre ancora nei confini dell’ inverno, attraversò le contrade dove un risveglio iniziato era stato interrotto e tutto era frastornato, uomini, animali e terra e tutto ciò che dalla terra prendeva la vita, per inoltrarsi in quei paesi dove l’ estate risplendeva nel suo pieno fulgore. Aveva superato Brunwick, con le sue imponenti mura, scavalcato le montagne Brumafredda e percorso veloce le Pianure Maggiori, per giungere alle Terre dei Cento Fiumi e delle Mille Città, ai confini orientali delle Terre Brulle; e poi oltre le Lande dei Tumuli e l’ asfissiante Rajkapur, con i suoi stretti vicoli e innumerevoli canali e il suo porto affollatissimo di velieri, e ancora più a sud, nelle terre che si stendono oltre il Mare di Mezzo, fino alla Terra dei Giganti, dove immani costruzioni vennero erette in un’ epoca persa nel passato, chiusa agli sguardi dei viaggiatori dalle Depressioni di Marador e le Pianure di Cenere e il Deserto di Gesso. Huryon si presentò alla corte di Horos il Marciatore, il Leone dell’ Estate.
Horos era un gigante dalla chioma nera, dalle ampie spalle e la muscolatura possente. Aveva i fianchi cinti da un perizoma di leopardo, le caviglie e i polsi adorni di bracciali di criniera di leone, ed una collana di denti di giaguaro gli pendeva sugli ampi pettorali. Sotto la pelle lucida e bruna i muscoli guizzavano gagliardi, i suoi occhi neri bruciavano come il sole che splendeva alto nel cielo estivo, e sotto i suoi occhi l’ uomo comune avvertiva il proprio spirito inaridirsi.
-Cosa cerchi alla mia corte, Cavaliere dell’ Autunno-, chiese Horos. Tutto intorno a lui crescevano i fiori e i frutti dell’ estate, fra cui fiere impavide si aggiravano minacciose. Huryon guardava i piedi del Marciatore, affondati nella sabbia rovente del deserto che fuoriusciva da sotto il suo trono di rocce calcaree. -Questi sono luoghi che il tuo padrone non ha speranza di raggiungere, quindi dimmi cosa ti conduce a me, perché non è certo in veste di Araldo dell’ Inverno che sei venuto.
-Sono qui per chiedere il tuo aiuto, Leone dell’ Estate. La mente del mio signore è fredda e calcolatrice, e gelido il cuore che batte nel suo petto: lui non ha pietà e non concede niente, e chi cade sotto il suo dominio può aspettarsi solo dure sofferenze.
Fynyass ha fatto uccidere lo Spirito della Primavera e medita di muovere guerra anche al tuo regno. Chiedo il tuo aiuto per ricacciarlo nell’ Estremo Nord, quello è il suo luogo, adesso.
Horos scosse la testa. -Non ho interesse a combattere il Re d’ Inverno. Vuole estendere i confini del suo regno? Faccia pure, non ha speranza di giungere fino a me. E di altro non mi importa.
-Mio signore, ti prego! Gli uomini avranno molto a soffrire per la follia di Fynyass!
-Cosa vuoi che mi importi degli uomini, che esistono da talmente poco tempo che io ero già antico quando fecero la loro comparsa? E Fynyass si limita a seguire la sua natura: non c’ è follia in lui. Semplicemente fa ciò che deve fare. Come farò io.
E adesso vattene, pongo un divieto fra me e te: se tornerai ad importunarmi sarai distrutto dal mio calore.
Ma prima di allontanarti ti dirò una cosa. Non sei uno Spirito antico come lo siamo io e Fynyass, per questo non puoi ricordare. Tu non sei il primo Spirito dell’ Autunno, così come Ayleen non era il primo Spirito della Primavera. Già altre volte il Re d’ Inverno ha tentato di porre tutto il mondo in suo potere, arrivando a coprirlo quasi interamente di ghiaccio e neve, arrivando a cancellare anche la memoria di Autunno e Primavera.
Ora vai. E non tornare.

Nella Signoria di Croanor il tempo trascorreva nella vana attesa dell’ arrivo della primavera. Molti degli abitanti ridotti in schiavitù avevano rialzato il capo davanti alle angherie dei Ruach-carnach, sicuri che l’ ora della riscossa non avrebbe tardato a venire. Ma il tempo passava, i Feroci li deridevano e continuavano ad esseri spavaldi e sicuri. Niente dura per sempre, dicevano i vecchi. Ma di vecchi ne erano rimasti pochi, i più erano morti di stenti, e i giovani iniziavano a disperare. A Dun-Daerdach il Re e i suoi cavalieri scalpitavano. Sul Picco dei Lupi Fynyass rideva, e Freich il Sanguinario piangeva.
Un mattino Freich fu trovato morto: si era ucciso conficcandosi un pugnale nel cuore, distrutto dalla consapevolezza di ciò che stava per accadere. Altri presero il suo posto, senza cercare veramente una risposta alla morte del loro capo.
Morto Freich i lupi se ne andarono, tornando ai boschi delle montagne, ma l’ inverno continuava: una stagione giunta precocemente tardava a finire. La selvaggina nei boschi finì, così i lupi tornarono nelle Terre Basse, entrando negli ovili per sbranare le pecore. Poi cominciarono a sbranare i cani, perché le pecore erano finite. Le scorte invernali finirono: grano, carne essiccata e salata e pure quella stipata nelle ghiacciaie scavate nella terra, salumi, patate e altre verdure, frutta secca e pesce sotto sale. I Feroci uscirono a caccia, ma trovarono solo i lupi. Così gli uomini cominciarono a cacciare i lupi, e i lupi cacciavano gli uomini. Cominciarono a scomparire anche le persone: prima i bambini, poi le donne e anche gli uomini. I Feroci litigavano spesso fra di loro: avevano gli occhi infossati e le gengive si erano ritratte sui denti a causa della denutrizione e dello scorbuto. Ad ogni litigio c’ era almeno un morto, ed ogni volta il cadavere scompariva. La Fame camminava nel paese e nelle sale del castello, nemica per gli abitanti delle Terre Basse e per i Feroci e anche per i lupi: solo Fynyass non la temeva.

