Wednesday, 5 October 2011

LA TERRA DELL’ ESTATE


Il pomeriggio era al suo apice e il sole dominava dall’ alto la pianura erbosa. Una leggera brezza faceva stormire le foglie di un boschetto di querce, l’ acqua di un torrente celato dall’ erba alta mandava il suo mormorio. Il cinguettio di uccelli nascosti tra i rami degli alberi riempiva l’ aria. L’ orizzonte a nord era delimitato da un arco di basse colline coperte di pini, da cui il torrente scendeva in una luccicante e sinuosa serie di curve prima di scomparire nel mare verde dell’ erba. Una polverosa strada di terra battuta tagliava diritta la pianura, giungendo da un punto lontano a sud per terminare davanti ad una bassa costruzione di marmo bianco che sorgeva isolata nel centro della distesa erbosa.
Un cavaliere percorreva solitario la strada, in groppa ad un enorme destriero roano. L’ uomo non era di alta statura, ed in sella ad un animale tanto grande pareva ancora più piccolo. Indossava degli attillati calzoni bianchi e una camicia rossa dalle ampie maniche stretta in vita da una fusciacca viola, e calcava in testa un cappello azzurro dalla tesa larga con una piuma bianca fermata da una spilla d’ argento. Tenendo il cavallo al passo, le redini rette mollemente dalle mani poggiate sulle cosce, procedette fino a raggiungere l’ edificio. La costruzione, di un solo piano e lunga una decina di metri, era priva di finestre. Al centro della facciata si apriva un portone a due battenti di un legno bianco privo di venature, sui cui lati si alzavano delle mezze colonne a treccia che reggevano un timpano irto di sottili guglie. Dietro allo strano edificio se ne intravedeva un secondo, più piccolo e costruito in legno con stile spartano.
Tre guardie sostavano davanti al portone, in attesa del cavaliere che avevano scorto da lontano. Chiusi nelle loro corazze brunite, con in testa elmi a calotta con una larga tesa non avevano un aspetto amichevole, nonostante non avessero estratto le spade. Avvicinandosi lentamente, con un sorriso sulle labbra, il cavaliere osservò attentamente le tre guardie, due soldati semplici e un ufficiale. Mentre i primi due avevano il volto celato da una maschera piatta imbullonata alla visiera dell’ elmo, l’ ufficiale aveva il volto scoperto.
-Chiedo scusa-, esordì il cavaliere fermandosi ad un paio di passi dalle guardie. -Ho smarrito la strada per Pendall, potreste rimettermi sulla giusta via?
-Pendall?- Il volto dell’ ufficiale si aggrottò, mentre avanzava di un passo. -Avete sbagliato di molto. Quella città si trova verso sud, lungo il corso del Peiquod.
-Dice sul serio?- Per lo stupore il cavaliere raddrizzò la schiena, e con un unico fluido movimento estrasse dalla fusciacca una pistola con la quale esplose una palla di piombo diritta in faccia all’ ufficiale. L’ uomo cadde all’ indietro, scagliato a terra dal contraccolpo, con un occhio trafitto dalla palla. La reazione delle due guardie rimaste fu più veloce del previsto: sguainarono le spade e si lanciarono contro il cavaliere. La pistola divenne essa stessa un proiettile che impattò contro la maschera del primo soldato, rallentandone lo slancio, e mentre estraeva la spada l’ aggressore fece impennare il cavallo. La bestia scalciò e gli zoccoli sfondarono l’ elmo abbattendo la seconda guardia. Nel momento stesso in cui le zampe del cavallo toccarono terra il cavaliere affondò la spada appena sotto la gorgiera dell’ ultima guardia, uccidendola.
Il silenzio tornò sulla pianura. Tutto si era svolto in una manciata di secondi ed il fumo prodotto dallo sparo aleggiava ancora sopra i tre cadaveri. Con un sospiro il cavaliere smontò di sella, lentamente, come se fosse stanco. Aveva un’ espressione triste mentre recuperava la pistola, controllando se si fosse danneggiata, per riporla in una fondina appesa alla sella.
-Aspettami qui-, disse al cavallo battendogli un paio di pacche sul fianco del collo muscoloso. -Vado a prendere quel che cerco e torno subito.
Voltatosi , la spada ancora in pugno, scavalcò i corpi insanguinati delle guardie e a passi lenti si diresse verso il portone dell’ edificio. Ad un certo punto compì una piccola deviazione, verso un folto ciuffo d’ erba ingiallita della quale strappò una manciata senza fermarsi per ripulire la spada dal sangue.
Giunto alla porta appoggiò ad uno dei battenti la mano sinistra e facendo forza col corpo spinse: il battente si aprì silenziosamente verso l’ interno. L’ ambiente oltre la porta era buio, pregno dell’ odore della polvere e del chiuso. Dopo una sosta sull’ ingresso, per dare il tempo ai suoi occhi abituati all’ abbacinante pomeriggio estivo di adattarsi al nuovo ambiente, avanzò verso il centro della sala dove la luce proveniente dalla porta arrivava appena a permettere di intravedere un piedistallo cilindrico, privo di ornamenti, che sorreggeva uno scrigno di legno. Dentro l’ edificio la temperatura era ancora più alta che all’ esterno. Lentamente, con gli stivali che risuonavano sul pavimento di marmo ad ogni passo, raggiunse il piedistallo e, solo a quel punto, rinfoderò la spada. Con entrambe le mani afferrò leggermente il coperchio del cofanetto, in legno bianco e privo di serrature, sollevandolo. Appoggiato su un’ imbottitura di stoffa anch’ essa bianca, un cuore troppo grande per essere umano si contraeva e rilassava in lente pulsazioni, appena percettibili. Il cavaliere richiuse con attenzione lo scrigno, se lo pose sotto braccio e tornò all’ esterno. Raggiunto il suo cavallo pose lo scrigno in una delle sacche della sella, rimontò in arcione e partì al galoppo diretto verso nord.

Miriana, regina di Nesu, giaceva languida sui cuscini del suo grande letto, gli occhi socchiusi e i grandi seni che si sollevavano lenti nel respiro, la pelle scura coperta di gocce di sudore. Alla sua destra e alla sua sinistra giacevano addormentati un giovane e una fanciulla, entrambi con la pelle bianca come il latte. Con un gesto molle allungò la mano sinistra ad accarezzare la folta capigliatura della ragazza, tanto giovane che i seni in sviluppo avevano l’ areola dei capezzoli ancora gonfia. Le labbra piene le si piegarono in un sorriso: ogni volta che prendeva un nuovo amante lo sceglieva sempre più giovane. Prima di Asa e suo fratello era stata la volta di Carea, che aveva tenuto nel suo letto da quando aveva quindici anni fino al compimento del diciassettesimo. Asa aveva tredici anni, e Asau, il giovane, quattordici: erano inesperti e impacciati, ma la sua libido trovava qualcosa di appagante nei loro corpi acerbi che la resistenza e l’ esperienza di uomini e donne adulti non erano capaci di darle.
