Tuesday, 27 December 2011

Porto di Levante

          La storia ufficiale si è sempre disinteressata dell' Albania, del Kossovo e delle colonie albanesi in Italia. Un disinteresse reso necessario dal ruolo che l' Europa aveva imposto alle popolazioni di origine albanese.
[...] Delle persecuzioni avvenute nel periodo pre-Collegamento Informatico Totale sappiamo ben poco, se non che, esclusi eventi sporadici ed isolati, la prima vera e propria persecuzione contro gli albanesi fu attuata dai loro stessi connazionali già da tempo insediati in Italia, che vedevano nel continuo flusso immigratorio un pericolo per il già precario equilibrio raggiunto con la popolazione italiana. La prima persecuzione documentata è quella dei Moti Razzisti degli anni '20, che scossero tutta l' Italia settentrionale e centrale, i quali sebbene avessero avuto un carattere xenofobo generale finirono per ricacciare gli Albanesi nel sud, ed in particolare in quella regione in cui erano approdati originariamente.
[...] In ambito culturale il tentativo degli intellettuali albanesi di innalzare agli occhi dell' opinione pubblica la loro produzione artistica, che soprattutto negli oltre due secoli di esilio aveva prodotto anche opere di notevole livello, fu accolta nei circoli addetti con voluta non curanza o addirittura con snobbismo.

(estratto di documento anonimo diffuso in rete)


Appoggiato al vetro antiproiettile della finestra Franco Greco osservava in lontananza le luci di Taranto Nuova. Fra la città moderna fatta di palazzi di vetro ad uso commerciale e la città vecchia, la Taranto Antica delle fonderie e dei fumi tossici, c' erano poco più di due chilometri in linea d' aria. Ma per chi cercava di passare dall' una all' altra la distanza era di più, molta di più. A volte occorrevano anni per colmarla, altre volte non bastava una vita.
Un elicottero militare sorvolò a bassa quota gli edifici fatiscenti della zona industriale, i fari accesi che scandagliavano le strade prive di illuminazione. Con un sospiro l' uomo abbassò lo sguardo sulla strada sotto di lui, dove un' insegna in legno indicava un bar aperto solo la notte. La illuminava una lampada messa lì dal proprietario del locale, che alla chiusura la ritirava dentro. Sull' insegna c' era scritto Rozafa. Solo nella Taranto Antica c' erano decine di locali con quello stesso nome: gli albanesi avevano sempre avuto poca fantasia.
Dal locale uscirono due uomini dalla pelle bruciata dal sole. Uno aveva un braccio interamente cicatrizzato, sicuramente per un incidente di lavoro nelle fonderie. I due parlarono a voce alta nella loro lingua, le parole che salivano distintamente fino alla finestra del secondo piano. Una lingua, rifletté Greco, che non era più albanese, perché dopo due secoli non si poteva più dire che gli albanesi che vivevano nell' Agglomerato Sud-Est parlassero ancora la stessa lingua della loro terra d' origine.
L' elicottero tornò a sorvolare il Rozafa e i due albanesi si separarono bruscamente, andando ognuno per la propria strada. Il faro del velivolo scandagliò la strada, illuminando uno dei due, superandolo e tornando a illuminarlo di scatto. Quello continuò a camminare, spedito ma senza correre. Greco lo osservò mantenere il passo, rigido, sicuro che l' uomo nella strada era ben conscio di avere una mitragliatrice puntata verso la schiena e che sarebbe bastato un niente perché il grilletto venisse premuto. A volte qualche soldato sparava anche senza motivo. L' elicottero continuò a tenerlo sotto tiro a lungo, sperando di provocare una qualche reazione. Poi quando l' albanese giunse in fondo alla strada il fascio di luce passò oltre e anche l' elicottero.
Greco si allontanò dalla finestra, da cui l' aria calda e maleodorante entrava a zaffate intermittenti. In quel momento il cellulare vibrò contro il suo petto. Lo estrasse dalla tasca della camicia e lo aprì.
-Pronto? Sì, sono io. Al parcheggio dell' ipermercato. Fra due ore.
"Certo, tutto come pattuito, puoi stare tranquillo. Ma la prossima cerca di farmi avere un anticipo maggiore. Certo, certo, scovare certe informazioni è difficile, lo so.
Interruppe e ripose il cellulare. Poi aprì una ventiquattrore che era posata sul letto intatto. Ne prese una pistola e la controllò minuziosamente, quindi inserì il caricatore. Il metallo cromato dell' arma catalizzò tutta la sua attenzione. Vi si riflettevano le luci lontane del quartiere dirigenziale. Tanta fatica per lasciare questa fogna, pensò, e poi è più il tempo che passo qui che quello che passo a casa mia.
Dalla strada giunsero altre voci che parlavano in albanese. Non c' era feccia che detestasse di più al mondo, ma era pagato per stare con loro. Li doveva sorvegliare, con discrezione, ed eventualmente punirli. Toccava a lui perché li conosceva bene: è sempre bene conoscere il nemico. E fin da bambino loro erano stati il nemico. Parlava la loro lingua, conosceva le loro usanze, si scopava le loro donne, conosceva la loro storia meglio di loro. Aveva scavato oltre i testi ufficiali che con la loro superficialità li chiamavano comunità slavo-albanese. Ma si trattava di due razze diverse, che si odiavano. E tutte e due odiavano i Macedoni. Così ognuno stava a casa propria, e quando si incontravano era solo per ammazzarsi.
Mise la pistola nella fondina ascellare, indossò la giacca e uscì dalla camera. Chiuse la serratura elettromagnetica che il proprietario dell' albergo aveva fatto installare per suo conto alla porta di quell' unica camera che era sempre a sua disposizione. Un' unica lampadina sfrigolante illuminava la rampa di scale. Le scese con attenzione, passò davanti al custode addormentato ed uscì in strada. La brezza che veniva dal mare era riuscita finalmente ad infilarsi fra gli edifici, portando un po' di fresco. Ma portava anche un odore di pesce marcio mescolato con quello di olii bruciati che forse era ancora peggio del tanfo dei fumi industriali.
Si incamminò lungo la strada con passo rapido: in quella zona era bene non soffermarsi mai troppo a lungo in un punto. Svoltò l' angolo e raggiunse il parcheggio custodito dove aveva lasciato la sua auto. Uno di quei posti dove paghi in anticipo e se perdi il tesserino magnetico la guardia nel casotto non ti fa entrare e l' auto resta lì dentro fino a quando scadono i termini di legge oltre i quali la società posteggiatrice ha il diritto di rivenderla all' asta.
Mentre inseriva il tesserino alzò lo sguardo sul casotto di guardia, con dentro l' agente in divisa verde di una compagnia di vigilanza. Era armato con un antiquato fucile a pallettoni, e il suo casotto era già stato fatto saltare in aria un paio di volte con dentro i suoi predecessori. Ma per la compagnia non era un grosso problema: casotto nuovo e guardia nuova. Anzi, in caso di morte una parte dell' indennità di fine rapporto da versare ai familiari veniva risparmiata. Farsi ammazzare sul posto di lavoro era divenuto una colpa tanto tempo fa.
Greco entrò nel parcheggio, un grande garage sostenuto da colonne a base quadrata e dotato di un sistema antincendio corroso dalla ruggine e non più funzionante da anni. Raggiunse la sua auto, una FIA-Lancia 200 Static che con le sue cromature risaltava vistosamente in mezzo agli altri antiquati modelli, sudici e ammaccati. Salì, accese il computer di bordo e mise in moto. Uscì a retromarcia dal suo posto macchina, inserì la prima e partì. Quando vide la guardia azionare l' apertura dei cancelli accese il radar di bordo, anche se era proibito farlo nel garage perché interferiva con quello della guardiola.
Quando sullo schermo verde non si accese nessuna luce lampeggiante ad indicare altre auto o persone a piedi accellerò facendo stridere le gomme ed uscì sbandando leggermente in controsterzo.
Un quarto d' ora dopo aveva lasciato le strette strade di Taranto Antica e sfrecciava sulla Circumarpiccolo, per poi imboccare la Litoranea, l' unica "via dell' alta velocità" che portasse ad ovest.
Oltrepassò le acciaierie, selve di svettanti torri di raffreddamento sulla cui vetta ardevano fiamme violente, ciminiere da cui fuoriuscivano fumate che si spandevano nell' aria e ricoprivano il paesaggio metropolitano di un sottile strato di rossa polvere ferrosa; e dopo mezz' ora erano scomparse alle sue spalle anche le gigantesche gru di Porto Ionico, forme altissime nell' oscurità dei docks o tralicci argenteei scintillanti sotto potenti riflettori. Era fuori da quella zona che le foto satellitari vedevano come un' enorme voragine nera, una gigantesca macchia color carbone che si allargava anno dopo anno, come per celare alla vista le morti per malattie cardiache legate alle polveri sottili, i casi di leucemia infantile o le malattie mentali provocate dai metalli pesanti.
Attestò l' auto sui 140 chilometri orari, gli abbaglianti accesi e l' abitacolo seminsonorizzato soffuso della musica di un motivo degli Andromeda, un gruppo musicale di cinquant' anni prima, di un felice periodo durante il quale non si usavano computer e sintetizzatori per comporre musica ma gli artisti erano tornati ad utilizzare strumenti veri. Elena, sua moglie, lo rimproverava sempre di essere un nostalgico ogni qual volta metteva uno dei suoi CD. Un nostalgico della peggior specie, aggiungeva poi, perché provava nostalgia di un' epoca che non aveva vissuto.
Poche decine di metri prima dell' uscita sorpassò un autocarro, un vecchio modello a motore modificato che arrancava lento, poi si gettò nella corsia di decelerazione per inserirsi nel traffico convulso dell' Agglomerato.
Giunse all' ipermercato con una manciata di secondi di anticipo sui tempi che si era prefissato. Passò sotto l' insegna fluorescente verde, imboccando la rampa di discesa del parcheggio sotterraneo. Lasciò l' auto in un box al primo piano, sulla terrazza di destra, dopo aver fatto tutto il giro dell' anello di parcheggi ed essere ritornato vicino alle rampe, pronto ad andarsene velocemente. Sulla terrazza al lato opposto delle rampe c' era una lavanderia-stireria che non si fermava mai, nè di notte nè di giorno.
Mentre scendeva dall' auto e ne inseriva l' allarme qualcuno mise in moto un rumoroso motocarro a tre ruote, che poco dopo risalì faticosamente la rampa di uscita del parcheggio. Sulla fiancata aveva una scritta ormai illeggibile. Mentre usciva dal parcheggio il motocarro incrociò un ragazzo su una bici, con una grossa scatola di edistirene bianco sul portapacchi per metterci la merce da consegnare. Il ragazzo scambiò un saluto col conducente del motocarro e lanciò la bici giù per la discesa.
Il Greco lo vide guardare dalla sua parte, poi scomparire dietro una colonna, riapparire e scomparire e così via, finché scomparve definitivamente dietro una parete fatta di pannelli prefabbricati.
Rimasto solo il Greco si allontanò dall' auto, raggiungendo le rampe ed usandole per scendere ai livelli inferiori: meglio non utilizzare scale o ascensori. Al secondo livello, sul fondo di una delle terrazze di posteggio c' era la carcassa di un' auto bruciata. Proseguì, superando anche il terzo livello, raggiungendo l' ultimo.
Si fermò per guardarsi intorno. Se il suo informatore aveva detto il giusto lì avrebbe trovato il suo uomo. Solo e disarmato. C' erano dei codici, fra gli albanesi, che ritenevano inviolabili, nonostante tutti loro, per loro comodo, li avessero già violati.
Avanzò cautamente, i nervi tesi. La prudenza non era mai troppa, comunque.
-Je ti?- chiese una voce dal buio.
-Dil tè shoh!
-J ke sjellé' robat?
-Qarté', si jo.
Un' ombra uscì da dietro una colonna.
Greco estrasse la pistola e fece fuoco. L' albanese davanti a lui fu catapultato indietro e ricadde in un rigagnolo di acqua sudicia.
Avvicinatosi al morto lo guardò con disprezzo. Questa era l' unica parte del suo lavoro che gli piacesse. Puntò la pistola al viso del morto e sparò altri tre colpi, tre crepitii secchi che rimbombarono per tutto il sotterraneo. Ma a quell' ora nessuno sarebbe venuto a controllare.
Greco guardò per un attimo i bossoli lucenti. In genere li lasciava sempre vicino al cadavere: era il suo modo di firmare l' esecuzione. Chissà perché, questa volta gli era venuta in mente l' idea di portarli via. Poi, con una scrollata di spalle, decise che potevano rimanere dov' erano e fece ritorno senza fretta all' auto.