Il tempo della primavera era quasi giunto al termine, di lì a breve sarebbe dovuta giungere l’ estate, ma ancora l’ inverno non era finito. Tremante per il freddo nella sua camera, una notte Erhis fu svegliata da un lieve bacio. L’ odore di muschio e terriccio, foglie e funghi aleggiava nella stanza.
-Huryon!
-Sì, mia amata, sono io.
Erhis scoppiò a piangere. -Huryon , che succede? Perché tutto questo?
Huryon sospirò. -E’ colpa di Fynyass. Il Re d’ Inverno, a volte, si innamora tanto di una terra che si rifiuta di lasciarla. Quando fa così si trasforma nell’ Affamatore di Vedove, e a quel punto solo Ayleen, lo Spirito della Primavera, ha il potere per cacciarlo. Ma Fynyass e i Feroci sono riusciti ad ucciderla. Per questo l’ inverno non finisce più. Fynyass si è costruito un trono di ghiaccio sulla più alta vetta dei monti, e sta sempre seduto là a contemplare il suo dominio, sicuro di essere divenuto il signore indiscusso di queste terre. Se stai in ascolto, quando soffia il Vento del Nord, puoi udire la sua risata.
-Ma... allora non abbiamo più speranza.
-Una speranza c’ è ancora. Quello che è accaduto qua è già successo altre volte, in un passato così remoto che nessuno ne ha più memoria a parte la terra stessa. L’ acqua e le rocce mi hanno dischiuso i loro ricordi, parlandomi di un tempo in cui quasi tutte le terre e anche molti mari vennero completamente ricoperti dal ghiaccio e dalla neve e Fynyass giunse ad insidiare da vicino il Regno dell’ Estate. Questo mi hanno raccontato le montagne ed i fiumi. Ma ogni volta lo Spirito della Primavera risorse.
-Come?
-Una fanciulla, legata alla terra da un profondo amore, può diventare lo Spirito della Primavera.
-Una fanciulla... Io?
Huryon annuì. -Sì. Tu puoi. Ma sai cosa significa?
Erhis tacque a lungo, pensando, poi sussurro':-Sì, credo di sì.
Huryon si chinò a darle un altro bacio, asciugandole con le labbra l’ ultima solitaria lacrima. Poi si alzò e scomparve.
Dopo aver vegliato per il resto della notte, alle prime luci del mattino Erhis lasciò il castello. A piedi nudi camminò sulla neve, dirigendosi verso il Campo di Baldwin. Il suo amato boschetto di liquidambra non c’ era più, tagliato per farne legna da ardere.
Fu solo quando giunse vicino alle tombe degli eroi del Campo di Baldwin che si accorse di non sentire il freddo. Lo sgocciolio del ghiaccio che si scioglieva giunse ai suoi orecchi, insieme ai tonfi della neve che cadeva dai tetti e dagli alberi. Un dolce vento soffiò da est. Svegliatevi, diceva ai germogli dormienti sotto la neve. E i bucaneve spuntarono, così tanti e folti che la terra pareva ancora completamente coperta di neve. Ma l’ erba verde faceva capolino a ciuffi qua e là, le gemme degli arbusti si fecero grosse e cominciarono ad aprirsi. Erhis camminò a lungo, fino al Lagoscuro: lì viveva una famiglia di cigni.
L’ inverno è finito”, disse loro. “Dovete partire.”
E i cigni presero il volo, levandosi alti sopra i Monti Carnach.
Sire Fynyass”, gridarono nel vento. “E’ giunta la Primavera!”
Fynyass balzò in piedi, incredulo e sconvolto spaziò lo sguardo per le Terre Basse. E vide lo Spirito della Primavera camminare nella contrada: davanti a lei alberi ed arbusti si ricoprivano di fiori e foglie, il ghiaccio si scioglieva e la neve si ritirava, bulbi e semi addormentati sotto la terra si svegliavano e germogliavano, gli animali uscivano dal letargo, gli uccelli migratori tornavano a solcare i cieli.
A Dun-Daerdach i cavalieri del Re partirono per andare a liberare la contrada più settentrionale del regno: galopparono quanto più velocemente permettevano il fango e le ultime nevi, preceduti dalla notizia del loro arrivo. I Ruach-carnach ancora in vita si dettero alla fuga, in cerca di scampo sui monti, ma l’ improvviso disgelo aveva gonfiato a dismisura i torrenti che ne scendevano tagliando loro ogni ritirata. Così, pieni di furia, i cavalieri piombarono loro addosso e li uccisero fino all’ ultimo.

Dopo il tempo della vendetta venne quella per la conta dei morti. La neve che si andava sciogliendo rivelava fosse comuni, resti di battaglie e più macabri ritrovamenti: mucchi enormi dove le ossa rosicchiate dai lupi si mescolavano a quelle spezzate dagli uomini. Altre ossa in gran quantità furono trovate nelle cantine del castello e nelle case abbandonate. Colin e suo figlio Coller erano scomparsi da tempo, sicuramente sacrificati agli dei maligni dai Ruach-carnach, e nemmeno la figlia Erhis fu ritrovata, così il Re nominò un reggente per Croanor, fin quando Erhis non sarebbe stata ritrovata o un successore di Colin designato.
Gli aiuti d’ emergenza giunsero al seguito dell’ esercito, e il Re, prima di ripartire per Brunwick, lasciò molte disposizioni. Tutte le ossa ritrovate sarebbero state sepolte in una fossa comune, che venne scavata là dove un tempo si levava il boschetto dei liquidambra. Sulla fossa sarebbe poi stato eretto un monumento funebre. In quella stessa fossa furono sepolti anche molti abitanti che morirono dopo il disgelo, a causa delle malattie e degli stenti subiti. Dalle regioni vicine furono inviati braccianti e manovali, genieri e architetti, e sementi e piccole piante da frutto, così che la Signoria di Croanor potesse essere ricostruita. Ad ogni vedova e fanciulla in età da marito fu assegnata una piccola dote, così che potessero maritarsi con uno dei coloni inviati ad insediarsi a Croanor. E per quelle donne, ingravidate dai Ruach-carnach che non avessero voluto tenere un figlio bastardo, il Re ordinò che una volta svezzati potessero essere dati in adozione a qualche famiglia delle Marche Orientali.
Intanto, sulla cima dei Monti Carnach, Fynyass lottava per non essere scacciato. In preda al furore scagliava il suo Vento del Nord giù per le gole montane, richiamava nubi cariche di neve e tempesta dal Regno del Gelo, faceva cadere la brina sul fondovalle. Ma il risveglio della natura, guidato da Erhis, corse su per le valli e i crinali dei monti, inesorabile e festoso, liberando i pascoli montani e i ruscelli ancora prigionieri del ghiaccio, raggiungendo infine il Picco dei Lupi e scacciando l’ inverno.
Invisibile agli occhi dei più, Erhis camminò felice per le sue terre ancora per un poco, dato che il tempo dell’ estate stava per giungere. E così, quando da lontano udì il passo cadenzato del Marciatore, si apprestò a partire. Sarebbero trascorsi nove mesi, prima di riuscire a vedere nuovamente la terra dove era nata, e sapeva che mai più l’ avrebbe vista brillare dei suoi mille colori nel basso e fulgido sole d’ autunno. E mai più avrebbe visto il viso serio e il sorriso dolce del suo amato.


LEI/SHE

Mi hanno chiesto se la amo ancora.
La domanda non e' se ancora la amo.
Dopo 21 anni spesi insieme, e' diventata parte di me.
Come posso eliminare una parte di me stesso?
Lei sara' sempre qui con me. Anche dovessi trovare un nuovo amore.
Magari celata in profondita' col passare del tempo, ma ormai io sono fatto anche di lei.

They asked me if I still love her.
Question is not if I still love her.
After 21 years togheter spent, she is part of myself.
How can I cut off a myself part?
She will be here with me forever. Also I should find a new love.
Perhaps hidden deeply with time going, but I'm made also by she now.