Con la mente che si gongolava in simili pensieri e nel ricordo dell’ atto sessuale appena consumato, Miriana quasi si spaventò quando udì bussare alla porta della camera. Poco dopo la voce di una delle sue ancelle chiese il permesso di entrare.
-Entra-, rispose.
La testa ricciuta di Keli, una nera ragazza del sud, fece capolino. I suoi occhi si posarono involontariamente sui due ragazzi addormentati: anche lei aveva condiviso il letto della regina, durante un viaggio in una provincia esterna, ma era stata trovata insoddisfacente e non era più stata richiamata. Miriana non aveva ancora capito se la ragazza ne era stata sollevata o dispiaciuta.
-Chiedo perdono, mia Regina, ma è stata Kempu, la Strega, a mandarti a chiamare.
-A chiamare?
-Ti vuole nel sotterraneo, dice che è successa una cosa grave.
Miriana strinse le labbra: solo Kempu, in tutto il regno, osava parlarle in quel modo. Chiunque altro sarebbe morto, se avesse osato farlo, ma la Strega poteva permetterselo e lo sapeva.
-Aiutami a vestirmi!- ordinò seccamente a Keli.
Alzandosi dal letto svegliò Asa, che sollevò il viso insonnolito per guardarla. Accortasene, Miriana le si rivolse duramente: -Sveglia tuo fratello e tornatevene nelle vostre stanze. Vi farò chiamare io!
E mentre Miriana, aiutata da Keli, indossava la sua veste adorna di ossa cucite, Asa scosse il fratello per la spalla, fino a svegliarlo, e in silenzio lo condusse fuori della camera per una porta nascosta da un pesante drappo.
Chiedendosi cosa potesse essere successo di così grave perché Kempu volesse essere raggiunta proprio in quell’ orario, Miriana finì di vestirsi e lasciò le sue stanze, senza più curarsi di Keli. Percorse a lunghi passi i corridoi della sua ala personale del palazzo senza incontrare nessun servitore: ogni uomo o donna, di qualunque età, era ben addestrato a svolgere i suoi compiti senza mai farsi vedere se non esplicitamente chiamato. Discese ai piani inferiori e da lì prese una stretta scala a chiocciola che la portò sottoterra, nel freddo delle camere segrete della Strega.
Kempu era una vecchia avvizzita, con la pelle grigia bruciata dal sole al punto che non si riusciva più a capire di quale colore fosse stata alla nascita. Sebbene il nome suggerisse un’ origine fra le genti dalla pelle nera che vivevano nel sud del regno, poteva benissimo trattarsi di una donna degli Oviti, i dominatori del nord, o degli Asperi dell’ ovest, entrambi popoli dalla pelle olivastra. Ma poteva anche trattarsi di una straniera giunta da oltre i monti Carazzi, dove tutti hanno la pelle rosea o bianca. Neanche i capelli potevano essere d’aiuto per capirne l’ origine perché non li aveva più, persi a causa di un incendio, diceva, e li aveva sostituiti con innesti di lunghi e rigidi peli della criniera di un gau, il leone gigante con tre occhi che vive nelle fitte foreste delle disabitate Terre dell’ Est.
Gli occhi ardenti di Kempu si puntarono su Miriana non appena questa entrò nella stanza, notando la pelle d’ oca che le copriva le braccia e le cosce. La regina amava il sole e il suo calore.
-Cos’ è successo, Kempu?
La vecchia non rispose subito, ma agitò la mano destra sopra un bacile di pietra, pieno di acqua fumante, disperdendone i vapori ed osservandone la superficie immota.
-Non lo trovo più-, mormorò a se stessa, poi tornò a rivolgere lo sguardo ardente sulla regina. -Un viandante è giunto al Mausoleo. Ha ucciso le guardie e portato via il Cuore.
Un freddo peggiore di quello che aleggiava nelle stanze sotterranee pervase il corpo di Miriana, scioccata dalla notizia.
-Come è possibile... I tuoi incantesimi... perché non hanno funzionato?
Kempu scosse la testa, piena di rabbia perché qualcuno fosse riuscito a vincere le malie che aveva posto a protezione di quel luogo. Aveva pensato ad ogni eventualità, ad ogni Spirito umano e non umano: i suoi incantesimi avrebbero portato i viaggiatori a volgere i passi in un’ altra direzione, o a passare vicino al Mausoleo senza vederlo, o a smarrire la strada oppure se stessi. In qualsiasi modo il viandante avesse reagito alla sua magia, che fosse giunto al Mausoleo per caso o avesse coscientemente volto i suoi passi alla ricerca di esso, nessuno doveva essere in grado di raggiungere la porta del Mausoleo. Invece era accaduto.
-Credo che non fosse un uomo qualunque, o forse non è neppure un uomo. Un Inviato doveva arrivare prima o poi, ma non capisco come abbia potuto eludermi. A malapena ho avvertito il pericolo, e in ritardo.
-Cosa facciamo?- La voce di Miriana era piena di timore.
-Allerta gli astati, tutti i tuoi uomini migliori, i più pericolosi. E’ fuggito verso nord e di certo riuscirò a trovare le sue tracce. Vai!
Miriana si volse di scatto e corse alle scale che la riportarono ad emergere nel calore del suo regno estivo.

Nel sole abbacinante la polvere impalpabile sollevata dall’ ultimo cavallo partito tornò a posarsi. Nascoste tra i rami di un boschetto di acacie le cicale alzavano il loro canto assordante al cielo cobalto, privo di nubi e così uniforme da sembrare dipinto. Miriana sedeva sul trono montato su un palco, circondata dalla sua corte, all’ ombra di un baldacchino bianco. Per primi erano partiti gli astati, cinquanta cunie, cinquecento uomini in tutto, dalla lucida pelle nera, alti oltre due catene, completamente nudi e a piedi, armati di zagaglia e protetti dal caratteristico scudo ovale alto quanto loro, che ognuno aveva fabbricato da solo intrecciando strisce di corteccia dell’ albero kui e rivestito della pelle variopinta di qualche bestia o dipinto con figure di belve feroci o animali fantastici. Poi erano partiti duecento Eccelsi, la guardia personale della regina, cavalieri del nord, reduci delle guerre contro i Sabrii, il sanguinario popolo che viveva sulle rive del lago Gampuka e che praticava l’ antropofagia rituale. Infine i Kiz, dieci sacerdoti-assassini, allevati nei luoghi oscuri del tempio di Oaz il Parricida, il dio-ragno, i cui servigi Miriana avrebbe pagato con dieci notti d’ amore per ognuno dei dieci, durante le quali avrebbe dovuto soddisfare ogni capriccio del Gran Sacerdote Ergau.