Pietro Kolaj guidava un vecchio camion Nissan, uno di quei modelli modificati. Funzionava male e consumava i liquidi delle batterie a una velocità che era più del doppio del normale, ma a lui stava bene così. La polizia aveva sempre poca voglia di stare a perquisire nell' odore metallico dei liquidi bruciati.
Un' auto di grossa cilindrata lo raggiunse tenendo gli abbaglianti accesi. Il conducente, evidentemente, era una persona che non si curava degli altri. Quando l' auto lo sorpassò ebbe voglia di puntargli gli abbaglianti a sua volta, ma sapeva che sarebbe stato inutile, dato che le auto di quel tipo avevano vetri polarizzati, per evitare al guidatore che poteva permettersi di pagare i disagi che lui procurava agli altri. Guardò con astio l' auto mentre imboccava l' uscita che stava per prendere anche lui, poi fu troppo impegnato a combattere col servosterzo malfunzionante sulla serie di curve dello svincolo per pensare ad altro. E quando raggiunse le strade dell' Agglomerato l' auto era scomparsa.
Scuotendo la testa alzò lo sguardo sulla sopraelevata della Litoranea per uno sguardo sfuggevole. Nello scompartimento segreto del suo camion, pensò, c' era merce che valeva abbastanza per comprarsi un' auto come quella e una villa esclusiva nell' area protetta del Gargano. Ma ciò che sarebbe toccato a lui per il lavoro di quella notte sarebbe stato a malapena sufficiente a mantenere la famiglia per meno di un mese.
Certo, se una bella volta fosse scomparso col camion e tutto... Così come si era immaginato tante volte. E poi una fuga nell' Est. Scosse la testa: la gente per cui lavorava erano persone che non perdonavano. Prima avrebbero ucciso tutti i suoi familiari, poi sarebbe toccato a lui. Non c' era modo di scappare a tipi come quelli.
Condusse malagevolmente il lento camion per le strade intasate di traffico, strette tra palazzi la cui cima era nascosta dallo smog. I neon dei negozi e dei cartelloni pubblicitari sfumavano di tinte fluorescenti il grigiore del cemento e dei metalli, mentre i marciapiedi erano coloriti da prostitute di varie razze. Poco lontano risuonò la sirena di un' ambulanza, a cui si sopvrappose l' allarme di un' auto. Ogni tanto un' auto corazzata di qualche agenzia di vigilanza scivolava nel traffico come uno squalo o imboccava una strada secondaria per svolgere i suoi giri di controllo.
Kolaj imboccò all' ultimo momento la rampa di una sopraelevata, provocando un coro di clacson che si prolungò quando il traffico fu rallentato dalla lenta salita del camion. La sopraelevata, alta fino al ventesimo piano dei palazzi circostanti, era sostenuta da giganteschi piloni completamente cavi il cui interno era occupato da negozi e ristoranti. Giunto al punto più alto della sopraelevata, attraverso un' apertura nelle schiere di palazzi, vide l' insegna verde dell' ipermercato a cui era diretto.
Vi giunse un quarto d' ora dopo, e mentre imboccava l' entrata al parcheggio sotterraneo incrociò una Fia-Lancia che ne usciva. Gli parve la stessa auto che lo aveva sorpassato sulla Litoranea. Guai, pensò. Grossi guai.
Scese adagio fino all' ultimo livello, e non dovette nemmeno scendere dal camion per vedere il corpo, che era in piena vista nella zona coperta del piazzale di parcheggio.
Fermò il camion e scese, il fiato che non gli voleva uscire se non a sforzo. Fece alcuni passi esitanti. Qualcosa sotto un suo piede rotolò, facendolo quasi cadere, schizzando via e tintinnando nel buio. Fermo a un metro dal cadavere rimase a guardargli la faccia spappolata: ossa, denti e lingua mescolati, un bulbo oculare tra i capelli impiastricciati, il sangue che formava sul cemento una ragnatela di schizzi e gocce. Vicino ai piedi del morto tre bossoli.
Kolaj deglutì, poi respirò a fondo per calmarsi, ma l' odore del sangue lo fece star male. Devo chiamare Socòl, pensò arretrando di un passo. Lo sguardo gli cadde sulla giacca aperta del morto, la tasca interna gonfiata dal portafogli. I pagamenti avvenivano sempre con chip di credito anonimi. Forse lo aveva ancora.
Un passo esitante, poi un altro, stando attento a non lasciare impronte nel sangue. Si chinò e frugò nelle tasche del morto, rialzandosi con in mano una bustina trasparente contenente il chip di credito. Un mezzo sorriso spaventato, guardando il chip, poi corse sul camion, pregando la Madonna che nessuno avesse assistito alla scena. Girò il camion e lasciò il parcheggio dell' ipermercato, fermandosi solo quando fu lontano un paio di chilometri.
Lasciò il camion in un posteggio a pagamento e raggiunse a piedi una stazione ferroviaria. Prese dalla tasca della camicia una carta di credito ed entrò in una cabina telefonica pubblica. Inserì la carta, compose un numero a memoria e attese il terzo squillo, poi riagganciò. Uscì dalla cabina, appartandosi in un angolo della sala che fungeva da zona biglietti e di aspetto. Dopo meno di un minuto squillò il suo cellulare, un apparecchio che poteva fungere solo da ricevitore.
-Cosa succede, Kolaj?- chiese una voce dal tono basso e falsamente dispiaciuto.
-Lo... lo hanno ammazzato! Hanno ammazzato il mio contatto! E' lì nel parcheggio dell' ipe...
-Sta' zitto!
Kolaj si zittì.
-Quanto tempo prima che tu arrivassi?- chiese la voce.
-Poco. Pochissimo. Credo di aver visto l' auto dell' assassino. Una FIA-Lancia 200 Static, mi pare.
-Come è stato ucciso?
-Gli hanno... sparato.
-Dove, voglio dire. E quanti colpi.
-In faccia. Aveva tutta la faccia spappolata. E al petto-, aggiunse ripensando alla camicia tutta impregnata di sangue.
-Quanti colpi?
-Tre. Ho visto tre bossoli vicino al cadavere. No. Aspetta. Erano quattro. Quattro bossoli, uno l' ho pestato.
-Va bene. Ci penseranno i miei ragazzi a far sparire il corpo. Tu torna immediatamente qua.
-Certo. Parto subito.
La comunicazione si interruppe e Kolaj richiuse il cellulare. Si guardò intorno. Non c' era nessuno. La biglietteria automatica lampeggiava di rosso segnalando un guasto.


-Chi è stato ad effettuare la chiamata?- chiese l' ispettore Baldari.
-Quel ragazzo là-, rispose l' agente interpellato indicando alle sue spalle.
Baldari si voltò e vide un ragazzo che reggeva una bici con una grossa scatola bianca fissata al portapacchi.
-Lavora per la lavanderia che c' è sull' altro lato del parcheggio-, proseguì l' agente.
-E' già stato interrogato?
-Sì, ho preso io la sua deposizione. Dice di aver visto una FIA-Lancia 200 Static parcheggiata davanti alla lavanderia, e quando ha sentito gli spari ed è uscito ha visto un uomo salirvi e andarsene. Poi è arrivato anche un camion, un vecchio Nissan, che è sceso fino all' ultimo livello e se ne andato poco dopo.
-E lui ci ha chiamati solo dopo che se ne è andato il camion?
-No, aveva già chiamato ma i nostri centralini erano intasati. E' riuscito a prendere la linea poco prima dell' arrivo del camion.
-Ha preso la targa del camion?
-No, signore. Non sa leggere.
Baldari scrollò le spalle. -Magari non centra niente. Io scendo giù a dare un' occhiata. Tu guarda se riesci a sapere qualcos' altro del camion e della Static.
Baldari voltò le spalle all' agente e si incamminò giù per la rampa del parcheggio.
Giunto all' ultimo livello trovò la scena illuminata da riflettori montati su alti piedistalli di metallo cromato. Al centro un lenzuolo bianco chiazzato di rosso copriva il cadavere, ma non nascondeva la ragnatela di schizzi rossi e grigi che partiva da dove si trovava la testa. Il suo assistente, un giovane segaligno, gli venne incontro.
-Cosa hanno rilevato quelli della scentifica, Giovanni?- chiese Baldari.
L' altro si dette una grattata in testa, un' abitudine che aveva sempre avuto, e che significava che qualcosa avevano scoperto. Se non c' era nulla invece sbuffava.
-Allora, quattro colpi. Uno al petto, è quello che lo ha ucciso. I successivi tre alla faccia. I bossoli sono di una Kaizen 33 modificata: i proiettili devono essere fabbricati appositamente. La stessa arma è stata usata per altre due esecuzioni nel nostro settore, questo anno. Tutti i morti, pure il nostro, sono albanesi non identificabili.
"Tre dei quattro bossoli erano vicino al cadavere, il quarto più lontano. E' stato pestato ed è rotolato via. Penso che a pestarlo sia stato il camionista...
-Lascia le supposizioni per dopo-, tagliò corto Baldari. -Altro?
-Le tasche del morto sono state frugate, ma se manca qualcosa non sappiamo cosa sia. Non credo che i ragazzi della scientifica potranno dirci altro.
Baldari annuì. - Bene. Io torno alla centrale. Ho dato incarico a Rivieri di cercare qualcosa sull' auto che hanno visto allontanarsi e sul camion. Quando torni in centrale registra il rapporto su un dischetto ma non lo immettere nella memoria centrale del computer.
-No? E perché?
-Niente domande, Giovanni.
Baldari si girò e se ne andò.