Wednesday, 5 October 2011

LA TERRA DELL’ ESTATE


Il pomeriggio era al suo apice e il sole dominava dall’ alto la pianura erbosa. Una leggera brezza faceva stormire le foglie di un boschetto di querce, l’ acqua di un torrente celato dall’ erba alta mandava il suo mormorio. Il cinguettio di uccelli nascosti tra i rami degli alberi riempiva l’ aria. L’ orizzonte a nord era delimitato da un arco di basse colline coperte di pini, da cui il torrente scendeva in una luccicante e sinuosa serie di curve prima di scomparire nel mare verde dell’ erba. Una polverosa strada di terra battuta tagliava diritta la pianura, giungendo da un punto lontano a sud per terminare davanti ad una bassa costruzione di marmo bianco che sorgeva isolata nel centro della distesa erbosa.
Un cavaliere percorreva solitario la strada, in groppa ad un enorme destriero roano. L’ uomo non era di alta statura, ed in sella ad un animale tanto grande pareva ancora più piccolo. Indossava degli attillati calzoni bianchi e una camicia rossa dalle ampie maniche stretta in vita da una fusciacca viola, e calcava in testa un cappello azzurro dalla tesa larga con una piuma bianca fermata da una spilla d’ argento. Tenendo il cavallo al passo, le redini rette mollemente dalle mani poggiate sulle cosce, procedette fino a raggiungere l’ edificio. La costruzione, di un solo piano e lunga una decina di metri, era priva di finestre. Al centro della facciata si apriva un portone a due battenti di un legno bianco privo di venature, sui cui lati si alzavano delle mezze colonne a treccia che reggevano un timpano irto di sottili guglie. Dietro allo strano edificio se ne intravedeva un secondo, più piccolo e costruito in legno con stile spartano.
Tre guardie sostavano davanti al portone, in attesa del cavaliere che avevano scorto da lontano. Chiusi nelle loro corazze brunite, con in testa elmi a calotta con una larga tesa non avevano un aspetto amichevole, nonostante non avessero estratto le spade. Avvicinandosi lentamente, con un sorriso sulle labbra, il cavaliere osservò attentamente le tre guardie, due soldati semplici e un ufficiale. Mentre i primi due avevano il volto celato da una maschera piatta imbullonata alla visiera dell’ elmo, l’ ufficiale aveva il volto scoperto.
-Chiedo scusa-, esordì il cavaliere fermandosi ad un paio di passi dalle guardie. -Ho smarrito la strada per Pendall, potreste rimettermi sulla giusta via?
-Pendall?- Il volto dell’ ufficiale si aggrottò, mentre avanzava di un passo. -Avete sbagliato di molto. Quella città si trova verso sud, lungo il corso del Peiquod.
-Dice sul serio?- Per lo stupore il cavaliere raddrizzò la schiena, e con un unico fluido movimento estrasse dalla fusciacca una pistola con la quale esplose una palla di piombo diritta in faccia all’ ufficiale. L’ uomo cadde all’ indietro, scagliato a terra dal contraccolpo, con un occhio trafitto dalla palla. La reazione delle due guardie rimaste fu più veloce del previsto: sguainarono le spade e si lanciarono contro il cavaliere. La pistola divenne essa stessa un proiettile che impattò contro la maschera del primo soldato, rallentandone lo slancio, e mentre estraeva la spada l’ aggressore fece impennare il cavallo. La bestia scalciò e gli zoccoli sfondarono l’ elmo abbattendo la seconda guardia. Nel momento stesso in cui le zampe del cavallo toccarono terra il cavaliere affondò la spada appena sotto la gorgiera dell’ ultima guardia, uccidendola.
Il silenzio tornò sulla pianura. Tutto si era svolto in una manciata di secondi ed il fumo prodotto dallo sparo aleggiava ancora sopra i tre cadaveri. Con un sospiro il cavaliere smontò di sella, lentamente, come se fosse stanco. Aveva un’ espressione triste mentre recuperava la pistola, controllando se si fosse danneggiata, per riporla in una fondina appesa alla sella.
-Aspettami qui-, disse al cavallo battendogli un paio di pacche sul fianco del collo muscoloso. -Vado a prendere quel che cerco e torno subito.
Voltatosi , la spada ancora in pugno, scavalcò i corpi insanguinati delle guardie e a passi lenti si diresse verso il portone dell’ edificio. Ad un certo punto compì una piccola deviazione, verso un folto ciuffo d’ erba ingiallita della quale strappò una manciata senza fermarsi per ripulire la spada dal sangue.
Giunto alla porta appoggiò ad uno dei battenti la mano sinistra e facendo forza col corpo spinse: il battente si aprì silenziosamente verso l’ interno. L’ ambiente oltre la porta era buio, pregno dell’ odore della polvere e del chiuso. Dopo una sosta sull’ ingresso, per dare il tempo ai suoi occhi abituati all’ abbacinante pomeriggio estivo di adattarsi al nuovo ambiente, avanzò verso il centro della sala dove la luce proveniente dalla porta arrivava appena a permettere di intravedere un piedistallo cilindrico, privo di ornamenti, che sorreggeva uno scrigno di legno. Dentro l’ edificio la temperatura era ancora più alta che all’ esterno. Lentamente, con gli stivali che risuonavano sul pavimento di marmo ad ogni passo, raggiunse il piedistallo e, solo a quel punto, rinfoderò la spada. Con entrambe le mani afferrò leggermente il coperchio del cofanetto, in legno bianco e privo di serrature, sollevandolo. Appoggiato su un’ imbottitura di stoffa anch’ essa bianca, un cuore troppo grande per essere umano si contraeva e rilassava in lente pulsazioni, appena percettibili. Il cavaliere richiuse con attenzione lo scrigno, se lo pose sotto braccio e tornò all’ esterno. Raggiunto il suo cavallo pose lo scrigno in una delle sacche della sella, rimontò in arcione e partì al galoppo diretto verso nord.

Miriana, regina di Nesu, giaceva languida sui cuscini del suo grande letto, gli occhi socchiusi e i grandi seni che si sollevavano lenti nel respiro, la pelle scura coperta di gocce di sudore. Alla sua destra e alla sua sinistra giacevano addormentati un giovane e una fanciulla, entrambi con la pelle bianca come il latte. Con un gesto molle allungò la mano sinistra ad accarezzare la folta capigliatura della ragazza, tanto giovane che i seni in sviluppo avevano l’ areola dei capezzoli ancora gonfia. Le labbra piene le si piegarono in un sorriso: ogni volta che prendeva un nuovo amante lo sceglieva sempre più giovane. Prima di Asa e suo fratello era stata la volta di Carea, che aveva tenuto nel suo letto da quando aveva quindici anni fino al compimento del diciassettesimo. Asa aveva tredici anni, e Asau, il giovane, quattordici: erano inesperti e impacciati, ma la sua libido trovava qualcosa di appagante nei loro corpi acerbi che la resistenza e l’ esperienza di uomini e donne adulti non erano capaci di darle.
Con la mente che si gongolava in simili pensieri e nel ricordo dell’ atto sessuale appena consumato, Miriana quasi si spaventò quando udì bussare alla porta della camera. Poco dopo la voce di una delle sue ancelle chiese il permesso di entrare.
-Entra-, rispose.
La testa ricciuta di Keli, una nera ragazza del sud, fece capolino. I suoi occhi si posarono involontariamente sui due ragazzi addormentati: anche lei aveva condiviso il letto della regina, durante un viaggio in una provincia esterna, ma era stata trovata insoddisfacente e non era più stata richiamata. Miriana non aveva ancora capito se la ragazza ne era stata sollevata o dispiaciuta.
-Chiedo perdono, mia Regina, ma è stata Kempu, la Strega, a mandarti a chiamare.
-A chiamare?
-Ti vuole nel sotterraneo, dice che è successa una cosa grave.
Miriana strinse le labbra: solo Kempu, in tutto il regno, osava parlarle in quel modo. Chiunque altro sarebbe morto, se avesse osato farlo, ma la Strega poteva permetterselo e lo sapeva.
-Aiutami a vestirmi!- ordinò seccamente a Keli.
Alzandosi dal letto svegliò Asa, che sollevò il viso insonnolito per guardarla. Accortasene, Miriana le si rivolse duramente: -Sveglia tuo fratello e tornatevene nelle vostre stanze. Vi farò chiamare io!
E mentre Miriana, aiutata da Keli, indossava la sua veste adorna di ossa cucite, Asa scosse il fratello per la spalla, fino a svegliarlo, e in silenzio lo condusse fuori della camera per una porta nascosta da un pesante drappo.
Chiedendosi cosa potesse essere successo di così grave perché Kempu volesse essere raggiunta proprio in quell’ orario, Miriana finì di vestirsi e lasciò le sue stanze, senza più curarsi di Keli. Percorse a lunghi passi i corridoi della sua ala personale del palazzo senza incontrare nessun servitore: ogni uomo o donna, di qualunque età, era ben addestrato a svolgere i suoi compiti senza mai farsi vedere se non esplicitamente chiamato. Discese ai piani inferiori e da lì prese una stretta scala a chiocciola che la portò sottoterra, nel freddo delle camere segrete della Strega.
Kempu era una vecchia avvizzita, con la pelle grigia bruciata dal sole al punto che non si riusciva più a capire di quale colore fosse stata alla nascita. Sebbene il nome suggerisse un’ origine fra le genti dalla pelle nera che vivevano nel sud del regno, poteva benissimo trattarsi di una donna degli Oviti, i dominatori del nord, o degli Asperi dell’ ovest, entrambi popoli dalla pelle olivastra. Ma poteva anche trattarsi di una straniera giunta da oltre i monti Carazzi, dove tutti hanno la pelle rosea o bianca. Neanche i capelli potevano essere d’aiuto per capirne l’ origine perché non li aveva più, persi a causa di un incendio, diceva, e li aveva sostituiti con innesti di lunghi e rigidi peli della criniera di un gau, il leone gigante con tre occhi che vive nelle fitte foreste delle disabitate Terre dell’ Est.
Gli occhi ardenti di Kempu si puntarono su Miriana non appena questa entrò nella stanza, notando la pelle d’ oca che le copriva le braccia e le cosce. La regina amava il sole e il suo calore.
-Cos’ è successo, Kempu?
La vecchia non rispose subito, ma agitò la mano destra sopra un bacile di pietra, pieno di acqua fumante, disperdendone i vapori ed osservandone la superficie immota.
-Non lo trovo più-, mormorò a se stessa, poi tornò a rivolgere lo sguardo ardente sulla regina. -Un viandante è giunto al Mausoleo. Ha ucciso le guardie e portato via il Cuore.
Un freddo peggiore di quello che aleggiava nelle stanze sotterranee pervase il corpo di Miriana, scioccata dalla notizia.
-Come è possibile... I tuoi incantesimi... perché non hanno funzionato?
Kempu scosse la testa, piena di rabbia perché qualcuno fosse riuscito a vincere le malie che aveva posto a protezione di quel luogo. Aveva pensato ad ogni eventualità, ad ogni Spirito umano e non umano: i suoi incantesimi avrebbero portato i viaggiatori a volgere i passi in un’ altra direzione, o a passare vicino al Mausoleo senza vederlo, o a smarrire la strada oppure se stessi. In qualsiasi modo il viandante avesse reagito alla sua magia, che fosse giunto al Mausoleo per caso o avesse coscientemente volto i suoi passi alla ricerca di esso, nessuno doveva essere in grado di raggiungere la porta del Mausoleo. Invece era accaduto.
-Credo che non fosse un uomo qualunque, o forse non è neppure un uomo. Un Inviato doveva arrivare prima o poi, ma non capisco come abbia potuto eludermi. A malapena ho avvertito il pericolo, e in ritardo.
-Cosa facciamo?- La voce di Miriana era piena di timore.
-Allerta gli astati, tutti i tuoi uomini migliori, i più pericolosi. E’ fuggito verso nord e di certo riuscirò a trovare le sue tracce. Vai!
Miriana si volse di scatto e corse alle scale che la riportarono ad emergere nel calore del suo regno estivo.