Ogni gruppo avrebbe percorso una diversa strada verso il nord, così da coprire una parte di territorio quanto più ampia possibile. Intanto Kempu avrebbe proseguito la ricerca del ladro coi suoi poteri, ed una volta individuatolo avrebbe segnalato la sua posizione al gruppo più vicino. Il ladro avrebbe dovuto compiere molta strada per raggiungere la sua meta, e non poteva neanche dirigervisi direttamente ma compiere un largo giro, altrimenti sarebbe incappato negli accampamenti permanenti dell’ esercito. I suoi uomini avevano tutto il tempo di tagliargli la strada, sempre che uno dei gruppi non riuscisse a raggiungerlo. Kempu l’ aveva rassicurata: il ladro aveva ben poche speranze di riuscire nella sua impresa. Ma Miriana non riusciva a tranquillizzarsi. Le parole della Strega le suonavano vuote e in realtà prive di sicurezza. Anche la Strega aveva paura. Se il Leone dell’ Estate fosse stato risvegliato la sua vendetta sarebbe stata terribile.
Miriana ripensò agli eventi di alcuni anni prima. Kempu era giunta a lei durante un tramonto d’ estate, senza che nessuna guardia la vedesse passare e penetrare nel giardino di palazzo dove Miriana passeggiava. Il profumo dei gelsomini estivi e del fiore del desiderio riempiva l’ aria, insieme al ronzare delle ultime api e al frinire dei primi grilli. La vecchia era comparsa davanti a lei improvvisamente, come materializzandosi dalle ombre incombenti, come attraversando il velo delle foschie della sera. Gli occhi magnetici della Strega l’ avevano catturata e immobilizzata: nel profondo di quei due pozzi neri e oscuri ardeva un fuoco fatto di brama e potere che si alimentavano a vicenda, un fuoco che dava energia al minuto corpo rinsecchito dal sole della vecchia.
-C’ è freddo nel tuo cuore, Regina-, disse la Strega. -Un freddo che nessun amante è ancora riuscito a scacciare. E non troverai mai amante capace di farlo. Sei condannata a portare il freddo dentro di te, come un figlio che ti ruba le forze per accrescere se stesso, per sempre. A meno che...- La voce della Strega era divenuto un sussurro che si mescolò al ronzio delle api. -A meno che tu non mi dia ascolto.
Al profumo dei fiori, parve a Miriana, si era mescolato un odore dolciastro, stucchevole, ma era appena accennato, andava e veniva, e non riusciva a catturarlo né classificarlo, tanto che a momenti pensava di immaginarselo.
-Cosa devo fare?
Kempu sorrise, strisciando verso di lei nell’ imbrunire, un’ ombra lei stessa, un fantasma del crepuscolo. E sussurrò all’ orecchio della Regina le sue richieste. Miriana le esaudì, e, cosa di cui si accorgeva soltanto adesso, le aveva concesso un potere infinito su se stessa e su tutto il suo regno.
Kempu aveva eseguito i suoi rituali preparando Miriana per settimane, poi, sul finire dell’ estate, le aveva consegnato un pugnale dalla lama serpeggiante giunto da terre sconosciute e le aveva indicato un luogo in cui recarsi ad aspettare.
-Fermati al centro del prato-, le aveva detto Kempu, -nascondi il pugnale nell’ erba e aspetta.
Al tramonto Miriana si era recata nel luogo indicatole, aveva nascosto il pugnale nell’ erba, si era spogliata totalmente ed era rimasta in piedi nel vespro, in attesa, la pelle bruna indorata dal sole che andava scomparendo. Nel crepuscolo aveva udito dei passi pesanti e regolari farsi sempre più vicini, fin quando una figura imponente le era apparsa di fronte comparendo dal nulla. Il suo cuore aveva accelerato i battiti, un po’ per la paura, un poco per l’ eccitazione. Ansante aveva atteso immobile mentre il gigante le si avvicinava, poi aveva sentito il suo respiro profondo solleticarle la gola. Mani calde e forti avevano sfiorato le sue braccia, quindi, afferrandola saldamente per i fianchi, l’ avevano fatta stendere sull’ erba. Il lungo amplesso che era seguito era stato il più bello che avesse mai vissuto. Ancora adesso, seduta su quel palco a guardare la spianata ormai vuota, veniva presa da un fremito al ricordo del sesso del Marciatore che la penetrava e del piacere che l’ aveva riempita mentre lo cavalcava. Poi... poi aveva allungato la mano nell’ erba, proprio mentre il sesso del Marciatore cominciava a pulsare nel culmine del piacere. E quando la sua eiaculazione l’ aveva portata all’ apice, mentre l’ orgasmo la travolgeva, aveva affondato il pugnale nel suo petto. Si era rialzata stordita, inebetita dall’ orgasmo, gocciolante fra le gambe e schizzata di sangue sul viso e il seno, le braccia fino al gomito e le mani grondanti di sangue, nero nella notte, caldo sulla pelle. Nella sinistra stringeva convulsamente il pugnale ricurvo, nella mano destra teneva il grosso cuore del Leone dell’ Estate. Il cuore pulsava ancora e non accennava a smettere. Aveva reso l’ Estate sua prigioniera.