I due uomini sostarono davanti al portone ad una distanza che permettesse alla telecamera di inquadrarli bene. Poco dopo una luce gialla lampeggiò accanto al citofono e il battente di metallo scivolò di lato. I due avanzarono nel locale, un grande parcheggio ristrutturato, e raggiunsero un gruppetto che sedeva ad un tavolo di vetro situato in un angolo.
-Allora?- chiese un uomo seduto dal volto abbronzato.
-Quando siamo arrivati c' era già la polizia, Socòl-, rispose uno dei due nuovi arrivati.
L' altro si rabbuiò in viso. -Chi l' ha chiamata?
-Un ragazzino che fa il turno di notte in una lavanderia.
-Pensate voi a dare una lezione al moccioso. Che sia di esempio. Non voglio spioni nella mia zona. Andate.
I due se ne andarono e un attimo dopo anche Socòl lasciò il tavolo, raggiungendo una stanza di cui si chiuse la porta alle spalle. Si sedette alla consolle di un computer ed attivò il videofono, inoltrando una chiamata.
Poco dopo si accese la spia indicante l' inizio conversazione, ma lo schermo rimase oscurato. Socòl sapeva, però, che l' altro apparecchio stava ricevendo la sua immagine.
-Che diamine ti prende per chiamarmi...?- disse una voce irosa.
-Tranquillo-, lo interruppe Socòl. -La trasmissione è schermata.
-Non me ne frega niente! Non voglio avere a che fare con te più del necessario.
Socòl sorrise. Conosceva bene il disprezzo che l' altro uomo, che lui non aveva mai visto, provava per tutta la sua razza. Non cercava minimamente di celare il tono malevolo. E il sentimento era esacerbato dalla necessità che lui fungesse da tramite.
-Vale la stessa cosa per me-, disse, sempre sorridendo. -Ma c' è stato un problema.
-Un problema? Non cercare di fare il furbo!
-Falla finita. Il vostro corriere è stato ucciso.
-Ucciso?
-E dalla modalità deve essere stato il Greco. Se è così non ci metteranno molto a risalire a voi e capire che fate il doppio gioco.
Il tono di voce dell' altro fece capire che stava sorridendo, cattivamente. -E' più facile che risalgano a te, invece.
Socòl si rabbuiò. -Noi siamo preparati da tempo ad uno scontro-, rispose a denti stretti. -Tu, piuttosto, recupera il chip di credito, se vuoi la roba. La polizia è arrivata sul luogo prima dei miei uomini.
-Maledizione!
La comunicazione si interruppe e Socòl spense il videofono, poi rimase assorto a fissare il terminale del computer.


Stefano Baldari, cinquantuno anni, vedovo, nessun figlio, sedeva in attesa nel suo ufficio. Giovanni e gli altri erano già rientrati e se ne erano andati, ognuno alle loro case. Giovanni non aveva mandato giù il divieto di stendere il rapporto, ma aveva capito che era meglio obbedire. Baldari ne era stato contento: aveva simpatia per quel ragazzo. Avrebbe fatto strada, se non si lasciava incastrare come aveva fatto lui.
Mentre rimuginava su vecchi avvenimenti squillò il videofono. Inserì l' apparecchio ma lo schermo video rimase spento.
-Ispettore Baldari, chi parla?
-La fata turchina.
-Serra, sei tu?
Lo schermo si accese e apparve un volto butterrato incorniciato di capelli neri e unti.
-Sei sicuro che nessuno possa sentirci?
-Certo. Parla, che vuoi?
-Se stavi aspettando la chiamata lo sai già.
-So che centra l' albanese ammazzato all' ipermercato di Porto Ionico, ma non so altro.
-Quell' albanese aveva un chip di credito con sé. Non dovresti avere problemi a farlo uscire dalla centrale.
-Non c' era nessun chip.
-Sei sicuro? Lo avrà preso qualcuno dei tuoi uomini.
-No, lo escludo. Quelli della scientifica si sono accorti subito che il cadavere era stato frugato, però non capivano cosa gli era stato preso.
-Chi altri è arrivato prima di voi?
-Il ragazzino che ci ha chiamato, ma non si è avvicinato al cadavere. E poi un camion, ma non so chi ci fosse sopra. Sappiamo solo che il camion era un Nissan vecchio modello col motore modificato: quando sono sceso il garage puzzava ancora di liquidi di batteria..
"Ma senti un po': quell' albanese è stato giustiziato, e l' esecuzione è stata eseguita col vostro stile. Se rivolevate quel chip perché non lo avete fatto prendere dall' esecutore?
Serra strinse di scatto la mascella e non rispose. Un attimo dopo la comunicazione si interruppe. Baldari sospirò e spense tutto.
Lasciò la centrale e si incamminò verso casa sua, che si trovava ad appena due isolati di distanza. Le strade brulicavano di traffico e persone: l' Agglomerato non conosceva mai soste, le sue attività, lecite ed illecite, mantenevano lo stesso ritmo sia il giorno che la notte.
E a proposito di attività illecite, quello che Serra gli aveva appena rivelato col suo silenzio non gli piaceva.

La baia artificiale di Porto Levante luccicava di mille luci. Claudia osservava il movimento di navi e traghetti, coi loro carichi di auto e persone, dalla finestra del suo monolocale. Da lì vedeva anche l' insegna luminosa rossa della filiale della CDC, la ditta di trasporti per cui lavorava.
Si accorse che stava mordendosi le dita vicino alle unghie, fino a strapparne la pelle, ed allontanò di scatto la mano dalla bocca. Poi si scostò dalla finestra.
Andò a sedersi sul bordo del letto, guardandosi intorno. Viveva lì da quasi tre anni, da quando la ditta l' aveva trasferita dall' Agglomerato Nord-Est. Aveva ricoperto ogni centimetro del mobilio e delle pareti con foto, ricordi, lettere dei suoi genitori e dei pochi amici, biglietti di auguri e disegni. Soprattutto l' angolo studio, con la piccola scrivania su cui era appoggiato il lap-top che usava per portarsi il lavoro a casa, era tanto fittamente ricoperto che non si capiva bene neanche che cosa ci fosse sotto. Il pupazzetto sorridente di un topolino in pigiama risaltava in mezzo al mare di carta.
L' orologio segnò la mezzanotte. Era domenica. Di lì a poche ore sarebbe tornato Franco. Si era assentato per concludere un lavoro, le aveva detto, ma non aveva voluto spiegarle di cosa si trattasse. Non le parlava mai del suo lavoro. Dopo un mese che si vedevano non aveva ancora voluto spiegarle di cosa si trattasse. Il massimo che era riuscita ad ottenere come risposta alle sue insistenti domande era stato uno svogliato "controlli su spedizioni merce". Controlli di che tipo e su quali merci non lo aveva saputo. Ed ora cominciava a sospettare che si trattasse di qualcosa di poco pulito. Magari avrebbe fatto bene a troncare con Franco.
Si lasciò cadere distesa sul letto, sospirando. Sapeva che non lo avrebbe fatto. Non ci sarebbe mai riuscita. Spero' ardentemente che fosse lui a lasciare a lei.

Franco teneva gli occhi puntati sul soffitto, dove i fari del porto proiettavano regolari linee di luci e ombre attraverso le veneziane in plastica. Di tanto in tanto questa regolarità veniva disturbata dal passaggio di un elicottero di pattuglia, che sovrapponeva i suoi fari a quelli degli impianti portuali.
Claudia dormiva nell' incavo del suo braccio. Si era addormentata da poco, dopo che avevano fatto all' amore molto a lungo, e il suo respiro era ancora irregolare.
Quando si regolarizzò Franco allungò la mano verso la sua giacca, che aveva lasciato vicino al letto. In quel momento un elicottero passò rumorosamente al di sopra dell' edificio. Claudia si agitò e Franco si bloccò, temendo che si svegliasse. Ma passato il rumore la donna si tranquillizzò. Allungò di nuovo la mano e da una tasca della giacca prese una bustina contenente un derma. Lo scartò coi denti, poi con delicatezza lo applicò sul collo di Claudia, facendo solo una lieve pressione. Attese alcuni secondi, poi lo tolse. Un segno rosso chiaro era rimasto sulla pelle nel punto di applicazione. Dopo un' altra manciata di secondi, sicuro che il sonnifero avesse ormai fatto effetto, si liberò del corpo di lei e si alzò.
Claudia avrebbe dormito profondamente per molte ore, fin quasi a mezzogiorno, senza che niente la potesse svegliare. E al suo risveglio non lo avrebbe trovato. Un sorriso amaro e un po' cinico increspò le labbra di Franco. Non avrebbe tardato molto a capire cos' era successo, anche se non avrebbe saputo immaginare il perché. Avrebbe pianto e si sarebbe disperata per un po', poi sarebbe tornata alla sua consueta apatia, l' apatia di una vita monotona, priva di scopi e speranze. Quell' apatia da cui lui l' aveva tratta con l' illusione di una grande amore simulato ad arte, passionale e misterioso, da romanzo. Al suo risveglio l' illusione sarebbe andata in frantumi, e lei sarebbe tornata alla vita di prima, per sempre, incapace di risollevarsene. In nessun modo. No, in messun modo, perché, ne era certo, non era il tipo di donna capace di suicidarsi.
Osservò il cielo che si andava facendo lentamente di colore grigio ferro. Era quasi l' alba. Si rivestì, poi prese una pillola antiaffaticamento e si mise al lavoro. Collegò il lap-top di Claudia alla rete telefonica e il suo portatile al lap-top. Poi, con le informazioni che le aveva via via carpito, trovò i suoi codici di accesso e li usò per entrare nell' hardware della CDC. Cominciò ad esaminare l' archivio della ditta di trasporti.
Come si era aspettato non trovò nessun dato occultato e neanche zone ad accesso vietato nei settori che gli interessavano. La CDC era una ditta pulita, come credeva fin dall' inizio, e sicuramente nessuno del suo personale faceva parte del giro. Veniva utilizzata a sua insaputa.
Registrò su dischetto tutte le date delle spedizioni effettuate negli ultimi sei mesi. Alcune aveva già potuto vedere che combaciavano con altre date che conosceva.
Disinserì tutto e si preparò ad andarsene. Aveva trovato il mezzo utilizzato per smistare la merce appena giunta in Italia. Ora doveva scoprire il modo con cui venivano elusi i controlli della CDC. Probabilmente un metodo semplice. Lanciò un ultimo sguardo al corpo nudo di Claudia: non era brutta, ma neppure bella. Era anonima.
Uscì, chiudendosi la porta alle spalle.

Socòl osservava il sole alzarsi dalle acque del Mare Adriatico. Infine le acque tranquille del mare si tingevano lentamente di un riflesso dorato, ma neanche in un momento magico come l' alba l' inquinamento che aveva devastato quelle acque veniva completamente nascosto: riflessi prismatici e piccoli arcobaleni circolari rivelavano la presenza di macchie oleose e altri prodotti chimici scaricati da industrie, navi e fogne cittadine.
Oltre quel mare c' era la sua terra d' origine, da cui la sua famiglia era fuggita oltre due secoli prima. Una terra devastata, come quel mare che la univa ad un' altra terra che oltre duecento anni prima aveva contribuito a rendere l' Albania ciò che adesso era. Spesso il mare univa due terre lontane, sebbene sarebbe stato auspicabile le dividesse.
Il videofono ronzò, avvertendo di una chiamata in arrivo. Socòl lasciò che la spia rossa d' avvertimento pulsasse per alcune decine di secondi, poi attivò il collegamento. Il video rimase spento, come si era aspettato.
-Il chip non lo ha preso la polizia-, disse la voce del suo contatto. Poche parole, come sempre: riteneva sprecato anche il fiato per uno come lui.
-Ho capito. L' esecuzione è stata eseguita dal Greco, e rubare non è il suo stile. Provvederò io a recuperare il chip.
-E la merce?
-Entro stasera ti farò sapere dove ritirarla.
-Benissimo.
-Il Greco non è uno stupido-, disse svelto Socòl prima che l' altro interrompesse la comunicazione.
-Che vuoi dire?
-Sono sicuramente sulle vostre tracce.
-L' importante è che la merce continui ad arrivare.
-Certo, i turchi non si sono mai fatti attendere. Basta pagare. E i vostri amici non oseranno colpire in Albania, neanche per fermarci. E' la regola no? E' un porto franco, e non deve essere toccato se si vuole che i traffici prosperino. Mai toccare il centro di smistamento. E' questo che dite tutti, no?
-Smetti di parlare a vanvera. Il Greco potrebbe risalire a te più facilmente che a me.
-Sono pronto. E poi sarebbe una guerra su due fronti, vero?
L' altro tacque, e le labbra di Socòl furono increspate da un sorriso. -Non puoi fare a meno di me, lo sai. Se saremo attaccati dovrai uscire allo scoperto. E poi in Francia continuerebbero a comprare ugualmente, no?
-Certo. Conviene anche a loro.
-Bene. Visto che abbiamo trovato tutti la nostra convenienza?
E con un gesto secco Socòl spense il videofono.