Nel sole abbacinante la polvere impalpabile sollevata dall’ ultimo cavallo partito tornò a posarsi. Nascoste tra i rami di un boschetto di acacie le cicale alzavano il loro canto assordante al cielo cobalto, privo di nubi e così uniforme da sembrare dipinto. Miriana sedeva sul trono montato su un palco, circondata dalla sua corte, all’ ombra di un baldacchino bianco. Per primi erano partiti gli astati, cinquanta cunie, cinquecento uomini in tutto, dalla lucida pelle nera, alti oltre due catene, completamente nudi e a piedi, armati di zagaglia e protetti dal caratteristico scudo ovale alto quanto loro, che ognuno aveva fabbricato da solo intrecciando strisce di corteccia dell’ albero kui e rivestito della pelle variopinta di qualche bestia o dipinto con figure di belve feroci o animali fantastici. Poi erano partiti duecento Eccelsi, la guardia personale della regina, cavalieri del nord, reduci delle guerre contro i Sabrii, il sanguinario popolo che viveva sulle rive del lago Gampuka e che praticava l’ antropofagia rituale. Infine i Kiz, dieci sacerdoti-assassini, allevati nei luoghi oscuri del tempio di Oaz il Parricida, il dio-ragno, i cui servigi Miriana avrebbe pagato con dieci notti d’ amore per ognuno dei dieci, durante le quali avrebbe dovuto soddisfare ogni capriccio del Gran Sacerdote Ergau.
Ogni gruppo avrebbe percorso una diversa strada verso il nord, così da coprire una parte di territorio quanto più ampia possibile. Intanto Kempu avrebbe proseguito la ricerca del ladro coi suoi poteri, ed una volta individuatolo avrebbe segnalato la sua posizione al gruppo più vicino. Il ladro avrebbe dovuto compiere molta strada per raggiungere la sua meta, e non poteva neanche dirigervisi direttamente ma compiere un largo giro, altrimenti sarebbe incappato negli accampamenti permanenti dell’ esercito. I suoi uomini avevano tutto il tempo di tagliargli la strada, sempre che uno dei gruppi non riuscisse a raggiungerlo. Kempu l’ aveva rassicurata: il ladro aveva ben poche speranze di riuscire nella sua impresa. Ma Miriana non riusciva a tranquillizzarsi. Le parole della Strega le suonavano vuote e in realtà prive di sicurezza. Anche la Strega aveva paura. Se il Leone dell’ Estate fosse stato risvegliato la sua vendetta sarebbe stata terribile.
Miriana ripensò agli eventi di alcuni anni prima. Kempu era giunta a lei durante un tramonto d’ estate, senza che nessuna guardia la vedesse passare e penetrare nel giardino di palazzo dove Miriana passeggiava. Il profumo dei gelsomini estivi e del fiore del desiderio riempiva l’ aria, insieme al ronzare delle ultime api e al frinire dei primi grilli. La vecchia era comparsa davanti a lei improvvisamente, come materializzandosi dalle ombre incombenti, come attraversando il velo delle foschie della sera. Gli occhi magnetici della Strega l’ avevano catturata e immobilizzata: nel profondo di quei due pozzi neri e oscuri ardeva un fuoco fatto di brama e potere che si alimentavano a vicenda, un fuoco che dava energia al minuto corpo rinsecchito dal sole della vecchia.
-C’ è freddo nel tuo cuore, Regina-, disse la Strega. -Un freddo che nessun amante è ancora riuscito a scacciare. E non troverai mai amante capace di farlo. Sei condannata a portare il freddo dentro di te, come un figlio che ti ruba le forze per accrescere se stesso, per sempre. A meno che...- La voce della Strega era divenuto un sussurro che si mescolò al ronzio delle api. -A meno che tu non mi dia ascolto.
Al profumo dei fiori, parve a Miriana, si era mescolato un odore dolciastro, stucchevole, ma era appena accennato, andava e veniva, e non riusciva a catturarlo né classificarlo, tanto che a momenti pensava di immaginarselo.
-Cosa devo fare?
Kempu sorrise, strisciando verso di lei nell’ imbrunire, un’ ombra lei stessa, un fantasma del crepuscolo. E sussurrò all’ orecchio della Regina le sue richieste. Miriana le esaudì, e, cosa di cui si accorgeva soltanto adesso, le aveva concesso un potere infinito su se stessa e su tutto il suo regno.
Kempu aveva eseguito i suoi rituali preparando Miriana per settimane, poi, sul finire dell’ estate, le aveva consegnato un pugnale dalla lama serpeggiante giunto da terre sconosciute e le aveva indicato un luogo in cui recarsi ad aspettare.
-Fermati al centro del prato-, le aveva detto Kempu, -nascondi il pugnale nell’ erba e aspetta.
Al tramonto Miriana si era recata nel luogo indicatole, aveva nascosto il pugnale nell’ erba, si era spogliata totalmente ed era rimasta in piedi nel vespro, in attesa, la pelle bruna indorata dal sole che andava scomparendo. Nel crepuscolo aveva udito dei passi pesanti e regolari farsi sempre più vicini, fin quando una figura imponente le era apparsa di fronte comparendo dal nulla. Il suo cuore aveva accelerato i battiti, un po’ per la paura, un poco per l’ eccitazione. Ansante aveva atteso immobile mentre il gigante le si avvicinava, poi aveva sentito il suo respiro profondo solleticarle la gola. Mani calde e forti avevano sfiorato le sue braccia, quindi, afferrandola saldamente per i fianchi, l’ avevano fatta stendere sull’ erba. Il lungo amplesso che era seguito era stato il più bello che avesse mai vissuto. Ancora adesso, seduta su quel palco a guardare la spianata ormai vuota, veniva presa da un fremito al ricordo del sesso del Marciatore che la penetrava e del piacere che l’ aveva riempita mentre lo cavalcava. Poi... poi aveva allungato la mano nell’ erba, proprio mentre il sesso del Marciatore cominciava a pulsare nel culmine del piacere. E quando la sua eiaculazione l’ aveva portata all’ apice, mentre l’ orgasmo la travolgeva, aveva affondato il pugnale nel suo petto. Si era rialzata stordita, inebetita dall’ orgasmo, gocciolante fra le gambe e schizzata di sangue sul viso e il seno, le braccia fino al gomito e le mani grondanti di sangue, nero nella notte, caldo sulla pelle. Nella sinistra stringeva convulsamente il pugnale ricurvo, nella mano destra teneva il grosso cuore del Leone dell’ Estate. Il cuore pulsava ancora e non accennava a smettere. Aveva reso l’ Estate sua prigioniera.