Erasmus teneva il suo destriero al passo, percorrendo uno sbiadito sentiero serpeggiante al limitare della savana. Il sudore aveva inzuppato la sua camicia sotto le ascelle e sulla schiena, e il caldo del pomeriggio pareva fiaccare anche il cavallo così come aveva fiaccato tutta la natura circostante. Se si fosse guardato intorno, fin dove il suo sguardo avesse spaziato, avrebbe visto solo distese ingiallite di alta erba sottile, alberi dalle foglie piccole e pendule, sterpi, rocce scintillanti e polvere a malapena palpabile che si sollevava al movimento del più piccolo animale per tornare a posarsi lentamente. Ma Erasmus non aveva bisogno di guardare: aveva avuto giorni e giorni, chilometri e chilometri di viaggio per familiarizzare con quel paesaggio. Non si muoveva neppure un refolo di vento. Tutto andava lentamente seccandosi. Turbato e scorato, meditava su ciò che il freddo di un cuore e la follia di una mente avevano fatto a quelle terre. La gloria dell’ estate era stata mutata nella disseccante aridità di una fornace. Capitava, a volte, che il Leone prendesse il sopravvento sul Marciatore. Lo Spirito dell’ Estate si innamorava di una terra e rifiutava di lasciarla, disseccandola e trasformandola in un deserto. Ma ciò faceva parte dell’ ordine naturale delle cose. Prima o poi l’ Araldo del Re d’ Inverno sarebbe riuscito a scacciarlo per aprire la strada al suo signore. Invece ciò che stava accadendo in queste terre non aveva niente di naturale.
Il limite della steppa era segnato da gruppi di acacie spinose, che crescevano incerte in gruppi radi, tentennanti come un soldato impaurito. Poco oltre, a tratti, il sole scintillava sull’ acqua di un piccolo fiume che il prolungarsi della stagione asciutta aveva affossato tra le rive, rendendolo lento e stagnante, fangoso nelle anse. Quando Erasmus vi giunse poté contemplare il disfacimento che stava colpendo la terra: l’ acqua scorreva lenta e sporca, piena di mucillagine; le rive fangose erano cosparse delle carcasse semimarcite di rane e pesci; la vegetazione tipicamente succulenta cominciava a rinsecchirsi, a farsi più coriacea. Scosse la testa per l’ ennesima volta, ma con meno vigore rispetto alla volta precedente, che a sua volta era stata meno vigorosa di quella prima ancora. Il caldo lo stava lentamente fiaccando, mozzandogli il respiro e rammollendogli il corpo. C’ era un che di anomalo in quel calore, gli pareva. Non che avesse esperienza di estati simili: la sua terra d’ origine aveva un clima completamente diverso, ma le estati potevano essere afose o torride anche a Rejkapur, la grande capitale del suo paese: la brezza marina non soffiava, la pioggia non cadeva per settimane, e la ininterrotta distesa di pietre con cui la città era stata costruita si surriscaldava fino a diventare rovente; e quando calava il buio le pietre delle strade e degli edifici rilasciavano il calore accumulato, rendendo soffocante l’ aria già appestata dall’ odore di pesce marcio, fogne a cielo aperto, animali e delle migliaia di persone che ci vivevano. Ma con quel calore si poteva convivere: lo accettavi, lasciavi che ti attraversasse, e tu stesso divenivi un elemento dell’ estate stessa, un organismo in sintonia con l’ ambiente circostante. Ciò che stava provando ora, invece, era qualcosa che il suo fisico non riusciva a tollerare. Forse per i nativi, già abituati a quel clima anche se non esasperato fino a quel punto, era differente, ma lui ne veniva consumato. Il caldo gli stava sfibrando i muscoli, gli sembrava che i suoi polmoni si fossero gonfiati e trasformati in spugne secche; la lingua gli si stava ingrossando, e così pure le labbra che si screpolavano, per non parlare delle dita delle mani. Se si fossero gonfiate ancora un poco, probabilmente non sarebbe riuscito più a premere il grilletto della pistola né tanto meno ad impugnare saldamente la spada. Quel caldo era alleato dei suoi nemici.
Asciugandosi il sudore sulla fronte accantonò quei cupi pensieri. Spinse il cavallo giù per la riva del fiume, ne attraversò il corso in un punto in cui era particolarmente esiguo per poi risalire la sponda opposta. La crosta di fango secco cotto e indurito dal sole cedette appena sotto il peso del cavallo.
Il fiume segnava il confine della steppa, o almeno lo aveva fatto prima della siccità. Il terreno ondulato che andava alzandosi in una serie di aspri colli all’ orizzonte era coperto da gruppi di alberi sempre più numerosi che si riunivano a formare un bosco che diventava più folto via via che ci si avvicinava ai colli. Ma molti degli alberi più giovani erano seccati, gli altri avevano perso la maggior parte delle foglie ed erano ingialliti; l’ erba era secca al punto che una semplice scintilla avrebbe provocato un incendio, e la sabbia trasportata dal vento andava accumulandosi nelle concavità del terreno. Oltre i colli, riportavano le sue istruzioni, si stendeva un grande lago, il Bajkampal, il più grande lago di tutto il Nesu. Sulla riva occidentale del lago, ai margini di un territorio spopolato, c’ era la sua meta, il mausoleo in cui era custodito il corpo del Marciatore. Non vi poteva giungere direttamente, gli era stato detto, perché sulla sponda meridionale era accampato l ‘esercito permanente della Regina Miriana, il cui numero oscillava tra i diecimila e i ventimila uomini a seconda del periodo dell’ anno. Perciò avrebbe dovuto compiere un lungo giro, spingendosi molto a est del lago per poi raggiungere il mausoleo da quella direzione. Non sarebbe stato facile: un giorno di cavallo per arrivare alla base dei colli, forse di più, un altro verso est e un altro ancora per attraversare i colli. Dall’ altra parte lo aspettava il territorio infido di Kulu-asu, una stesa ondulata di vegetazione inestricabile, sabbie mobili e pietraie labirintiche. Il tempo che avrebbe impiegato ad attraversarlo non lo sapeva. Con quel caldo gli pareva una missione impossibile.
Nel frattempo che la mente di Erasmus aveva indugiato nell’ autocommiserazione, il suo cavallo non aveva rallentato il passo e lo aveva portato in mezzo ai primi gruppi di alberi misti a cespugli di spaséh, un’ erba alta quanto un uomo, folta e dagli steli cilindrici zebrati, che i nativi intrecciavano per fabbricare canestri e altri recipienti. Sempre senza rallentare il passo, il cavallo emise uno sbuffo e tirò indietro le orecchie. Erasmus fu subito riportato alla realtà dall’ atteggiamento dell’ animale: davanti a lui c’ era un pericolo, nascosto probabilmente nei cespugli, se fossero uomini o bestie ancora non lo sapeva. Accorciate le redini portò una mano alla pistola e tese i sensi cercando di capire dove fosse celato il nemico.