Franco Greco parcheggiò la sua auto nel garage del palazzo della Banca Commerciale Europea, scese e si diresse verso uno degli ascensori, che lo condusse fino ai piani più alti dove si trovavano gli uffici dirigenziali. Trovò Ramini nel suo ufficio personale, solo. Ogni volta che lo incontrava Greco trovava sul suo viso nuove tracce di invecchiamento: i capelli più radi sulle tempie, nuove rughe intorno agli occhi, una piccola macchia di fegato sul collo.
-Sbrigati, Franco-, disse brusco l' altro. -E' domenica e non ho nessuna voglia di lavorare.
Greco nascose il sorriso: Ramini non lasciava praticamente mai il suo ufficio, non aveva altro al mondo che il lavoro. Probabilmente anche la sua famiglia si sarebbe sfaldata se lui non avesse continuato a dedicarsi anima e corpo al suo lavoro. Tante spese non si possono sostenere senza tanta abnegazione.
Depose il portatile sulla scrivania e lo collegò al terminale di Ramini. Digitò il codice di accesso ai file che aveva copiato dalla CDC e fissò Ramini.
-Ecco, tutto qui. Come puoi vedere le date coincidono tutte. Ogni spedizione è stata effettuata il giorno seguente ad uno degli arrivi dall' Albania.
-E tutte le spedizioni sono per Parigi. Maledizione!
-Proprio. Se ci sono i francesi dietro, abbiamo a che fare con qualcosa di più di una frangia ribelle.
-Cosa facciamo?
-Sei tu il capo.
L' altro lo guardò male. -Non ti chiedevo un consiglio politico. Ora dobbiamo agire.
-Il più facile da colpire è il tramite albanese.
-Ma quello che hai ammazzato stanotte non era un albanese?
-Non fare l' ingenuo. Chiunque può assoldare un albanese. Senti, la merce arriva dal Medio Oriente. Probabilmente dalla Turchia. Passa dall' Albania e arriva a Porto Levante. Ma gli albanesi devono avere un gruppo insediato qua nell' Agglomerato. Dobbiamo colpire quel gruppo. Senza di loro i nostri traditori dovranno rientrare nei ranghi. Dopo scopriremo chi è stato a sobillarli.
-E come vuoi procedere? Ti lascio carta bianca.
-Bene. Fammi preparare una squadra. Io dormirò un poco, poi andrò a cercare il mio informatore. Forse saprà darmi qualche dritta giusta. Prima colpirò la merce in arrivo. L' incontro di stanotte era per consegnare l' ultimo carico. Dopo andrò a cercare la tana degli albanesi. E' sicuramente un gruppo nuovo che cerca di emergere.

Baldari si svegliò aggrovigliato nelle lenzuola. Per un attimo credette di essere in ritardo per il lavoro. Poi si ricordò che quella domenica non era di servizio. Si alzò e andò in cucina a scaldarsi del latte per colazione. Aveva un sapore disgustoso in bocca e aveva dormito malissimo. Doveva smettere di farsi di quella merda, si disse. Un sorriso amaro gli storse le labbra screpolate. Come se fosse possibile smettere...
Si lasciò cadere su una sedia e rimase a sbadigliare appoggiato al tavolo. Il forno a microonde ronzava lievemente, il rumore del traffico entrava dalla finestra aperta. Aveva dormito proprio male. Tutta colpa di quel bastardo di Serra. C' era qualcosa di completamente sbagliato nel colloquio di quella notte.
Poi gli venne in mente una parola, una sola ma terribile: doppiogioco. Serra stava facendo il doppio gioco. Ma non era certamente solo. Il forno a microonde fece squillare un campanello avvertendo di aver terminato il ciclo di cottura, ma Baldari si era completamente dimenticato della colazione. Serra e chi altri? E perché?
Lasciando perdere i motivi che potevano spingere qualcuno a tradire l' organizzazione, cominciò a chiedersi cosa fare. Cercare di avvertirli della presenza di alcuni traditori? Ma chi erano? Non poteva fare nomi, e soprattutto rischiava di avvertire proprio uno dei traditori, e in tal caso per lui sarebbe stata la fine. Ma se non avesse fatto niente? Decise di prendersi l' intera giornata per pensarci, poi avrebbe deciso. Nel frattempo sarebbe stato all' erta.
Dimenticandosi completamente della colazione che si stava preparando, si lavò e vestì, poi uscì con l' intenzione di fare una passeggiata a piedi per schiarirsi le idee. Voleva pensare lucidamente al da farsi. Così scese in strada e prese una direzione a caso.
Ma mentre camminava senza prestare particolare attenzione a niente di ciò a cui passava vicino il suo cellulare ronzò nella tasca interna della giacca. Rispose già sapendo che lo chiamava qualcuno dalla stazione di polizia.
-Pronto?
-Ispettore Baldari-, disse la voce di Susanna Cinti, la centralinista del suo dipartimento. -Vi vogliono davanti all' ipermercato dove è stato trovato il cadavere di quell' albanese.
-Un altro cadavere?
-Sì.
-Si sa già chi è?
Susanna non rispose subito, e dall' esitazione Baldari capì subito che non gli sarebbe piaciuto affatto saperlo.
-Si tratta di quel ragazzo che ci ha chiamati ieri, quello che lavorava alla lavanderia.
-Capisco. Vado direttamente là.
Baldari chiuse la comunicazione e fece dietrofront, procedendo spedito verso casa. Era infuriato. Questa era senz' altro opera dei doppiogiochisti. C' era un patto, fra lui e l' organizzazione che controllava l' Agglomerato: nessuna vittima fra i civili nella sua zona. Lui avrebbe insabbiato denunce e testimonianze purché i cittadini non venissero toccati. E l' organizzazione aveva sempre rispettato questo patto: certo, non poteva controllare la microcriminalità, ma per tutto il resto aveva sempre provveduto che non ci fossero incidenti. In caso contrario Baldari avrebbe fatto pervenire un bel memoriale al Questore Capo dell' Aglomerato e al Colonnello della Polizia Statale: in galera con lui sarebbero finiti un bel numero di pezzi grossi fin' ora intoccabili.
Evidentemente i traditori in seno all' organizzazione non ritenevano affatto necessario rispettare l' accordo con Baldari. Anzi, probabilmente avrebbero tratto un notevole vantaggio da una sua eventuale denuncia. Quindi, a rigor di logica, fra le loro fila non c' era nessuno di quelli su cui aveva delle prove.
Rientrato in casa si mise al videofono. Compose un numero a memoria ed attese. Dopo un certo numero di squilli a vuoto la chiamata venne interrotta automaticamente dall' Ente Telefonico. Ricompose il numero per altre due volte e poi una terza ancora, perché sapeva che qualcuno c' era sempre a quel numero. Probabilmente cercavano solo di intercettare l' apparecchio chiamante. Infine lo schermo si accese e comparve il volto iroso di Nesti, uno dei luogotenenti di Ramini.
-Voglio parlare con Ramini!
Nesti fu preso un po' di sorpresa da quella richiesta fatta con tanta rabbia.
-Non è possibile, è occupato-, rispose poi.
Baldari lo vide allungare una mano verso l' interruttore dell' apparecchio.
-Non riattaccare. Devo parlargli, è importante.
-Ti ho detto che non è possibile. Ma puoi riferire a me.
Baldari esitò. Nesti era uno di quelli che poteva incastrare. Quasi certamente poteva fidarsi. Oppure no? La cosa migliore sarebbe stato parlarne a Ramini, ma ci sarebbe riuscito? Probabilmente no. Con un sospiro si decise a parlare con Nesti.
Gli disse di aver scoperto la presenza di un gruppo di traditori, del ragionamento logico con cui ci era arrivato, fece il nome di Serra come di un sicuro traditore e poi parlò dell' omicidio del ragazzo della lavanderia. Nesti ascoltò tutto senza interromperlo e quando Baldari finì aveva un' espressione molto preoccupata. Annuì, come a un pensiero fra sé e sé.
-Ci penso io a parlarne a Ramini. Tu renditi rintracciabile stasera alle otto.
-D' accordo.
Lo schermo si spense. Baldari si morse un labbro. Poi, scrollando la testa, si alzò, prese la sua pistola, non quella regolamentare, ma un' altra arma che teneva in casa, e partì per l' ipermercato.

Appena interrotta la comunicazione con Baldari, Nesti fece un' altra chiamata. Sullo schermo comparve il viso di Serra, leggermente deformato perché la videocamera miniaturizzata del suo cellulare lo riprendeva da sotto in sù.
-Serra, tu è quel rifiuto dell' albanese siete due incapaci!- ringhiò Nesti.
-Ehi, io non c' entro con quel che fa Socòl!
-Hai fatto capire a Baldari che l' organizzazione sta per spaccarsi.
-Come se non ci sarebbe arrivato da solo, prima o poi. Capirai che guaio.
-Certo, nessun guaio. Se quel bastardo di Socòl non avesse rotto il patto che abbiamo con Baldari. Lui ne sarebbe rimasto fuori, e noi avremmo potuto continuare ad usarlo. Ora ce lo abbiamo contro. Per colpa di Socòl.
"Voglio che tu faccia capire a quell' albanese che non dovrà più prendere iniziative simili. In quanto a Baldari deve essere morto per stasera alle otto.
-Devo uccidere Baldari? Ma non ha un dossier elettronico collegato col suo chip anagrafico?
-Quello non è mai stato un problema. Contiene un virus fin dall' inizio che lo inattiverà. Il patto con Baldari è sempre stato mantenuto solo perché ci faceva comodo la sua collaborazione.
"Quindi sbrigati. Voglio un' esecuzione che faccia scalpore. Del tipo che usano altre organizzazioni. E nessuna traccia che colleghi il suo omicidio con noi.