Erasmus teneva il suo destriero al passo, percorrendo uno sbiadito sentiero serpeggiante al limitare della savana. Il sudore aveva inzuppato la sua camicia sotto le ascelle e sulla schiena, e il caldo del pomeriggio pareva fiaccare anche il cavallo così come aveva fiaccato tutta la natura circostante. Se si fosse guardato intorno, fin dove il suo sguardo avesse spaziato, avrebbe visto solo distese ingiallite di alta erba sottile, alberi dalle foglie piccole e pendule, sterpi, rocce scintillanti e polvere a malapena palpabile che si sollevava al movimento del più piccolo animale per tornare a posarsi lentamente. Ma Erasmus non aveva bisogno di guardare: aveva avuto giorni e giorni, chilometri e chilometri di viaggio per familiarizzare con quel paesaggio. Non si muoveva neppure un refolo di vento. Tutto andava lentamente seccandosi. Turbato e scorato, meditava su ciò che il freddo di un cuore e la follia di una mente avevano fatto a quelle terre. La gloria dell’ estate era stata mutata nella disseccante aridità di una fornace. Capitava, a volte, che il Leone prendesse il sopravvento sul Marciatore. Lo Spirito dell’ Estate si innamorava di una terra e rifiutava di lasciarla, disseccandola e trasformandola in un deserto. Ma ciò faceva parte dell’ ordine naturale delle cose. Prima o poi l’ Araldo del Re d’ Inverno sarebbe riuscito a scacciarlo per aprire la strada al suo signore. Invece ciò che stava accadendo in queste terre non aveva niente di naturale.
Il limite della steppa era segnato da gruppi di acacie spinose, che crescevano incerte in gruppi radi, tentennanti come un soldato impaurito. Poco oltre, a tratti, il sole scintillava sull’ acqua di un piccolo fiume che il prolungarsi della stagione asciutta aveva affossato tra le rive, rendendolo lento e stagnante, fangoso nelle anse. Quando Erasmus vi giunse poté contemplare il disfacimento che stava colpendo la terra: l’ acqua scorreva lenta e sporca, piena di mucillagine; le rive fangose erano cosparse delle carcasse semimarcite di rane e pesci; la vegetazione tipicamente succulenta cominciava a rinsecchirsi, a farsi più coriacea. Scosse la testa per l’ ennesima volta, ma con meno vigore rispetto alla volta precedente, che a sua volta era stata meno vigorosa di quella prima ancora. Il caldo lo stava lentamente fiaccando, mozzandogli il respiro e rammollendogli il corpo. C’ era un che di anomalo in quel calore, gli pareva. Non che avesse esperienza di estati simili: la sua terra d’ origine aveva un clima completamente diverso, ma le estati potevano essere afose o torride anche a Rejkapur, la grande capitale del suo paese: la brezza marina non soffiava, la pioggia non cadeva per settimane, e la ininterrotta distesa di pietre con cui la città era stata costruita si surriscaldava fino a diventare rovente; e quando calava il buio le pietre delle strade e degli edifici rilasciavano il calore accumulato, rendendo soffocante l’ aria già appestata dall’ odore di pesce marcio, fogne a cielo aperto, animali e delle migliaia di persone che ci vivevano. Ma con quel calore si poteva convivere: lo accettavi, lasciavi che ti attraversasse, e tu stesso divenivi un elemento dell’ estate stessa, un organismo in sintonia con l’ ambiente circostante. Ciò che stava provando ora, invece, era qualcosa che il suo fisico non riusciva a tollerare. Forse per i nativi, già abituati a quel clima anche se non esasperato fino a quel punto, era differente, ma lui ne veniva consumato. Il caldo gli stava sfibrando i muscoli, gli sembrava che i suoi polmoni si fossero gonfiati e trasformati in spugne secche; la lingua gli si stava ingrossando, e così pure le labbra che si screpolavano, per non parlare delle dita delle mani. Se si fossero gonfiate ancora un poco, probabilmente non sarebbe riuscito più a premere il grilletto della pistola né tanto meno ad impugnare saldamente la spada. Quel caldo era alleato dei suoi nemici.
Asciugandosi il sudore sulla fronte accantonò quei cupi pensieri. Spinse il cavallo giù per la riva del fiume, ne attraversò il corso in un punto in cui era particolarmente esiguo per poi risalire la sponda opposta. La crosta di fango secco cotto e indurito dal sole cedette appena sotto il peso del cavallo.
Il fiume segnava il confine della steppa, o almeno lo aveva fatto prima della siccità. Il terreno ondulato che andava alzandosi in una serie di aspri colli all’ orizzonte era coperto da gruppi di alberi sempre più numerosi che si riunivano a formare un bosco che diventava più folto via via che ci si avvicinava ai colli. Ma molti degli alberi più giovani erano seccati, gli altri avevano perso la maggior parte delle foglie ed erano ingialliti; l’ erba era secca al punto che una semplice scintilla avrebbe provocato un incendio, e la sabbia trasportata dal vento andava accumulandosi nelle concavità del terreno. Oltre i colli, riportavano le sue istruzioni, si stendeva un grande lago, il Bajkampal, il più grande lago di tutto il Nesu. Sulla riva occidentale del lago, ai margini di un territorio spopolato, c’ era la sua meta, il mausoleo in cui era custodito il corpo del Marciatore. Non vi poteva giungere direttamente, gli era stato detto, perché sulla sponda meridionale era accampato l ‘esercito permanente della Regina Miriana, il cui numero oscillava tra i diecimila e i ventimila uomini a seconda del periodo dell’ anno. Perciò avrebbe dovuto compiere un lungo giro, spingendosi molto a est del lago per poi raggiungere il mausoleo da quella direzione. Non sarebbe stato facile: un giorno di cavallo per arrivare alla base dei colli, forse di più, un altro verso est e un altro ancora per attraversare i colli. Dall’ altra parte lo aspettava il territorio infido di Kulu-asu, una stesa ondulata di vegetazione inestricabile, sabbie mobili e pietraie labirintiche. Il tempo che avrebbe impiegato ad attraversarlo non lo sapeva. Con quel caldo gli pareva una missione impossibile.
Nel frattempo che la mente di Erasmus aveva indugiato nell’ autocommiserazione, il suo cavallo non aveva rallentato il passo e lo aveva portato in mezzo ai primi gruppi di alberi misti a cespugli di spaséh, un’ erba alta quanto un uomo, folta e dagli steli cilindrici zebrati, che i nativi intrecciavano per fabbricare canestri e altri recipienti. Sempre senza rallentare il passo, il cavallo emise uno sbuffo e tirò indietro le orecchie. Erasmus fu subito riportato alla realtà dall’ atteggiamento dell’ animale: davanti a lui c’ era un pericolo, nascosto probabilmente nei cespugli, se fossero uomini o bestie ancora non lo sapeva. Accorciate le redini portò una mano alla pistola e tese i sensi cercando di capire dove fosse celato il nemico.
Erasmus aveva scoperto fin da bambino di avere sensi particolarmente acuiti, superiori a quelli che dovrebbe avere un uomo: quasi animaleschi li aveva definiti una volta un suo vecchio zio. Ed aveva imparato a sfruttarli appieno quanto più velocemente aveva potuto: gli erano stati di grande aiuto per sopravvivere nelle strade di Rejkapur, una città in cui la metà dei bambini, maschi o femmine, poveri o ricchi che fossero, veniva uccisa o scompariva per sempre, caricata di nascosto su qualche bastimento in partenza per essere usato durante il viaggio e poi venduto come schiavo. C’ era molta richiesta di bambini, un po’ in tutto il continente: servivano per compiere servizi nelle case signorili, nei bordelli e nelle miniere. Erasmus stesso era figlio di uno di questi schiavi: caso più unico che raro, suo padre, di nome Julius, era riuscito a sopravvivere nella miniera dove lavorava nei cunicoli troppo piccoli perché potesse infilarcisi un adulto. Era costretto a camminare a quattro zampe, trainando un carrello con una fune legata alla vita e spingendone un altro con la testa. Divenuto troppo grande per riuscire a percorrere quei cunicoli, sfigurato da bruciature e con la sommità del capo priva di capelli a causa del contatto col carrello, i suoi padroni non avevano saputo che farne di lui. Non potevano venderlo, perché nessuno avrebbe comprato uno schiavo così brutto e già grande, e non si fidavano a dargli un piccone e spedirlo con gli altri minatori, per paura che alla prima occasione usasse il piccone contro di loro. Era stato proposto di ucciderlo, ma nessuno voleva un omicidio sulla coscienza: così lo avevano fatto bastonare, poi lo avevano messo su un carro che lo aveva scaricato molto lontano dalle proprietà minerarie e gli era stato intimato di non farsi più vedere. A Julius non era parso vero: non pensando minimamente a vendicarsi si era rialzato e incamminato verso la sua città natale.
Adesso, i suoi sensi particolarmente acuiti, gli stavano nuovamente tornando utili. Un leggero fruscio provenne da dietro uno dei cespugli, il movimento di un guerriero esperto che si prepara a balzare all’ attacco. Erasmus non attese, estrasse rapidamente la pistola e fece fuoco contro il cespuglio: un gemito strozzato e un tonfo gli dissero che aveva colto nel bersaglio. Rapidamente fece aggirare il cespuglio al suo cavallo. Trovò un uomo magro steso a terra, vestito di una tunica e di un turbante neri; quest’ ultimo gli avvolgeva il viso, ma la palla della pistola lo aveva strappato. Era ancora vivo, e cercava invano di raccogliere un grosso coltello a falce dalla lama doppia: non era caduto fuori della sua portata, ma la palla della pistola lo aveva raggiunto alla mandibola, spezzandola, il sangue gli aveva riempito gli occhi e così non poteva vedere che la sua arma era finita in una direzione diversa da quella in cui la stava cercando.
Erasmus scese da cavallo e, tenendosi lontano dall’ uomo, lo aggirò raggiungendone il coltello. L’ arma lo identificava come uno dei sacerdoti-assassini del dio-ragno, quindi capace di uccidere a mani nude anche privato della vista. Forse il dolore che stava provando per la ferita ne avrebbe inficiato le capacità, ma Erasmus non aveva intenzione di rischiare. Raccolse il coltello a falcetto mentre l’ assassino, seguendo il rumore dei suoi passi, si metteva in ginocchio e si girava nella sua direzione. Appena stretta l’ elsa dell’ arma, Erasmus la sollevò in un veloce arco verso l’ alto e verso l’ esterno, tagliando con precisione la gola del suo nemico. Dopodiché lasciò ricadere il pugnale insanguinato nella sabbia. I Kiz operavano soli, quindi, tenuto conto che il loro numero non era elevato, si dovevano essere allargati parecchio per battere meglio il territorio alla sua ricerca. Erasmus ne dedusse che non dovevano esserci altri Kiz nei paraggi, ma niente vietava che vicino ci fosse qualche altro tipo di cacciatore. Si chinò sul cadavere e frugò nelle tasche interne della tunica: trovò una borraccia a vescica, una piccola sacca con razioni di cibo essiccato e una sacca ancor più piccola piena di polvere d’ oro. Prese tutto: la bevanda maleodorante nella borraccia e il cibo sicuramente amaro lo avrebbero sostentato meglio di ciò che gli restava dei suoi viveri; l’ oro, invece, sarebbe potuto tornare più utile della pistola col prossimo cacciatore.