Erasmus aveva scoperto fin da bambino di avere sensi particolarmente acuiti, superiori a quelli che dovrebbe avere un uomo: quasi animaleschi li aveva definiti una volta un suo vecchio zio. Ed aveva imparato a sfruttarli appieno quanto più velocemente aveva potuto: gli erano stati di grande aiuto per sopravvivere nelle strade di Rejkapur, una città in cui la metà dei bambini, maschi o femmine, poveri o ricchi che fossero, veniva uccisa o scompariva per sempre, caricata di nascosto su qualche bastimento in partenza per essere usato durante il viaggio e poi venduto come schiavo. C’ era molta richiesta di bambini, un po’ in tutto il continente: servivano per compiere servizi nelle case signorili, nei bordelli e nelle miniere. Erasmus stesso era figlio di uno di questi schiavi: caso più unico che raro, suo padre, di nome Julius, era riuscito a sopravvivere nella miniera dove lavorava nei cunicoli troppo piccoli perché potesse infilarcisi un adulto. Era costretto a camminare a quattro zampe, trainando un carrello con una fune legata alla vita e spingendone un altro con la testa. Divenuto troppo grande per riuscire a percorrere quei cunicoli, sfigurato da bruciature e con la sommità del capo priva di capelli a causa del contatto col carrello, i suoi padroni non avevano saputo che farne di lui. Non potevano venderlo, perché nessuno avrebbe comprato uno schiavo così brutto e già grande, e non si fidavano a dargli un piccone e spedirlo con gli altri minatori, per paura che alla prima occasione usasse il piccone contro di loro. Era stato proposto di ucciderlo, ma nessuno voleva un omicidio sulla coscienza: così lo avevano fatto bastonare, poi lo avevano messo su un carro che lo aveva scaricato molto lontano dalle proprietà minerarie e gli era stato intimato di non farsi più vedere. A Julius non era parso vero: non pensando minimamente a vendicarsi si era rialzato e incamminato verso la sua città natale.
Adesso, i suoi sensi particolarmente acuiti, gli stavano nuovamente tornando utili. Un leggero fruscio provenne da dietro uno dei cespugli, il movimento di un guerriero esperto che si prepara a balzare all’ attacco. Erasmus non attese, estrasse rapidamente la pistola e fece fuoco contro il cespuglio: un gemito strozzato e un tonfo gli dissero che aveva colto nel bersaglio. Rapidamente fece aggirare il cespuglio al suo cavallo. Trovò un uomo magro steso a terra, vestito di una tunica e di un turbante neri; quest’ ultimo gli avvolgeva il viso, ma la palla della pistola lo aveva strappato. Era ancora vivo, e cercava invano di raccogliere un grosso coltello a falce dalla lama doppia: non era caduto fuori della sua portata, ma la palla della pistola lo aveva raggiunto alla mandibola, spezzandola, il sangue gli aveva riempito gli occhi e così non poteva vedere che la sua arma era finita in una direzione diversa da quella in cui la stava cercando.
Erasmus scese da cavallo e, tenendosi lontano dall’ uomo, lo aggirò raggiungendone il coltello. L’ arma lo identificava come uno dei sacerdoti-assassini del dio-ragno, quindi capace di uccidere a mani nude anche privato della vista. Forse il dolore che stava provando per la ferita ne avrebbe inficiato le capacità, ma Erasmus non aveva intenzione di rischiare. Raccolse il coltello a falcetto mentre l’ assassino, seguendo il rumore dei suoi passi, si metteva in ginocchio e si girava nella sua direzione. Appena stretta l’ elsa dell’ arma, Erasmus la sollevò in un veloce arco verso l’ alto e verso l’ esterno, tagliando con precisione la gola del suo nemico. Dopodiché lasciò ricadere il pugnale insanguinato nella sabbia. I Kiz operavano soli, quindi, tenuto conto che il loro numero non era elevato, si dovevano essere allargati parecchio per battere meglio il territorio alla sua ricerca. Erasmus ne dedusse che non dovevano esserci altri Kiz nei paraggi, ma niente vietava che vicino ci fosse qualche altro tipo di cacciatore. Si chinò sul cadavere e frugò nelle tasche interne della tunica: trovò una borraccia a vescica, una piccola sacca con razioni di cibo essiccato e una sacca ancor più piccola piena di polvere d’ oro. Prese tutto: la bevanda maleodorante nella borraccia e il cibo sicuramente amaro lo avrebbero sostentato meglio di ciò che gli restava dei suoi viveri; l’ oro, invece, sarebbe potuto tornare più utile della pistola col prossimo cacciatore.

Kempu le portò la notizia della morte del Kiz. Miriana agghiacciò vedendo il ghigno soddisfatto della megera, che si allargò ancor di più notando la sua reazione.
-Uccidendo il Kiz mi ha rivelato la sua posizione-, biascicò la strega. -Ci sono degli astati nelle vicinanze e ho già inviato loro un messaggio indicando dove devono aspettarlo. Entro il terzo tramonto sarà in mano nostra.
Miriana rimase in silenzio, fin quando la strega decise di andarsene. Chiunque fosse l’ intruso, pensò la regina, era riuscito prima a trovare il Cuore nascosto attraverso gli incantesimi di Kempu, ed ora aveva ucciso un Kiz. Le sue capacità erano sicuramente fuori del comune: sarebbero riusciti degli astati a fermarlo?
Con la disperazione nel cuore Miriana si recò a passeggiare nei suoi giardini privati. Senza neppure accorgersene si trovò a passare nello stesso punto in cui, tempo prima, Kempu le si era rivelata. Ristette, avvertendo qualcosa di sbagliato ma senza riuscire a capire di cosa si trattasse. Infine comprese: né il profumo dei fiori né il rumore degli insetti riempiva l’ aria, solo un odore pesante di polvere. La morsa intorno al suo cuore si strinse e il dubbio la pervase. Quale follia l’ aveva presa? Come aveva potuto dare ascolto alla Strega?
Poi ripensò al freddo che la pervadeva ogni anno all’ arrivo della stagione delle piogge: ricordò il dolore che l’ aveva straziata, molti anni prima, in un giorno umido e velato di pioggia, che cadeva fine e grigia. L’ orizzonte era nascosto da un sipario grigio e smorto, il lieve rumore dell’ acqua che ruscellava su tutte le superfici faceva da sottofondo alla sua vita. E alla scoperta che lui era partito, che l’ aveva abbandonata. Non un addio, né un messaggio per spiegarle cosa era accaduto. Al risveglio non lo aveva più trovato. Aveva preso le sue cose ed era partito con esse: non si erano più trovate tracce di lui. L’ amore si era mutato in pianto, il freddo era strisciato lentamente nel suo cuore e non se ne era più andato. Solo quando il caldo tornava riusciva a sciogliere il ghiaccio e a farle dimenticare: il sole sulla pelle le dava sensazioni che la pervadevano fino all’ animo, risvegliando i suoi sensi. Era lasciandosi andare ai sensi che riusciva a dimenticare il tradimento e la ferita subita. Anzi, era un modo per vendicarsi. Si era data a quell’ uomo, gli aveva dato tutto di sé, era stato il primo, e lui l’ aveva abbandonata, gettata via come una cosa senza valore.