Baldari pensava che gli sarebbe passata la fame, invece il suo stomaco non aveva smesso un attimo di reclamare. Alla fine aveva lasciato l' ipermercato e si era diretto verso un ristorante di cui era cliente abituale. Al volante della sua auto si era messo a rimuginare sui fatti accaduti.
Avevano trovato un albanese ucciso. Giustiziato. Il killer dell' organizzazione, in quella zona, era un macedone, chiamato da qualcuno il Greco in senso dispregiativo. Lui, invece, sicuramente per non dargliela vinta, aveva fatto suo quel soprannome tanto da usarlo al posto del suo cognome vero. Franco Greco. Non era tipo da rubare un chip di credito. Quel chip non lo avevano nemmeno i traditori dell' organizzazione, i quali avevano mandato l' albanese che era stato ucciso ad acquistare della merce.
Che tipo di merce? Questo non lo sapeva. Come non sapeva chi avesse rubato il chip.
Poi c' era il ragazzo della lavanderia, imbavagliato col nastro adesivo, legato col fil diferro e ucciso a bastonate. E poi gettato giù nella tromba delle rampe del parcheggio dell' ipermercato. Sicuramente un avvertimento per chi in futuro avesse avuto voglia di avvisare la polizia di qualcosa. E non erano stati certo quelli dell' organizzazione a farlo. Tutt' al più i traditori, che volevano recuperare il chip di credito. Ma probabilmente erano da escludere, dato che poi Serra (uno dei traditori) gli aveva telefonato proprio per farsi rendere quel chip. Quindi erano stati i venditori.
E poi?
E poi Baldari girò la testa di lato, vide una moto affiancarlo da destra, con due uomini sopra. Portavano tutti e due il casco, ma poté vedere che entrambi erano di pelle scura. Quello dietro lo guardò e sollevò un piccolo lanciarazzi.
Baldari gettò la sua auto verso sinistra un attimo prima che il microrazzo venisse sparato. L' esplosione distrusse la parte posteriore dell' auto, che andò a sbattere contro altri due veicoli che procedevano in senso opposto per finire poi contro la vetrina di un negozio.
Stordito e sanguinante da numerose piccole ferite Baldari lottò con l' airbag che andava sgonfiandosi per aprire lo sportello. Quando ci riuscì rotolò giù cercando di estrarre la pistola. Si rialzò, la pistola in pugno, e zoppicando si allontanò dall' auto in fiamme. Si ripeteva a fior di labbra, stordito, confuso, che avrebbe dovuto gettare l' auto contro la moto, non dalla parte opposta. Fra le urla generali sentì il rombo della moto che tornava indietro. Cercò un riparò, ma non trovò niente di adeguato. Si girò, puntò e sparò contro i due motociclisti, un attimo prima che questi aprissero il fuoco con una mitraglietta. Baldari sentì il colpo al petto, poi si accorse di volare all' indietro mentre perdeva la presa sulla pistola.
Quando toccò terra era già morto.


Stefania fissava sconcertata Claudia, che era sul punto di scoppiare a piangere. Girava e rigirava fra le mani il suo bicchiere di tè freddo, di cui non aveva bevuto nemmeno un sorso. Ormai i cubetti di ghiaccio si erano completamente sciolti e il bicchiere si era riempito fin quasi al bordo. E a momenti, ne era sicura, il distributore automatico si sarebbe messo a lampeggiare invitandole a fare un' altra ordinazione o a liberare il tavolo.
Infine Claudia si rovesciò il tè sulle mani e questo parve scuoterla. Prese una manciata di salviette di sintocarta ed asciugò il tavolo, poi le mani e gli occhi gonfi di lacrime. Gettò le salviette nel tritarifiuti, poi, come per un ripensamento, prese la sua carta di credito dalla borsetta inserendola nel distributore e ordinando altri due tè.
Stefania guardò disgustata il suo tè. Alla pesca. Lei era allergica alle pesche. Almeno, si disse, questo coso non si metterà a lampeggiare attirando l' attenzione di tutti.
-Non si è nemmeno curato di nascondere niente, capito?- riprese a parlare Claudia, ignorando i due bicchieri comparsi nel vano del distributore. -Ha lasciato il mio portatile acceso e il derma usato nel cestino dei rifiuti.
Stefania guardò i due bicchieri, poi li tirò fuori, prima che il distributore se li riprendesse. Non ti permetterò di riciclare due tè già pagati, disse mentalmente alla macchina. All' amica, invece, non sapeva proprio cosa dire. Quanto meno la storia che Claudia le aveva raccontato era talmente fantastica che aveva fatto scomparire l' irritazione nata quando al telefono l' aveva insistentemente pregata di incontrarla in quel bar. Si chiedeva quanto ci fosse di vero in tutto ciò. Da circa un mese Claudia le parlava di questo Franco praticamente ogni giorno, quando si vedevano in ditta: possibile che si fosse inventata tutto per nascondere la finzione di un grande amore misterioso mai esistito?
-E cosa credi che cercasse?- chiese infine, più che altro per tirare fuori qualche parola.
-Non lo so. Mi farà passare anche dei guai, quando in ditta si accorgeranno di un collegamento non autorizzato. Mi hanno gia' licenziata perche' non mi sono presentata a lavoro, oggi. Mi faranno pure causa...
Quest' ultimo commento così pratico le fece ricordare che al momento in cui Claudia le aveva telefonato si stava preparando per un appuntamento. Doveva pranzare con un giovanotto piuttosto interessante. Devo trovare un modo per scaricarla, si disse.

Poco dopo l' ora di pranzo Franco Greco lasciò il pub in cui aveva incontrato il suo informatore, un poliziotto italo-albanese infiltrato nel giro dei racket minori che faceva il doppiogioco per l' organizzazione. Come sospettato i mediatori erano un piccolo ma feroce gruppo di italo-albanesi che negli ultimi anni erano riusciti ad imporsi su molte piccole bande nell' Agglomerato, soprattutto tra Porto Ionico e Porto di Levante. Grazie alla presenza di un nutrito clan in Albania erano riusciti a monopolizzare alcune linee commerciali con la Turchia.
Adesso bisognava colpirli duro, scoprendo che tipo di merce facevano entrare e distruggendola fino a quando sia i compratori che i venditori avrebbero deciso di tornare ai "canali tradizionali". Poi, con calma, si sarebbe provveduto all' estirpazione di ogni singola cellula deviante.
Per quella notte era in programma il primo colpo.

Il lunedì era alle porte quando Franco Greco insieme ad altri tre uomini parcheggiarono la loro auto in un vicolo buio in prossimità dei docks di Porto di Levante. Impugnarono le armi, indossarono visori IR e si diressero decisi verso il magazzino di una cooperativa di autotrasportatori, una ditta fondata e per un certo tempo parzialmente gestita dall' organizzazione stessa, poi lasciata in mano ad alcuni uomini creduti di fiducia. Ramini si era aspettato che i traditori avrebbero usato canali dell' organizzazione stessa per colpirla alle spalle.
Un microrazzo fu sparato contro la saracinesca metallica, aprendovi uno squarcio sufficiente a farvi passare un auto. Greco entrò per primo, il sottile fascio rosso del mirino laser che scandagliava il fumo e il polverone.
La figura di un uomo , rossa al visore IR, piegato in due dalla tosse, camminava barcollando dentro una nube di polvere. Franco sparò e la testa dell' uomo esplose. Urla e colpi di arma da fuoco risposero allo sparo di Greco. Alcuni proiettili colpirono il pavimento ad un metro da lui. Alcuni uomini emersero dal polverone sparando. Il compagno di Greco che gli stava a destra rispose al fuoco e due rose rosse comparvero sulla camicia di un uomo, una sulla spalla ed una sul petto.
Nel momento stesso in cui l' uomo cadeva a terra un altro uomo comparve da una porta a pochi metri da loro. Greco vide tutto svoglersi al rallentatore e seppe che non sarebbe toccata a lui. Vide la canna del mitra accendersi di lampi violacei alternati ad implosioni dell' oscurità metallica della canna dell' arma. Uno dei compagni di Greco fu scosso dal piombò che lo attraversò, le vesti si stracciarono sopra ferite slabbrate che sputavano schizzi e fili di sangue. Poi il suono sordo di un' arma al plasma, una vampata di fuoco sul petto dell' uomo col mitra. Contemporaneamente il sibilo di un microrazzo, la deflagrazione assordante e tutto fu finito.
Cadde il silenzio. Sei cadaveri in vista sul pavimento, qualcosa che sfrigolava nella semioscurità. L' ultima esplosione aveva fatto saltare l' impianto elettrico. Un movimento nell' ombra, il laser rosso lo inseguì rapido, due spari secchi ed un urlo di morte.
Greco e i suoi due compagni avanzarono circospetti, allontanandosi fra di loro, cercando altri pericoli. Non trovarono niente altro che una porta chiusa a chiave vicino agli uffici. Fecero saltare la serratura ed entrarono.
Nella stanza si era accesa la luce di emergenza, una grossa lampada alogena che ronzava rumorosamente. La sua luce sfocata si rifletteva su quattro contenitori Stafflex depressurizzati, casse in lega leggera a chiusura ermetica con spigoli di un metro per settanta centimetri.
Greco premette il tasto di apertura e la luce elettrica scintillò sul vetro di alcuni tubi amniotici. In ognuno di essi, debitamente ossigenati da un piccolo macchinario, galleggiavano organi umani. Fegati. Di bambino, a giudicare dalle dimensioni. Aprì anche il secondo e il terzo contenitore, trovando reni e tanti piccoli occhi che lo fissavano vitrei attraverso il liquido opaco in cui galleggiavano.
Aprì l' ultimo contenitore e trovò dei cuori. Dall' aspetto si capiva che non erano umani. Non completamente, almeno. Qualcuno in Turchia, si disse, si era rimesso ad allevare ibridi uomo-primate. Femmine di scimpanzè fecondate con sperma umano. O, più probabilmente, donne fecondate con sperma di primate, perché così l' ibridazione risultava migliore. E non erano necessari gli ueteri artificiali: le femmine di primate abortivano spontaneamente quegli obbrobri, alle donne bastava somministrare dei farmaci. Ed era pieno di donatrici disposte a farsi ingravidare per un poco di denaro.
Greco fece un passo indietro e sparò sui contenitori amniotici spaccandoli tutti, spargendo sul pavimento il liquido mucoso su cui fegati e reni, cuori ed occhi, quest' ultimi simili a biglie di vetro, scivolarono un po' per tutta la stanza.
Fecero a ritroso il percorso d' entrata, fermandosi a recuperare il loro compagno morto, che uno dei due uomini che accompagnavano Greco si caricò in spalla, incurante del sangue che gli sporcò la giacca.
Greco fu l' ultimo ad uscire. Regolò i timer di alcune granate incendiarie, le fece rotolare sotto i camion e negli angoli del capannone. Poi raggiunse l' auto e ripartirono.

-Sono stati rapidi.
Socòl fremette di rabbia.
-Rapidi, sì-, disse allo schermo nero. -E non deve più accadere. Io mi occuperò del Greco. Ma voi dovete uscire allo scoperto.
-Ci siamo già mossi. Abbiamo dovuto farlo per rimediare a quel tuo errore. Spero vivamente che non accadrà più nessun inconveniente del genere, in futuro.
-Certo-, ringhiò Socòl. Poteva immaginarsi il sorriso dell' altro. Che soddisfazione doveva avergli dato ordinare di pestare fin quasi alla morte tre dei suoi ragazzi.
-E bada bene di non interrompere gli invii di merce-, disse la voce dal videofono oscurato. -Non tentare scherzi. E bada di non farti fregare da nessuno. Soprattutto non deve mancare per il mercato francese. Quello nazionale può anche restare scoperto, ma l' appoggio francese non deve venirci meno o verremo spazzati via tutti quanti.
-Certo, lo so bene-, rispose Socòl ripensando alle altre bande di suoi connazionali che non aspettavano altro che gli venisse a mancare l' aiuto della frangia secessionista dell' organizzazione.
-Hai recuperato il chip di credito?
-E' questione di ore-, rispose Socòl.
-Certo, certo. Ricordati che la merce pagata non è ancora stata ricevuta.
-E' stata distrutta nel tuo magazzino!
-Non hai saputo tenere coperti gli arrivi, la colpa è tua.