Kempu le portò la notizia della morte del Kiz. Miriana agghiacciò vedendo il ghigno soddisfatto della megera, che si allargò ancor di più notando la sua reazione.
-Uccidendo il Kiz mi ha rivelato la sua posizione-, biascicò la strega. -Ci sono degli astati nelle vicinanze e ho già inviato loro un messaggio indicando dove devono aspettarlo. Entro il terzo tramonto sarà in mano nostra.
Miriana rimase in silenzio, fin quando la strega decise di andarsene. Chiunque fosse l’ intruso, pensò la regina, era riuscito prima a trovare il Cuore nascosto attraverso gli incantesimi di Kempu, ed ora aveva ucciso un Kiz. Le sue capacità erano sicuramente fuori del comune: sarebbero riusciti degli astati a fermarlo?
Con la disperazione nel cuore Miriana si recò a passeggiare nei suoi giardini privati. Senza neppure accorgersene si trovò a passare nello stesso punto in cui, tempo prima, Kempu le si era rivelata. Ristette, avvertendo qualcosa di sbagliato ma senza riuscire a capire di cosa si trattasse. Infine comprese: né il profumo dei fiori né il rumore degli insetti riempiva l’ aria, solo un odore pesante di polvere. La morsa intorno al suo cuore si strinse e il dubbio la pervase. Quale follia l’ aveva presa? Come aveva potuto dare ascolto alla Strega?
Poi ripensò al freddo che la pervadeva ogni anno all’ arrivo della stagione delle piogge: ricordò il dolore che l’ aveva straziata, molti anni prima, in un giorno umido e velato di pioggia, che cadeva fine e grigia. L’ orizzonte era nascosto da un sipario grigio e smorto, il lieve rumore dell’ acqua che ruscellava su tutte le superfici faceva da sottofondo alla sua vita. E alla scoperta che lui era partito, che l’ aveva abbandonata. Non un addio, né un messaggio per spiegarle cosa era accaduto. Al risveglio non lo aveva più trovato. Aveva preso le sue cose ed era partito con esse: non si erano più trovate tracce di lui. L’ amore si era mutato in pianto, il freddo era strisciato lentamente nel suo cuore e non se ne era più andato. Solo quando il caldo tornava riusciva a sciogliere il ghiaccio e a farle dimenticare: il sole sulla pelle le dava sensazioni che la pervadevano fino all’ animo, risvegliando i suoi sensi. Era lasciandosi andare ai sensi che riusciva a dimenticare il tradimento e la ferita subita. Anzi, era un modo per vendicarsi. Si era data a quell’ uomo, gli aveva dato tutto di sé, era stato il primo, e lui l’ aveva abbandonata, gettata via come una cosa senza valore.