Due ore dopo l’ alba, Erasmus raggiunse i primi bassi colli che lo dividevano dal Kulu-asu. Si trattava di formazioni rocciose frastagliate di origine calcarea, con valli e canaloni aspri e contorti più della mente di un folle, scavati da numerosi corsi d’ acqua di un’ altra era la cui unica traccia oramai erano solo gli accumuli di ciottoli e sabbia grossolana nei fondovalle. I colori dominanti erano un giallo ocra e un rosso sbiadito che il sole feroce faceva riverberare, rendendo l’ intero paesaggio surreale e allucinatorio. Ed un’ allucinazione era ciò che Erasmus temeva lo avrebbe colpito di lì a poco.
Lasciandosi alle spalle l’ ultima stentata vegetazione il cavaliere raggiunse l’ imbocco di una grande valle che sembrava salire per una discreta distanza prima di interrompersi in una serie di involuzioni. I valichi per attraversare i colli erano numerosi, gli era stato spiegato, ma per raggiungerli avrebbe dovuto attraversare un vero e proprio labirinto naturale. Se era fortunato sarebbe arrivato fino a metà della scalata prima di dover abbandonare il cavallo. Se era sfortunato poteva trovare una frana a sbarrargli la strada subito dopo la prima svolta.
In quel momento delle grida si levarono alle sue spalle. Spaventato Erasmus si volse di scatto sulla sella: dieci guerrieri erano sbucati dai cespugli e correvano verso di lui a lunghe falcate, tenendo lungo i fianchi uno scudo ovale alto quanto un uomo e una lunga zagaglia con una punta piatta della dimensione di un avambraccio. Astati! Dieci erano decisamente troppi da affrontare, anche col vantaggio del cavallo. Con un colpo dei talloni Erasmus fece ripartire il destriero su per la stretta valle, confidando nella fortuna e nelle asperità del terreno per rallentare la corsa a piedi nudi degli astati.
La frana c’ era, non dopo la prima svolta ma neanche tanto distante dall’ imbocco. Appena se la trovò davanti Erasmus ebbe un tuffo al cuore, ma quasi subito notò che non aveva chiuso completamente il passaggio sul lato opposto a quello da cui era caduta. Raggiunto l’ accumulo di roccia e polveri Erasmus smontò dalla sella e, conducendo l’ animale per le briglie, iniziò ad arrampicarsi sui mucchi instabili di pietrisco. Scivolando a turno, spostandosi a volte in orizzontale per trovare un punto più compatto e stabile, uomo e cavallo procedettero faticosamente verso la sommità della frana. Poi, improvvisi, il sibilo e il nitrito di dolore del cavallo. Erasmus si sentì strattonare violentemente dalle redini, che gli affondarono nel palmo della mano. Un dolore intenso lo prese al polso e alla spalla, mentre cadeva all’ indietro. Rotolò per alcuni metri, perdendo la presa sulle redini. Quando riuscì a riaprire gli occhi era ricaduto per la metà della salita effettuata, aveva dolori in tutto il corpo e non riusciva a muovere il braccio destro. Il suo cavallo agonizzava un metro più in basso con una zagaglia conficcata nel fianco. Gli astati erano alla base della frana ed iniziavano a salire verso di lui. Faticosamente si sollevò in ginocchio ed impugnò la pistola con la mano sinistra. Attese che gli astati fossero saliti di alcuni metri, e a quel punto fece fuoco. Gli scudi si sollevarono a protezione e la palla di piombo si piantò in uno di essi.
E’ finita”, pensò Erasmus, ma la sua mano andò comunque allo stocco.
Vattene. La voce risuonò direttamente nella sua testa. Sollevò gli occhi e gli parve di vedere un’ ombra in piedi al suo fianco, l’ ombra di un uomo alto avvolto in un mantello. Nell’ aria c’ era odore di pioggia e terra bagnata. Prosegui, penserò io a fermarli. L’ ombra, poco più che un velo di fumo nell’ aria, allungò una mano e lo toccò alla spalla destra: immediatamente il dolore svanì ed Erasmus poté nuovamente muoverlo. Non indugiare!
Senza perdere altro tempo Erasmus scivolò fino al cavallo, prese dalla sacca della sella lo scrigno col Cuore, poi si rizzò in piedi e prese ad arrampicarsi, inseguito dalle grida degli astati. Una zagaglia colpì il terreno a mezzo metro da lui, schizzandolo di pietrisco. D’ istinto la raccolse e proseguì verso la cima della frana. L ‘ aveva appena raggiunta quando un tremendo nitrito riecheggiò nella valle, seguito da uno schianto e un grido di dolore troncato a mezzo, poi da altre urla rabbiose. Fermarsi a guardare fu più forte di lui. Il cavallo ferito scalciava selvaggiamente, arcuando il collo a destra e sinistra, con gli astati che si lasciavano scivolare giù per la frana; uno di loro invece giaceva scompostamente sul fondo valle. L’ ombra di un uomo con mantello si sovrapponeva al cavallo imbizzarrito. In quel momento un calcio dell’ animale raggiunse un altro astate, sfondando lo scudo e facendolo rotolare giù per la frana. Erasmus non attese oltre e si lanciò giù per l’ altro versante della frana.

Grida e nitriti riecheggiarono a lungo nella valle, mentre lui la percorreva di corsa. Aveva riposto lo stocco ed impugnava la zagaglia che gli avevano scagliato dietro, stringendo lo scrigno sotto il braccio sinistro. Aveva perso il cappello chissà quando: non si era accorto se durante la caduta dalla frana o se nella corsa successiva. Non aveva importanza, non aveva importanza niente altro che fare in fretta: la Regina Miriana e la sua strega gli stavano stringendo intorno un nodo scorsoio fatto di guerrieri. Come a conferma della sua paura comparvero, da dietro delle rocce, due soldati. Portavano la divisa rossa dei mercenari, e dall’ espressione che comparve sul loro viso non si aspettavano certo di trovarselo di fronte. Erasmus reagì d’ istinto, scagliando la zagaglia mentre ancora era in corsa, ed un attimo dopo, maledicendosi per non essersi fermato a ricaricare la pistola, estrasse lo stocco. Uno dei due soldati crollò al suolo sulla schiena, trafitto al plesso solare, un attimo prima che vibrasse un affondo con lo stocco verso il suo compare. Ma i riflessi del soldato furono rapidi e il colpo venne deviato. Sottraendosi ad una eventuale risposta Erasmus pensò rapidamente a come togliersi da quella situazione: quel duello era da evitare, non poteva né perdere tempo né rischiare di essere ferito.