Franco Greco compose un numero telefonico sulla consolle della sua auto. Il paesaggio metropolitano scorreva sudicio e monotono a lato della "via dell' alta velocità". Solo gli ailanto e poche altre piante dall' aspetto polveroso riuscivano a crescere in quella distesa di cemento.
Stranamente gli squilli si prolungarono. Infine qualcuno rispose.
-Chi è?- chiese una voce titubante. Non era quella che si aspettava.
-Sono Greco. Dov' è Ramini?
-Ramini è stato ucciso mezz' ora fa. Hanno fatto saltare in aria tutto l' attico! Si è innescata una vera e propria fottuta guerra, Greco! Farai meglio a prendere i tuoi provvedimenti, non ci sono più intoccabili. E prega che non ci si mettano anche i francesi.
La comunicazione si interruppe. Franco riagganciò il telefono e premette sull' accelleratore: l' auto prese rapidamente velocità. Il calore che si alzava dall' asfalto deformava l' orizzonte, mentre il mattino procedeva rapidamente verso il pomeriggio.
Devo eliminare tutte le tracce, si disse. I suoi pensieri erano deformati come il paesaggio. Prima Claudia. Poi doveva spostare i suoi conti bancari. E un aereo per la Germania. Il volo delle tre. Sì, poteva farcela per le tre. Elena avrebbe potuto raggiungerlo in un secondo momento. Non correva rischi, lei.
Era quasi mezzogiorno quando arrivò a casa di Claudia. Lei era li'. Non si era aspettato di trovarla in casa. Meglio, avrebbe accellerato le cose.
Lei lo guardò, uno sguardo apatico. Mi sono sbagliato, pensò Franco, è tipo da suicidio. Almeno non griderà.
-Fammi fare l' amore ancora una volta-, lo pregò lei quando le posò una mano alla base del collo.
Franco annuì e poco dopo erano entrambi nudi, lui seduto sul bordo del letto e lei sulle sue cosce, le gambe strette intorno alla vita. Franco le passò le mani sulla schiena, partendo dalle natiche e salendo via via che in lei montava il piacere, aiutando i suoi movimenti. Era quasi al culmine quando lui le mise le mani fra i capelli, e nel momento in cui la sentì irrigidirsi ed emettere gemitti strozzati nell' orgasmo dette un secca torsione spezzandole l' osso del collo. La sua testa gli si affloscio' sulla spalla.
La lasciò cadere scompostamente sul pavimento e si rivestì in fretta, turbato perché aveva eiaculato sentendo le contrazioni muscolari accompagnatorie della morte. Stava per uscire dalla stanza quando il suo cellulare suonò.
-Pronto?
Franco rimase in silenzio per un po'. Poi disse: -Che informazione è che non puoi darmi al telefono? Va bene, vengo a vedere. Sarò lì fra mezz' ora. Sì, faccio in fretta.
Franco chiuse la comunicazione. Il suo informatore aveva paura. Di cosa? Possibile che lo avessero scoperto? Difficile, in così poco tempo.
Dette un' ultima occhiata al cadavere nudo di Claudia che andava raffreddandosi. Non era brutta. Insignificante era la parola più adatta a descriverla. E da morta appariva ancor più insignificante.

Mezz' ora dopo era a casa del suo informatore. Digitò il codice di accesso sulla serratura magnetica e la porta si aprì. Entrò e si guardò intorno. Tutto in ordine, ma lui dov' era?
Lo trovò in camera da letto, legato e imbavagliato. Lo avevano ammazzato di botte. Non fece in tempo a prendere la pistola: udì lo sparo, sentì il proiettile lacerargli un polmone, il fuoco gli raggiunse il cervello.
Il suo ultimo pensiero fu per sua moglie.

-Ed ora-, disse Socòl facendo un passo avanti per contemplare il cadavere del Greco, -andiamo ad occuparci di quel ladro di Kolaj.
-Non dovevamo dargli una morte così rapida, capo-, disse uno dei suoi uomini.
Socòl scosse la testa. -Le morti lente sono solo per le spie, i traditori e i ladri. Il Greco non era niente di tutto questo.
"Adesso andiamo da Kolaj a riprenderci il chip.

Elena si rigirò nel letto, lasciandosi scivolare nel languore dell' appagamento sessuale. Guardò di sottecchi il suo amante, visibilmente provato dall' ultimo amplesso. Sorrise. Aveva circa venti anni meno di lei. Le era sempre piaciuto trovarseli molto più giovani. Di solito li sceglieva ancor più giovani, quasi imberbi. E dopo pochi mesi li allontanava.
Con questo andava avanti da un anno, e coi suoi venticinque anni era già troppo "vecchio" per i suoi gusti. Ma in questo caso il piacere passava in secondo piano rispetto all' interesse.
-Mi dispiace-, disse lui. -Per tuo marito, voglio dire.
Lei lo guardò poi scosse le spalle. -Non immischiarti negli affari di tuo padre.
Lui annuì. Poi si girò a guardarla. -E' vero che scriveva trattati storici su InfoNet?
-Sì. Ma non li firmava mai. Aveva riscritto tutta la storia dell' Albania. Perchè è necessario conoscere il nemico, diceva. Non ho mai capito perché li odiasse tanto, gli albanesi. A me sembrano come tutti gli altri uomini.
-Tuo marito doveva essere come è mio padre-, sentenziò il giovane. -Probabilmente ci odiava tutti.

[...]
Privata di gran parte dell' entroterra dalla Macedonia , solo i porti maggiori rimasti intatti, una popolazione in aumento e continuamente incoraggiata all' emigrazione dai capi di governo, pochi anni dopo la Guerra dei Cento Giorni l' Albania era pronta a diventare ciò che l' Europa progettava di farla essere fin dal XX secolo. Come il Kossovo era divenuto la via di transito per la droga prodotta in Afghanistan, l' Albania era divenuto il ponte di collegamento tra i paesi mediterranei dell' Europa occidentale, da una parte, e l' Est europeo e il Medio Oriente, dall' altra, per tutti quei traffici poco leciti e il vero e proprio contrabbando su cui si reggevano gran parte delle rispettive economie.

(estratto di documento anonimo diffuso in rete)

Monday, 26 December 2011

CHRYSALIS

This is my first translation of a story of mine. I'm sure that I did some mistakes. I'll correct them as soon as I'll notice them. If someone of you readers notice them to me, I will happy of it. 


The room is gloom. Only street lights, neon light and car lights, get in the room through window Venetian blind. The lights vaguely take a shape to some furniture. One might be a display cabinet, because lights are reflected on the glass doors. An other one, maybe, is a sofa. All remaining room is hidden in the dark.
....

You may read the corrected version here.

The frog

Credo che tutti conosciate la storia della rana nella pozza, che scopre lo stagno e lo attraversa per trovarne uno piu' grande. E cosi' via fino al mare, dove ovviamente affoga nel tentativo di attraversarlo. Se sono una rana, allora io, quando mi sono accorto che oltre lo stagno c'era qualcosa di piu' grande, lo ho velocemente riattraversato per tornare indietro alla mia pozzanghera.


All you know the frog in the pool story, I believe. She finds out the pond and cross it to finds a bigger one. And so till the sea, where obviously she drowns trying to cross it. If I am a frog, then, when I became aware of something bigger beyond the pond, I quickly crossed it back to come back to my puddle.

Thursday, 22 December 2011

The Earldom map

The following map shows places where "Autunno" and "Il Cavaliere d'Autunno" events are told. The two tales are written in Italian, instead the names in the map are in English (maybe some translations are not well done). It's because I'll post soon the English translation of the tales. At least I hope so. Any suggestion about translations is welcome.

Tuesday, 20 December 2011

Hardly done

Misura ogni passo. Pesa ogni parola. Valuta ogni piu' piccola azione quotidiana. Sono cosi' stanco di questo. 
         E' cosi' difficile credere? E' cosi' difficile vedere oltre il sottile velo della nostra comunicazione fallace per afferrare l'essenza delle intenzioni?

         Always walking on my tiptoes. Weighing any word. Contempleting any smallest everyday action. I'm so tired of this.
        Is it so difficult to trust? Is it so difficult to see beyond our faulty communication's thin layer to catch intentions' essence?

Thursday, 15 December 2011

Marshes

When the King in Winter is arrived, walk your road from the never sleeping concrete to the dreaming grass, from crying metal and human foods' smell to quiet silence of bushes and trees. Do this while the day is close but still the night keeps it back. There are three light levels. Dark at the ground, a grey light above and a brighter one in the sky.
An iron bridge lifts you over the rail road, into grey light. Noises are behind you. Also seagulls are oddly silent, they glide close each other, getting ready to the coming day. Aspen leaves scent is sweet, hawthorn lands in naked edges aside your path, leading you under dark trees, leading you to uncultivated fields. Mr Crow looks at you from there. His greeting is the only sound in the air.
Wild roses grown at lawns fringe, their red fruits are blood drops caught by the thorns. After nocturnal rain a flooded under-way is in front of you, the way is close, traffic noise arrives to you from the surmounting road. But it's faint and remote, it's distant. Everywhere are yellow leaves which northern wind swirls around.
Among trees four horses have passed out the night, covered by caparisons. They are vaguely interested in you. One takes some steps toward you, while you move on.
Channels, a river and water reservoirs land grey and cold coloured. Water scent is cold too, you can't get it, is almost bitter, is almost rotten. White swans flow across the sleepy water, their ice and open space made dreams which are still fading aside them. Chilly drizzle pricks your face.
You can forget that all this is inside a city. You can forget you are in London.

Tuesday, 6 December 2011

Come una guerra / Like a war

Un regno che combatta una guerra su piu' fronti ha poche probabilita' di sopravvivere a lungo. Come Scipione l'Africano anch'io ho portato la mia guerra oltre mare, ma troppi rimangono i fronti su cui devo confrontarmi. Lavoro, la mia ex-moglie, un figlio ancora a scuola, una nuova relazione, un nuovo ambiente di vita a me non congeniale. Devo riuscire a ridurre il numero dei confronti se voglio sopravvivere.

A kingdom which fights on more than one fronts has few probability to survive for long time. As Scipio Africanus I brought my personal war oversea too, but too many fronts rest where I must match against. Job, my ex-wife, a still school-age son, a new relationship, a no congenial new life environment. If I want to survive I must succeed in reducing matches number.