Due ore dopo l’ alba, Erasmus raggiunse i primi bassi colli che lo dividevano dal Kulu-asu. Si trattava di formazioni rocciose frastagliate di origine calcarea, con valli e canaloni aspri e contorti più della mente di un folle, scavati da numerosi corsi d’ acqua di un’ altra era la cui unica traccia oramai erano solo gli accumuli di ciottoli e sabbia grossolana nei fondovalle. I colori dominanti erano un giallo ocra e un rosso sbiadito che il sole feroce faceva riverberare, rendendo l’ intero paesaggio surreale e allucinatorio. Ed un’ allucinazione era ciò che Erasmus temeva lo avrebbe colpito di lì a poco.
Lasciandosi alle spalle l’ ultima stentata vegetazione il cavaliere raggiunse l’ imbocco di una grande valle che sembrava salire per una discreta distanza prima di interrompersi in una serie di involuzioni. I valichi per attraversare i colli erano numerosi, gli era stato spiegato, ma per raggiungerli avrebbe dovuto attraversare un vero e proprio labirinto naturale. Se era fortunato sarebbe arrivato fino a metà della scalata prima di dover abbandonare il cavallo. Se era sfortunato poteva trovare una frana a sbarrargli la strada subito dopo la prima svolta.
In quel momento delle grida si levarono alle sue spalle. Spaventato Erasmus si volse di scatto sulla sella: dieci guerrieri erano sbucati dai cespugli e correvano verso di lui a lunghe falcate, tenendo lungo i fianchi uno scudo ovale alto quanto un uomo e una lunga zagaglia con una punta piatta della dimensione di un avambraccio. Astati! Dieci erano decisamente troppi da affrontare, anche col vantaggio del cavallo. Con un colpo dei talloni Erasmus fece ripartire il destriero su per la stretta valle, confidando nella fortuna e nelle asperità del terreno per rallentare la corsa a piedi nudi degli astati.
La frana c’ era, non dopo la prima svolta ma neanche tanto distante dall’ imbocco. Appena se la trovò davanti Erasmus ebbe un tuffo al cuore, ma quasi subito notò che non aveva chiuso completamente il passaggio sul lato opposto a quello da cui era caduta. Raggiunto l’ accumulo di roccia e polveri Erasmus smontò dalla sella e, conducendo l’ animale per le briglie, iniziò ad arrampicarsi sui mucchi instabili di pietrisco. Scivolando a turno, spostandosi a volte in orizzontale per trovare un punto più compatto e stabile, uomo e cavallo procedettero faticosamente verso la sommità della frana. Poi, improvvisi, il sibilo e il nitrito di dolore del cavallo. Erasmus si sentì strattonare violentemente dalle redini, che gli affondarono nel palmo della mano. Un dolore intenso lo prese al polso e alla spalla, mentre cadeva all’ indietro. Rotolò per alcuni metri, perdendo la presa sulle redini. Quando riuscì a riaprire gli occhi era ricaduto per la metà della salita effettuata, aveva dolori in tutto il corpo e non riusciva a muovere il braccio destro. Il suo cavallo agonizzava un metro più in basso con una zagaglia conficcata nel fianco. Gli astati erano alla base della frana ed iniziavano a salire verso di lui. Faticosamente si sollevò in ginocchio ed impugnò la pistola con la mano sinistra. Attese che gli astati fossero saliti di alcuni metri, e a quel punto fece fuoco. Gli scudi si sollevarono a protezione e la palla di piombo si piantò in uno di essi.
E’ finita”, pensò Erasmus, ma la sua mano andò comunque allo stocco.
Vattene. La voce risuonò direttamente nella sua testa. Sollevò gli occhi e gli parve di vedere un’ ombra in piedi al suo fianco, l’ ombra di un uomo alto avvolto in un mantello. Nell’ aria c’ era odore di pioggia e terra bagnata. Prosegui, penserò io a fermarli. L’ ombra, poco più che un velo di fumo nell’ aria, allungò una mano e lo toccò alla spalla destra: immediatamente il dolore svanì ed Erasmus poté nuovamente muoverlo. Non indugiare!
Senza perdere altro tempo Erasmus scivolò fino al cavallo, prese dalla sacca della sella lo scrigno col Cuore, poi si rizzò in piedi e prese ad arrampicarsi, inseguito dalle grida degli astati. Una zagaglia colpì il terreno a mezzo metro da lui, schizzandolo di pietrisco. D’ istinto la raccolse e proseguì verso la cima della frana. L ‘ aveva appena raggiunta quando un tremendo nitrito riecheggiò nella valle, seguito da uno schianto e un grido di dolore troncato a mezzo, poi da altre urla rabbiose. Fermarsi a guardare fu più forte di lui. Il cavallo ferito scalciava selvaggiamente, arcuando il collo a destra e sinistra, con gli astati che si lasciavano scivolare giù per la frana; uno di loro invece giaceva scompostamente sul fondo valle. L’ ombra di un uomo con mantello si sovrapponeva al cavallo imbizzarrito. In quel momento un calcio dell’ animale raggiunse un altro astate, sfondando lo scudo e facendolo rotolare giù per la frana. Erasmus non attese oltre e si lanciò giù per l’ altro versante della frana.

Grida e nitriti riecheggiarono a lungo nella valle, mentre lui la percorreva di corsa. Aveva riposto lo stocco ed impugnava la zagaglia che gli avevano scagliato dietro, stringendo lo scrigno sotto il braccio sinistro. Aveva perso il cappello chissà quando: non si era accorto se durante la caduta dalla frana o se nella corsa successiva. Non aveva importanza, non aveva importanza niente altro che fare in fretta: la Regina Miriana e la sua strega gli stavano stringendo intorno un nodo scorsoio fatto di guerrieri. Come a conferma della sua paura comparvero, da dietro delle rocce, due soldati. Portavano la divisa rossa dei mercenari, e dall’ espressione che comparve sul loro viso non si aspettavano certo di trovarselo di fronte. Erasmus reagì d’ istinto, scagliando la zagaglia mentre ancora era in corsa, ed un attimo dopo, maledicendosi per non essersi fermato a ricaricare la pistola, estrasse lo stocco. Uno dei due soldati crollò al suolo sulla schiena, trafitto al plesso solare, un attimo prima che vibrasse un affondo con lo stocco verso il suo compare. Ma i riflessi del soldato furono rapidi e il colpo venne deviato. Sottraendosi ad una eventuale risposta Erasmus pensò rapidamente a come togliersi da quella situazione: quel duello era da evitare, non poteva né perdere tempo né rischiare di essere ferito.
-Aspetta!
Il soldato si bloccò, teso come una corda di violino, guardandolo con sospetto da sotto la visiera del cappello. Erasmus comprese di avere una possibilità: la morte del suo compagno lo aveva lasciato incerto e il timore si era insinuato nella sua mente, altrimenti non avrebbe esitato a contrattaccare. Ed il fatto che fosse un mercenario rendeva tutto più facile.
-Possiamo metterci d’ accordo, invece di scannarci a vicenda. Io non ho niente contro di te e tu sei qui solo per denaro: ti pagherò e tu mi lascerai passare, andandotene per la tua strada. Guarda.- Lentamente infilò la mano sinistra nella camicia, tirandone fuori il sacchetto con la polvere d’ oro presa al Kiz. -E’ oro che ho preso ad un Kiz che ho ucciso: sicuramente è una somma superiore alla tua paga di un anno.
Il mercenario lo sogguardò. -Posso ucciderti e prendermi l’ oro lo stesso.
-Sicuro di potermi uccidere?
-Neanche tu sei sicuro di poter uccidere me.
-No, non lo sono, altrimenti non ti avrei fatto quest’ offerta. Ma è il tempo che mi manca, e tu me lo stai facendo perdere.- Con uno scatto del polso lanciò il sacchetto lontano, alla sua sinistra. -Accetta alla svelta oppure combatti.
Erasmus cominciò a muoversi in avanti, spostandosi contemporaneamente a destra, mentre il mercenario faceva lo stesso, sempre senza smettere mai di sorvegliarsi. Piano piano il soldato fu vicino al sacchetto dell’ oro ed Erasmus allo sbocco della valle. La mano del mercenario scese ad afferrare il sacchetto, ne allentò i legacci così da poter controllare il contenuto, poi annuì. Il sacchetto scomparve nel giustacuore del mercenario e quest’ ultimo scomparve per un sentiero appena abbozzato su per il fianco della valle. Erasmus riprese la sua corsa verso il Kulu-asu.

Era l’ alba quando si trovò davanti l’ apparentemente infinita distesa di acquitrini. Pozze, rigagnoli, canali e stagni si intrecciavano in una labirintica ragnatela d’ acqua, in cui prati e isolotti coperti da canneti parevano insetti catturati da un ragno invisibile. Qua e là affioravano anche pietraie e monoliti, ultime propaggini degli aridi colli che Erasmus aveva appena attraversato. Arrancando si inoltrò nelle paludi del Kulu-asu.