-Aspetta!
Il soldato si bloccò, teso come una corda di violino, guardandolo con sospetto da sotto la visiera del cappello. Erasmus comprese di avere una possibilità: la morte del suo compagno lo aveva lasciato incerto e il timore si era insinuato nella sua mente, altrimenti non avrebbe esitato a contrattaccare. Ed il fatto che fosse un mercenario rendeva tutto più facile.
-Possiamo metterci d’ accordo, invece di scannarci a vicenda. Io non ho niente contro di te e tu sei qui solo per denaro: ti pagherò e tu mi lascerai passare, andandotene per la tua strada. Guarda.- Lentamente infilò la mano sinistra nella camicia, tirandone fuori il sacchetto con la polvere d’ oro presa al Kiz. -E’ oro che ho preso ad un Kiz che ho ucciso: sicuramente è una somma superiore alla tua paga di un anno.
Il mercenario lo sogguardò. -Posso ucciderti e prendermi l’ oro lo stesso.
-Sicuro di potermi uccidere?
-Neanche tu sei sicuro di poter uccidere me.
-No, non lo sono, altrimenti non ti avrei fatto quest’ offerta. Ma è il tempo che mi manca, e tu me lo stai facendo perdere.- Con uno scatto del polso lanciò il sacchetto lontano, alla sua sinistra. -Accetta alla svelta oppure combatti.
Erasmus cominciò a muoversi in avanti, spostandosi contemporaneamente a destra, mentre il mercenario faceva lo stesso, sempre senza smettere mai di sorvegliarsi. Piano piano il soldato fu vicino al sacchetto dell’ oro ed Erasmus allo sbocco della valle. La mano del mercenario scese ad afferrare il sacchetto, ne allentò i legacci così da poter controllare il contenuto, poi annuì. Il sacchetto scomparve nel giustacuore del mercenario e quest’ ultimo scomparve per un sentiero appena abbozzato su per il fianco della valle. Erasmus riprese la sua corsa verso il Kulu-asu.

Era l’ alba quando si trovò davanti l’ apparentemente infinita distesa di acquitrini. Pozze, rigagnoli, canali e stagni si intrecciavano in una labirintica ragnatela d’ acqua, in cui prati e isolotti coperti da canneti parevano insetti catturati da un ragno invisibile. Qua e là affioravano anche pietraie e monoliti, ultime propaggini degli aridi colli che Erasmus aveva appena attraversato. Arrancando si inoltrò nelle paludi del Kulu-asu.

Il sole era sorto due volte, da quando Erasmus era entrato nelle paludi, ed ora stava per tramontare la seconda volta. Le paludi erano ormai alle sue spalle, davanti a lui c’ era il lago Bajkampal. Più a nord paludi e lago passavano dalle une all’ altro e viceversa senza soluzione di continuità, ma qui una piccola pianura di erba giallastra divideva le acque dei due bacini. Stremato, sporco di fango e di sangue, Erasmus arrancò verso il mausoleo che sorgeva vicino alla riva pietrosa del lago, in un punto in cui un braccio del lago stesso si insinuava tra i bassi colli creando un quadro pittoresco. Consumato dallo sforzo e dalla mancanza di cibo tutto il corpo di Erasmus gemeva di sofferenza. La sua mano destra mancava del mignolo e dell’ anulare, a causa di un coccodrillo che lo aveva azzannato in un momento in cui si era fermato a bere: aveva tamponato la ferita con un pezzo della sua camicia, e il giallo mescolato al rosso del sangue gli diceva che la ferita si era infettata. Oltre a ciò l’ acqua che aveva bevuto gli aveva procurato anche una forte dissenteria, ed oltre che di fango e sangue era sporco anche dei suoi escrementi.
Nel complesso”, si disse con un ghigno delle labbra tumefatte, “ sono mezzo morto, e fra non molto forse lo sarò del tutto. Ma almeno ce l’ ho fatta.”
Aveva appena completato questo pensiero quando comprese che non era così: da nascondigli in mezzo all’ erba si sollevarono i guerrieri della Regina, negri giganteschi rivestiti di corazze di pelle di rettile, i volti dipinti con teschi bianchi e le teste incorniciate da criniere di leone, archi tesi e sottili frecce piumate di bianco puntate su di lui, il sole scintillante sulle cuspidi di bronzo delle lance. Un passo strascicato dietro l’ altro Erasmus proseguì verso i guerrieri, estraendo lo stocco e trascinandolo con la punta nell’ erba fin quando gli sfuggì dalla mano ferita e cadde al suolo. Nella sinistra stringeva il piccolo scrigno contenente il cuore del Marciatore.
Quando fu in mezzo ai guerrieri si fermò vacillante sulle gambe malferme. Aveva gli occhi gonfi ed arrossati, ed a tratti la vista gli si appannava. A quel punto, da dietro il mausoleo apparvero la regina Miriana e la strega Kempu, con un seguito di cortigiani e portatori d’ ombrello per ripararle dal sole. Miriana avanzò maestosa e bellissima, i piedi calzati da sandali di erbe intrecciate, il volto aggrondato e pensieroso. La strega invece procedeva con lo stesso passo saltellante dei corvi mangiatori di carogne, un sorriso laido stampato sulla bocca sdentata, sfregandosi le mani. Le due erano giunte a pochi passi da Erasmus quando a questi cedettero le gambe e cadde in ginocchio. Kempu annuì, come se il suo fosse stato un dovuto atto di sottomissione.
Apri lo scrigno, sussurrò nell’ aria del vespro una voce che era come il frusciare di foglie secche.
Il sorriso sul viso di Kempu scomparve, mentre cominciava a girare la testa da una parte e dall’ altra, in ascolto. Erasmus comprese che aveva avvertito qualcosa, ma non lo aveva compreso. Era il suo turno di sorridere. Lentamente sollevò lo scrigno e cominciò ad armeggiare con la mano ferita alla serratura. L’ espressione della Strega divenne preoccupata.