Saturday, 3 December 2011

I Misteri

Anno 41 degli Ultimi Tempi

Makias il Nero era Re di Mell e governava in Mithas la Favolosa ai dì delle Profezie e dei Misteri. Da poco sua madre, Esera la Strega di Keltash era morta, da poco suo padre Tiran aveva abdicato il trono in suo favore. Da poco aveva fatto uccidere il fratello che tramava per sottrargli lo scettro di Mell.
Venne a quei tempi, che erano pieni di strani segni e presagi, un uomo da Argash, un potente regno del Nord, un uomo delle vaste pianure popolate dai leggendari unicorni. Ed egli era cieco da entrambi gli occhi fin dalla nascita, ed andò da Makias e disse che lo conduceva a lui il volere del dio Skat, il dio che cercò di uccidere il Drago Verde e che causò la guerra fra i loro adoratori, il dio che fu divorato dal fuoco del Drago Verde con cinquemila dei suoi sacerdoti. E l' uomo di Argash aveva per il Re di Mell le Tre Profezie, che furono trascritte sul Libro delle Rivelazioni di Anjej Kèlsh ibn Kadàr.
E così parlò il profeta cieco di Skat a Makias Re di Mell, sovrano di Mithas la Favolosa, figlio di Tiran, figlio di Akèron, figlio di Algar-Shàt: -Ascolta, o Re, ciò che il dio Skat del Pozzo Oscuro mi manda a dirti. Poiché vengono tempi in cui i segreti popoleranno le vie della tua città, e tu tremerai perché le lame scintilleranno nella follia.
A udire queste parole re Makias si adirò grandemente, e fatto battere il profeta cieco di Skat lo scacciò dal suo palazzo. Ma il giorno successivo egli tornò, e nuovamente parlò al Re, e queste furono le parole che per la seconda volta il profeta cieco del dio Skat disse a Makias, Re di Mell, sovrano di Mithas la Favolosa: -Questo è ciò che il dio Skat dice tramite la mia bocca, o Re. Verranno i giorni in cui tu guarderai ai Segreti con favore, ed avrai per amico chi prima ti era serpe in seno.
Re Makias non comprese le parole del profeta cieco di Skat, e congedatolo fece chiamare i savi ed i maghi, e li interrogò su quale fosse il significato delle parole dell' uomo di Argash. Ma nessuno seppe rispondergli.
Il terzo giorno il profeta cieco di Skat tornò da re Makias, e queste furono le parole che per la terza volta egli rivolse al Re: -Io venni come ospite in casa tua, e tu mi battesti; venni come amico, e non mi facesti dono né offerta alcuna. Per questo ascolta la terza profezia che il dio Skat ti manda. Verrà il tempo in cui io entrerò nella tua casa e farò di te il mio strumento di vendetta, tramite i Segreti. E questo sarà manifesto a tutti quando le cupole dorate cadranno.
Queste furono le Tre Profezie, che Anjej Kèlsh ibn Kadàr, consigliere di re Makias, al cui fianco sempre stava, udì insieme al suo Re dal dio Skat del Pozzo Oscuro per mezzo della bocca del suo profeta cieco dell' Argash, e che trascrisse nel suo Libro delle Rivelazioni.

Anno 42 degli Ultimi Tempi

Agar-Kèir ibn Akèr, Ispettore dell' Inquisizione della Chiesa di Galm, passeggiava sotto il colonnato del giardino del nobile Tar-Urim, attendendolo. I due erano amici di vecchia data, avevano frequentato insieme le lezioni del filosofo Aprestikos, si erano arruolati nello stessa coorte pretoriana per il servizio di leva; ma poi Tar-Urim aveva sposato una vedova dell' alta aristocrazia, mentre Agar-Kèir era entrato nell' Inquisizione.
In quanto all' Inquisizione era stata costituita tre anni prima da re Tiran, un anno prima che morisse la moglie e che abdicasse in favore del figlio Makias. Era un organismo formato in parte dal clero di Galm ed in parte da ufficiali dell' esercito regio, con a disposizione un proprio piccolo esercito per combattere alcune nuove religioni altamente immorali, chiamate generalmente Misteri, perché l' accettazione degli adepti avveniva mediante la rivelazione di un segreto gelosamente custodito da ogni membro, e che nessuno di loro aveva mai rivelato neanche sotto tortura.
Questi Misteri avevano preso piede velocemente nella città, e stavano ottenendo sempre più potere, reclutando adepti in tutte le classi sociali. Nessuno sapeva da dove e con chi fossero giunti, anche se c' era chi sosteneva che fossero arrivati dal Sud con una carovana koiròthiana, che già aveva percorso i più meridionali dei deserti del Koiròth, terre dove sorgono ancestrali rovine e vivono strane popolazioni.
Tar-Urim arrivò, tra uno svolazio di stoffe color fuxia e un alone di profumo. Aveva i capelli pettinati all' indietro, scintillanti dell' olio profumato con cui erano stati unti; i suoi tratti aristocratici erano risaltati dal sottile trucco blu e nero intorno agli occhi. Ma sotto quell' aspetto raffinato e quasi molle, traspariva ancora la durezza e la forza del guerriero che aveva combattuto contro l' Alleanza di Koiròth e Kerlash, un guerriero che ancora poteva essere risvegliato.
-Salute, Agar-, lo salutò Tar-Urim con un sorriso stanco.
-Salute Tar-Urim. Quant' è che non dormi?- chiese Agar-Keir, dato che le occhiaie si cominciavano a vedere anche sotto il trucco.
Urim si portò istintivamente una mano fin quasi agli occhi, poi disse: -Si vede così tanto?
Agar-Keir annuì, gravemente, e Tar-Urim sospirò. -Colpa di questi dannati Misteri. Non mi danno requie e non riesco a dormire. Troppe cose da seguire per queste indagini.
"Ci sono novità?
-Sì. Hanno ucciso il nobile Kar-Sar.
-Quelli dei Misteri?
-Sì. E questa volta hanno lasciato anche la firma.
-Hanno firmato il delitto? Sarebbe la prima volta. E chi è stato? Gli Strangolatori di Khem o i Kleshiriani?
-Nessuno di quelli che conosciamo. Si fanno chiamare Setta del Serpente.
-Setta del Serpente?
-Un nostro informatore ha fatto delle ricerche ed ha scoperto che adorano Midgardsomar, il Serpente del Giardino Centrale. E' la versione koiròthiana del Verme del Mondo.
-Allora sono arrivati da Koiròth!
-Non è ancora sicuro-, sospirò Agar-Keir. -In Koiròth nessuno adora il Serpente, a meno che non lo facciano in segreto.
"Avremo delle complicazioni, ora, con la morte di Kar-Sar.
-Perché?
-Era lui che aveva la direzione dello studio nel Quartiere dei Mercanti.
-Non lo sapevo. Questo rallenterà le indagini. E cos' altro sa quel tuo informatore?
-Poco. Quel che sapeva è tutto scritto nei miei rapporti. Se vuoi te li porto.
-Ti dispiace se parlo anch' io con questo informatore, o la sua identità deve rimanere segreta?
-Non è più un segreto. Da quando è stato trovato morto nel Viale dei Platani tutta la città ha capito che era un nostro uomo.
"Ah! Ho anche un' altra cosa da dirti. Forse abbiamo trovato uno dei loro luoghi di culto qui in città. Domani notte vi faremo irruzione per cercare di catturare qualche membro.
-Re Makias sarà veramente contento se ci riesci. Comincia ad avere una tale paura di questi Misteri che non riesce più a chiudere occhio.
Urim lancio' all'amico un'occhiata di sbieco: certe cose non dovevano essere mai dette.

La notte era calda, ma giungeva dalle lontane montagne un vento fresco che rendeva l' aria respirabile e manteneva il cielo sereno. Questo, e il fatto che la luna non era ancora sorta, metteva in mostra lo sciame di luccicanti stelle che riempiva la nera volta.
Agar-Keir si muoveva cauto, camminando accovacciato fra le cespugliose piante adorne di fiori carminei e gli enormi alberi di eucalipto e cedro, producendo solo un lieve fruscio, coi piedi calzati da sandali, nell' erba. Strinse il pugno sull' elsa della daga e si guardò intorno circospetto. Nessuna luce giungeva dalla villa verso cui si dirigeva. Dietro di sé scorse le masse scure di nove uomini, ed altri ancora erano più indietro o ai suoi fianchi. Nel più assoluto silenzio, come ladri che si muovono furtivi fra le ombre, simili ai neri fantasmi usciti dalle Bocche del Corimbo, dove il Sirion, il Lungo Fiume del Ritorno si getta, avevano attraversato Mithas a piedi, sfilando per vicoli sudici e sotto i dorati minareti, raggiungendo quella villa. Poi ne avevano scavalcato il basso muro di cinta ed ora si trovavano nel parco che la circondava. L' informatore aveva detto bene, non c' erano né cani nè alcuna altra forma di sorveglianza.
Senza un preciso motivo Agar-Keir alzò la testa a guardare il cielo ed attraverso le sottili foglie di un cedro vide la veloce vampata di una stella cadente che si bruciava e consumava rapidamente solcando il tetto celeste da un lato all' altro. Le stelle cadenti portano fortuna, pensò. Bene.
Poi furono davanti al portone di ingresso, fatto di legno di acacia rinforzato da fasce metalliche. Per aprirlo ci sarebbe voluto un ariete, ma non ce ne fu bisogno perché era già aperto.
Ed a quel punto Agar-Keir seppe di essere stato battuto. Si raddrizzò e a gran voce, rivolto ai suoi uomini, disse: -Venite fuori, ragazzi, ed accendete le torce. Ci hanno giocati.
Alcune torce furono accese ed alla loro traballante e fumosa luce entrarono nella casa. Le daghe e le spade erano state rinfoderate, le balestre scaricate e le quadrelle riposte nelle faretre. Furono trovate delle lampade ad olio ed anche quelle vennero accese. Nel giro di un quarto d' ora tutto il piano terreno della villa era illuminato.
-Scommeto che anche il cancello del parco era aperto-, commentò Agar-Keir.
In quel momento due soldati uscirono urlando dal salone in cui poeti, giocolieri e musici si esibivano durante le feste. Agar-Keir annotò mentalmente i loro nomi, deciso a farli fustigare se il motivo del loro comportamento non fosse stato più che valido. Raggiunse il salone ed una volta entrato dovette ammettere che lo era. Ciò che stava nella sala era veramente orrendo. Sul pavimento, col sangue, era stato disegnato un cerchio in cui era inscritto uno strano tridente, le cui punte si irraggiavano dall' asta. Tutt' intorno al cerchio erano stati disposti numerosi candelabri alti quasi quanto un uomo, alternativamente d' oro e d' argento, ognuno con un cero altrettanto alto e spesso quanto il polso di un uomo. Uno a destra ed uno a sinistra del cerchio, poi, c' erano due altari in legno decorato con incisioni oscene, e su ognuno degli altari stava un uomo morto.
Agar-Keir si avvicinò ad uno dei due cadaveri. Era completamente nudo ed era stato sventrato, dall' inguine fino al petto. Le budella erano state srotolate per la stanza, ed un serpente gli era stato annodato attorno alla gola.
Guardando la bocca e gli occhi spalancati, il sangue che lo imbrattava tutto e che aveva formato una larga pozza scuras seccandosi ai piedi dell' altare, Agar-Keir dovette reprimere un brivido. L' odore pesante di un incenso particolarmente forte non copriva del tutto gli odori del sangue e degli altri umori corporei e delle viscere.
-Questo è Tar-Parian, il Satrapo di Tal-En-, disse Agar-Keir al capitano dei soldati. -Ci avevano avvertiti della sua scomparsa due settimane fa, vero?
-Sì. Quest' altro è il Presidente della Casa Rossa. Gli hanno fatto un bel servizietto.
-Già. Ed ora siamo nei guai.
-Per Tar-Parian?
-No, un Satrapo non ci vuole poi molto per rimpiazzarlo. Suo fratello sarà felicissimo di farlo. Quella di Presidente del bordello di stato era solo una copertura, per Kal-Tar. Era un Inquisitore.
"Non c' è che dire: sanno bene dove colpire per fare il maggior danno.
Detto questo Agar-Keir uscì dalla sala e poi dalla villa. Lì non c' era più nulla che lui potesse fare: ora si sarebbero messi all' opera i becchini.