Il sole era sorto due volte, da quando Erasmus era entrato nelle paludi, ed ora stava per tramontare la seconda volta. Le paludi erano ormai alle sue spalle, davanti a lui c’ era il lago Bajkampal. Più a nord paludi e lago passavano dalle une all’ altro e viceversa senza soluzione di continuità, ma qui una piccola pianura di erba giallastra divideva le acque dei due bacini. Stremato, sporco di fango e di sangue, Erasmus arrancò verso il mausoleo che sorgeva vicino alla riva pietrosa del lago, in un punto in cui un braccio del lago stesso si insinuava tra i bassi colli creando un quadro pittoresco. Consumato dallo sforzo e dalla mancanza di cibo tutto il corpo di Erasmus gemeva di sofferenza. La sua mano destra mancava del mignolo e dell’ anulare, a causa di un coccodrillo che lo aveva azzannato in un momento in cui si era fermato a bere: aveva tamponato la ferita con un pezzo della sua camicia, e il giallo mescolato al rosso del sangue gli diceva che la ferita si era infettata. Oltre a ciò l’ acqua che aveva bevuto gli aveva procurato anche una forte dissenteria, ed oltre che di fango e sangue era sporco anche dei suoi escrementi.
Nel complesso”, si disse con un ghigno delle labbra tumefatte, “ sono mezzo morto, e fra non molto forse lo sarò del tutto. Ma almeno ce l’ ho fatta.”
Aveva appena completato questo pensiero quando comprese che non era così: da nascondigli in mezzo all’ erba si sollevarono i guerrieri della Regina, negri giganteschi rivestiti di corazze di pelle di rettile, i volti dipinti con teschi bianchi e le teste incorniciate da criniere di leone, archi tesi e sottili frecce piumate di bianco puntate su di lui, il sole scintillante sulle cuspidi di bronzo delle lance. Un passo strascicato dietro l’ altro Erasmus proseguì verso i guerrieri, estraendo lo stocco e trascinandolo con la punta nell’ erba fin quando gli sfuggì dalla mano ferita e cadde al suolo. Nella sinistra stringeva il piccolo scrigno contenente il cuore del Marciatore.
Quando fu in mezzo ai guerrieri si fermò vacillante sulle gambe malferme. Aveva gli occhi gonfi ed arrossati, ed a tratti la vista gli si appannava. A quel punto, da dietro il mausoleo apparvero la regina Miriana e la strega Kempu, con un seguito di cortigiani e portatori d’ ombrello per ripararle dal sole. Miriana avanzò maestosa e bellissima, i piedi calzati da sandali di erbe intrecciate, il volto aggrondato e pensieroso. La strega invece procedeva con lo stesso passo saltellante dei corvi mangiatori di carogne, un sorriso laido stampato sulla bocca sdentata, sfregandosi le mani. Le due erano giunte a pochi passi da Erasmus quando a questi cedettero le gambe e cadde in ginocchio. Kempu annuì, come se il suo fosse stato un dovuto atto di sottomissione.
Apri lo scrigno, sussurrò nell’ aria del vespro una voce che era come il frusciare di foglie secche.
Il sorriso sul viso di Kempu scomparve, mentre cominciava a girare la testa da una parte e dall’ altra, in ascolto. Erasmus comprese che aveva avvertito qualcosa, ma non lo aveva compreso. Era il suo turno di sorridere. Lentamente sollevò lo scrigno e cominciò ad armeggiare con la mano ferita alla serratura. L’ espressione della Strega divenne preoccupata.
-Regina-, disse sollevando una mano a toccare il gomito di Miriana,- ordina che lo uccidano. Subito!
Ma Miriana non parlò, ed Erasmus ebbe il tempo di aprire il piccolo scrigno, mentre l’ allarme si tramutava in paura sul volto di Kempu. La Strega prese a scuotere il capo, biascicando parole prive di senso.
Nello scrigno aperto il Cuore si contrasse, appena appena, ma tutti se ne accorsero. Un fremito percorse le file dei guerrieri, gli occhi di Kempu si sgranarono, Miriana rimase impassibile. Poi il Cuore si contrasse ancora, e tutti poterono udire il suo battito. Tu-tump. Kempu scuoteva il capo. Tu-tump. Gli archi si abbassarono. Tu-tump. Le file di lance ondeggiarono, alcuni guerrieri fecero un passo indietro. Tu-tump. Con un gemito le porte del mausoleo si aprirono. Tutti si voltarono in quella direzione e poterono vedere il Marciatore che le varcava in tutta la sua maestà. Era così imponente che i guerrieri disposti nella piana sembravano dei nani, con un aspetto così feroce e bello da intimidire solo al vederlo. Kempu cominciò a gemere e piagnucolare, mentre il Leone dell’ Estate si avvicinava a lunghi, lenti passi.
Horos il Marciatore si fermò di fronte a Erasmus, che ancora era in ginocchio in mezzo all’ erba. La sua mano si allungò a stringere il Cuore che Miriana gli aveva strappato, e nel farlo sfiorò quella di Erasmus. A quel contatto una sferzata di energia attraversò tutto il corpo di Erasmus, scuotendolo e lasciandolo senza fiato: ogni dolore era scomparso, le energie tornate, le ferite sanate. Erasmus si rese subito conto che le dita mancanti lo erano ancora, ma l’ infezione era scomparsa, la carne cicatrizzata; le labbra, pure se ancora spaccate e doloranti, non erano più gonfie e la vista andava a fuoco perfettamente. Mentre finalmente riusciva a rialzarsi nuovamente in piedi guardò il Marciatore che si portava il Cuore verso il petto, lo reinseriva nella ferita ancora aperta e lo collocava al suo posto. Attraverso la ferita vide il cuore palpitare e battere, una, due volte, poi le carni si rimarginarono a vista d’ occhio e della ferita non restò traccia.
Inspirando rumorosamente Horos sollevò il viso al cielo, che il tramonto stava inondando di rosso, distendendo i muscoli della schiena e delle braccia. Quando ebbe rilasciato il fiato volse il capo verso un’ ombra, che nessuno fino a quel momento aveva notato.
-Vieni-, disse con voce profonda che fece tremare il midollo delle ossa. -Il mio divieto è revocato.
Un soffio di vento fresco agitò l’ erba, accompagnato dal sentore di pioggia e foglie marce e terra umida. Un uomo alto, dai capelli castano dorati, avvolto in in un mantello si fece avanti come sospinto da quel leggero vento. A quel punto lo sguardo del Marciatore si fissò sulle due donne. Kempu era diventata grigia in volto, paralizzata dalla vista di Horos.
-Strega-, disse il Leone dell’ Estate, -il tuo cuore è malvagio: gioisce solo per il dolore altrui. Hai voluto vivere in un’ estate senza fine per quale scopo? Tu hai desiderato solo di vedere queste terre inaridire. Sei uno spirito malvagio, e come tale ti condanno a vivere fra le rocce roventi del più meridionale dei deserti.
L’ enorme mano di Horos si sollevò verso Kempu, poi si strinse. Strinse solo l’ aria, ma la Strega si artigliò il petto per un dolore intenso che la prese al cuore. Tremando tutta si afflosciò al suolo, dove cominciò ad agitarsi in preda alle convulsioni, fin quando si bloccò, gli occhi sbarrati al cielo e un filo di bava che scendeva dall’ angolo della bocca. Il suo petto continuava ad alzarsi e abbassarsi al ritmo di un debole respiro, ma in quegli occhi sbarrati non c’ era più alcuna scintilla di coscienza.
Gli occhi neri di Horos si volsero lenti ad incontrare quelli altrettanto neri di Miriana, che ricambiò con fermezza. L’ ombra di un sorriso increspò le labbra di Horos.
-Miriana-, disse in un sussurro. -Non sarò io a condannarti al freddo. Vieni.
Horos tese nuovamente la mano e fece cenno a Miriana di avvicinarsi. La Regina obbedì, e pose la sua piccola mano in quella enorme del Marciatore, che la avvicinò a sé e si chinò a sfiorarle le labbra con un bacio.
-Vai, caldo Vento del Sud.
Gli occhi di Miriana scintillarono di sorpresa, un sorriso incerto sulla bocca. Mosse un passo oltre Erasmus, proseguendo verso la pianura, aprendo le braccia. Le sue vesti furono agitate dal vento e un attimo dopo caddero al suolo vuote.
-Ed ora devo andare anche io.
Tutti si volsero verso il Marciatore, ma lui non c’ era più. Il silenzio si fece assoluto, mentre le ombre si allungavano sulla piana ed il lago. Le vette rocciose dei colli erano ancora arrossate dal sole al tramonto.
A quel punto il giovane col mantello si fece avanti; conduceva per le briglie un cavallo roano che nessuno aveva visto arrivare. Si avvicinò ad Erasmus e gli posò una mano guantata di pelle su una spalla.
-Grazie-, disse.
Erasmus annuì. -Non credo che avrei potuto fare diversamente.
-Adesso devo andare anch’ io.
Subito dopo quelle parole sulla piana rimasero solo Erasmus, i guerrieri neri e la Strega priva di coscienza.
-Io vado a lavarmi al lago-, disse Erasmus.
-Ne hai bisogno, sì-, annuì il più anziano dei guerrieri. -Ti farò portare dei vestiti. Domani verrai con noi al Palazzo Reale, dovrai aiutarci a spiegare molte cose. E dobbiamo anche decidere di che farne della Strega.
Con un sospiro Erasmus annuì.
-Guardate!
               Il grido di stupore di uno dei guerrieri attirò l’ attenzione di tutti verso il cielo ormai oscurato dalla notte. Una tenebra piu' nera della notte andava nascondendo le stelle una dopo l’ altra. 
              Un fulmine baleno' nel buio, seguito poco dopo da un tuono. 
              La pioggia stava arrivando.