-Regina-, disse sollevando una mano a toccare il gomito di Miriana,- ordina che lo uccidano. Subito!
Ma Miriana non parlò, ed Erasmus ebbe il tempo di aprire il piccolo scrigno, mentre l’ allarme si tramutava in paura sul volto di Kempu. La Strega prese a scuotere il capo, biascicando parole prive di senso.
Nello scrigno aperto il Cuore si contrasse, appena appena, ma tutti se ne accorsero. Un fremito percorse le file dei guerrieri, gli occhi di Kempu si sgranarono, Miriana rimase impassibile. Poi il Cuore si contrasse ancora, e tutti poterono udire il suo battito. Tu-tump. Kempu scuoteva il capo. Tu-tump. Gli archi si abbassarono. Tu-tump. Le file di lance ondeggiarono, alcuni guerrieri fecero un passo indietro. Tu-tump. Con un gemito le porte del mausoleo si aprirono. Tutti si voltarono in quella direzione e poterono vedere il Marciatore che le varcava in tutta la sua maestà. Era così imponente che i guerrieri disposti nella piana sembravano dei nani, con un aspetto così feroce e bello da intimidire solo al vederlo. Kempu cominciò a gemere e piagnucolare, mentre il Leone dell’ Estate si avvicinava a lunghi, lenti passi.
Horos il Marciatore si fermò di fronte a Erasmus, che ancora era in ginocchio in mezzo all’ erba. La sua mano si allungò a stringere il Cuore che Miriana gli aveva strappato, e nel farlo sfiorò quella di Erasmus. A quel contatto una sferzata di energia attraversò tutto il corpo di Erasmus, scuotendolo e lasciandolo senza fiato: ogni dolore era scomparso, le energie tornate, le ferite sanate. Erasmus si rese subito conto che le dita mancanti lo erano ancora, ma l’ infezione era scomparsa, la carne cicatrizzata; le labbra, pure se ancora spaccate e doloranti, non erano più gonfie e la vista andava a fuoco perfettamente. Mentre finalmente riusciva a rialzarsi nuovamente in piedi guardò il Marciatore che si portava il Cuore verso il petto, lo reinseriva nella ferita ancora aperta e lo collocava al suo posto. Attraverso la ferita vide il cuore palpitare e battere, una, due volte, poi le carni si rimarginarono a vista d’ occhio e della ferita non restò traccia.
Inspirando rumorosamente Horos sollevò il viso al cielo, che il tramonto stava inondando di rosso, distendendo i muscoli della schiena e delle braccia. Quando ebbe rilasciato il fiato volse il capo verso un’ ombra, che nessuno fino a quel momento aveva notato.
-Vieni-, disse con voce profonda che fece tremare il midollo delle ossa. -Il mio divieto è revocato.
Un soffio di vento fresco agitò l’ erba, accompagnato dal sentore di pioggia e foglie marce e terra umida. Un uomo alto, dai capelli castano dorati, avvolto in in un mantello si fece avanti come sospinto da quel leggero vento. A quel punto lo sguardo del Marciatore si fissò sulle due donne. Kempu era diventata grigia in volto, paralizzata dalla vista di Horos.
-Strega-, disse il Leone dell’ Estate, -il tuo cuore è malvagio: gioisce solo per il dolore altrui. Hai voluto vivere in un’ estate senza fine per quale scopo? Tu hai desiderato solo di vedere queste terre inaridire. Sei uno spirito malvagio, e come tale ti condanno a vivere fra le rocce roventi del più meridionale dei deserti.
L’ enorme mano di Horos si sollevò verso Kempu, poi si strinse. Strinse solo l’ aria, ma la Strega si artigliò il petto per un dolore intenso che la prese al cuore. Tremando tutta si afflosciò al suolo, dove cominciò ad agitarsi in preda alle convulsioni, fin quando si bloccò, gli occhi sbarrati al cielo e un filo di bava che scendeva dall’ angolo della bocca. Il suo petto continuava ad alzarsi e abbassarsi al ritmo di un debole respiro, ma in quegli occhi sbarrati non c’ era più alcuna scintilla di coscienza.
Gli occhi neri di Horos si volsero lenti ad incontrare quelli altrettanto neri di Miriana, che ricambiò con fermezza. L’ ombra di un sorriso increspò le labbra di Horos.
-Miriana-, disse in un sussurro. -Non sarò io a condannarti al freddo. Vieni.
Horos tese nuovamente la mano e fece cenno a Miriana di avvicinarsi. La Regina obbedì, e pose la sua piccola mano in quella enorme del Marciatore, che la avvicinò a sé e si chinò a sfiorarle le labbra con un bacio.
-Vai, caldo Vento del Sud.
Gli occhi di Miriana scintillarono di sorpresa, un sorriso incerto sulla bocca. Mosse un passo oltre Erasmus, proseguendo verso la pianura, aprendo le braccia. Le sue vesti furono agitate dal vento e un attimo dopo caddero al suolo vuote.
-Ed ora devo andare anche io.
Tutti si volsero verso il Marciatore, ma lui non c’ era più. Il silenzio si fece assoluto, mentre le ombre si allungavano sulla piana ed il lago. Le vette rocciose dei colli erano ancora arrossate dal sole al tramonto.
A quel punto il giovane col mantello si fece avanti; conduceva per le briglie un cavallo roano che nessuno aveva visto arrivare. Si avvicinò ad Erasmus e gli posò una mano guantata di pelle su una spalla.
-Grazie-, disse.
Erasmus annuì. -Non credo che avrei potuto fare diversamente.
-Adesso devo andare anch’ io.
Subito dopo quelle parole sulla piana rimasero solo Erasmus, i guerrieri neri e la Strega priva di coscienza.
-Io vado a lavarmi al lago-, disse Erasmus.
-Ne hai bisogno, sì-, annuì il più anziano dei guerrieri. -Ti farò portare dei vestiti. Domani verrai con noi al Palazzo Reale, dovrai aiutarci a spiegare molte cose. E dobbiamo anche decidere di che farne della Strega.
Con un sospiro Erasmus annuì.
-Guardate!
               Il grido di stupore di uno dei guerrieri attirò l’ attenzione di tutti verso il cielo ormai oscurato dalla notte. Una tenebra piu' nera della notte andava nascondendo le stelle una dopo l’ altra. 
              Un fulmine baleno' nel buio, seguito poco dopo da un tuono. 
              La pioggia stava arrivando.

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