Un mese dopo

Gli uomini, aggregati a coppie, si affaticavano sui remi, piegandosi in avanti per poi distendersi all' indietro al ritmo di un tamburo. Agar-Keir, dritto sul castello di poppa, di tanto in tanto guardava gli schiavi legati con robuste catene ai loro remi, completamenti nudi tranne che per un perizoma sudicio e tutti sudati. Poi portava lo sguardo sul battitore, un temorita meticcio, dalla pelle nera ma dal fisico possente quasi quanto un membro della minoranza etnica bianca nota ovunque come Giganti di Tèmor. Colpiva con un bastone rotondo e cavo il tamburo di pelle d' asino, alzava lentamente il braccio, poi lo faceva ricadere di colpo. Infine lo sguardo di Agar-Keir si spostava sul paesaggio che sfilava ai suoi lati, le rive selvose del fiume.
La nave andava avanti a balzi, sfidando la corrente del fiume, forte ma non ancora impetuosa, che spumeggiava fendendosi sull' aguzza prua. Dalle due rive frondose giungevano i richiami di infinite varietà di uccelli, che al loro passaggio spiccavano il volo, solitari o in stormi fittissimi, tanto che se qualcuno vi avesse scagliato una freccia anche senza prendere la mira non avrebbe potuto mancare il colpo.
Dopo aver raggiunto il porto fluviale di Bet-Nimra, Agar-Keir aveva risalito con la sua nave per dieci giorni i fiumi Kaidàr e Mell. Al mattino dell' undicesimo giorno, poi, aveva lasciato il fiume Mell ed aveva cominciato a risalirne il maggiore affluente, il Sila, che scorreva in una stretta valle fra due braccia rocciose del Massiccio Meridionale. Ora a destra aveva i monti di Hebron ed a sinistra quelli di Hesbon, che si riunivano a sud nei Ghilgad, da cui nasceva il Sila.
Era proprio alle sorgenti del Sila che Agar-Keir si stava dirigendo. Lo avevano infatti informato che vi sorgeva uno dei templi dei Misteri, dove adoravano Garmr, il Cane Infernale, la cui setta aveva cominciato a colpire ovunque chi gli si opponesse solo da pochi mesi, ma che era capace di scovare gli oppositori anche fra le altre sette misteriche, e che pareva avere un rapporto molto stretto con la Setta del Serpente.
Quando non fu più possibile risalire il fiume con la nave questa fu ancorata, ed Agar-Keir e i suoi uomini scesero a terra. L' indomani avrebbero proseguito a piedi per raggiungere le sorgenti del fiume, che distavano ancora quattro giorni di cammino.
Agar-Keir disponeva di quaranta uomini armati, oltre ai battitori e ai portatori. Altri dieci soldati, oltre l' equipaggio e i rematori schiavi sarebbero rimasti sulla nave. Ma lui era ugualmente preoccupato. Il territorio si sarebbe fatto via via più brullo, addentrandosi fra i monti Ghilgad, e sarebbero stati allo scoperto. Quelli dei Misteri erano tipi pericolosi.
Il primo giorno di cammino trascorse completamente all' ombra della florida vegetazione della valle del Sila. Durante tutto il secondo giorno il terreno prese a salire, gli alberi si fecero sempre più bassi e radi ed aumentò il sottobosco che infittì fino ad impedire l' avanzata. Furono allora messi all' opera i quattro battitori muniti di lunghi robusti coltelli perché aprissero la strada. Nel frattempo il Sila si era ridotto ad un semplice torrente con poca acqua a causa della stagione secca. A sera anche il sottobosco si era talmente diradato che non creava più difficoltà.
Il terzo giorno ci fu la prima vittima. Improvvisamente quattro pastori armati di frombole sbucarono da degli avallamenti del terreno, gridando e scagliando pietre. Una di esse centrò alla testa un portatore, uccidendolo, poi i quattro fuggirono.
-Fermi!- ordinò Agar-Keir ad un gruppo di soldati che si era lanciato all' inseguimento dei pastori. -E' troppo pericoloso inseguirli.
-Perché credi che ci abbiano attaccato?- chiese Zaggizi, il capitano dei soldati.
-Il portatore è morto?- chiese a sua volta Agar-Keir.
-Sì.
-Ci rifaremo quando troveremo il loro villaggio. Scommetto che ci sono stati aizzati contro da quelli della Setta.
-Guardate là!- gridò un soldato, indicando lontano nella direzione da cui erano giunti. Tutti si voltarono a guardare e videro levarsi dalla valle del fiume una colonna di fumo nero.
-La nave!- esclamò Zaggizi. -La stanno attaccando.
-Non possiamo farci nulla, capitano-, disse Agar-Keir. -Proseguiamo.
Il giorno successivo giunsero al tempio, una struttura per niente imponente e circondata per due lati da sudice capanne di cannicciato e fango addossate le une alle altre. Alle spalle del piccolo tempio si ergeva una parete a strapiombo di roccia marmorea, mentre nello spiazzo antistante era stata posta una grande statua rozzamente tagliata e rappresentante un cane dal pelo arruffato e dai lunghi denti, che sovrastava un altare incrostato di sangue.
Ad attenderli c' era un comitato di benvenuto formato da pastori vestiti di pelle di pecora ed armati di bastoni e fionde. E cominciò la strage.
Quando tutto fu concluso Agar-Keir contemplò l' opera dei suoi uomini: metà dei nemici era stata uccisa, mentre l' altra metà era stata fatta prigioniera insieme alle donne, ai bambini ed ai vecchi. Il villaggio era stato raso al suolo, mentre alcune pecore e i cani erano stati macellati per farne carne per i soldati.
-Quante perdite?- chiese a Zaggizi.
-Nessuna, signore. Ci sono ordini?
-Pensavo di stanare quei topi chiusi là dentro usando il fuoco. Tu che ne pensi?
-Credo sia la cosa migliore da fare, anche se potremmo prenderli per fame. Non devono avere grandi quantitativi di provviste là dentro.
-A meno che non abbiano delle camere sotterranee.
-Difficile. Questa roccia è marmo. E' dura da scavare. Comunque è meglio fare alla svelta, quelli che hanno attaccato la nave potrebbero anche tornare.
-Allora fai raccogliere materiale combustibile per accendere qualche bel falò. Usa i prigionieri. E fai buttare le pelli di pecora e qualche cadavere sul fuoco, faranno più puzzo.
-Non ce la faremo prima di buio.
-Poco importa. La luce non ci mancherà.
Così, nell' oscurità della notte, fu appiccato il fuoco ai due grandi roghi addossati alle pareti del tempio. In poco tempo il fumo, oleoso per la sostanza organica gettata a bruciare, riempì tutti i locali, e dopo un poco di tempo ancora il fuoco consumò la struttura portante dell' edificio, che cominciò ad ondeggiare.
-Di' ai tuoi uomini di stare pronti, capitano, fra poco usciranno-, disse Agar-Keir. -Quanti soldati possono esserci l' dentro?
-Pochi, se no avrebbero combattuto coi pastori.
Pochi minuti dopo la porta del tempio si aprì. Ne uscirono trenta persone in tutto. Dieci erano soldati, che uscirono con le braccia alzate e disarmati; altrettante erano serve, ragazze del villaggio; cinque dovevano essere sacerdoti, e tre erano eunuchi. Gli ultimi due Agar-Keir li conosceva già, dato che erano persone molto influenti nella capitale, funzionari reali molto importanti.
-Bene, bene-, disse Agar-Keir. -Qui abbiamo il nobile Carien-Akaz-Ulim e Bar-Ador, asciàr delle Case di Tuile.
-Vi siamo immensamente grati, Inquisitore Agar-Keir, per averci liberati dalle mani di questi demoni sanguinari-, disse Carien-Akaz-Ulim con un lieve inchino. -Il Dorato te ne renda merito.
-Il Dorato mi renderà merito per avergli tolto da davanti una serpe quale sei tu!- scattò irato Agar-Keir. -Bugiardo figlio di bugiardi! Tu non eri qui come prigioniero, ma per adorare quella bestia mostruosa!- e puntò un dito verso la statua del cane imbrattata di sangue. -Incatenate questi due!
Zaggizi fece eseguire l' ordine, poi si accostò ad Agar-Keir e gli chiese: -Signore, siete sicuro di quello che fate? Avete appena fatto incatenare due uomini molto potenti nella capitale.
-Quando il Re saprà che sono dei Misteri li farà condannare come minimo alla ruota.
-Ma sono proprio dei Misteri? Potrebbero aver detto il vero.
-I sacerdoti li avrebbero usati come ostaggi, in un caso del genere. E poi devono avere un marchio da qualche parte sul corpo. Stai tranquillo.
-Signore, vi prego, ascoltate il mio consiglio: lasciate che li uccida subito o durante il viaggio di ritorno. Sembrerà un incidente o un tentativo di fuga. Possono essere molto pericolosi, una volta rientrati a Mithas.
-No, Zaggizi. Il Re vorrà averli, e poi devono essere interrogati. Forse i torturatori riusciranno a cavar loro altri nomi.
-Come volete, signore. Ci sono altri ordini?
-Sì. Porteremo con noi a Mithas i prigionieri. I cinque sacerdoti, gli eunuchi e le serve. Del villaggio prendi le donne più giovani e robuste, gli uomini forti ed i bambini. Gli altri falli passare a fil di spada.
-E i dieci soldati? Può essere rischioso portarceli dietro.
Agar-Keir ristette un attimo, poi disse: -Falli incatenare per bene. Al mercato degli schiavi quelli spunteranno un ottimo prezzo.
-Altro, signore?
-All' alba voglio che sia tutto pronto per partire.
-Bene, signore.
All' alba cominciò la marcia per il ritorno. Agar-Keir non aveva più dubbi che avrebbero dovuto marciare fino a Bel-Mèll, un porto fluviale che sorgeva dove il Sila confluiva nel fiume Mell.
Infatti, quando giunsero al luogo dove avevano ormeggiato la nave la trovarono bruciata. I rematori erano morti al suo interno, arsi vivi, mentre l' equipaggio era servito per cibo agli animali del fiume e ancora qualche cadavere gonfio e in parte divorato galleggiava impigliato nelle radici degli alberi o fra i resti della nave. I dieci soldati invece erano morti mentre combattevano per aprirsi una via di fuga. Non c' era traccia di cadaveri di aggressori, che dovevano essere stati portati via dai loro compagni.
-Vi toccherà la stessa sorte, cani!- disse con spavalderia uno dei soldati incatenati.
-Fagli tagliare la gola-, ordinò Agar-Keir a Zaggizi. -Non voglio che impauriscano i miei uomini con queste minacce.
Dopo pochi minuti ripresero il cammino, lasciando sulla riva del fiume un altro cadavere.
Sei giorni dopo essersi lasciati alle spalle la nave bruciata giunsero a Bel-Mèll, dove il comandante della guarnigione reale lì di stanza requisì una nave che portasse velocemente Agar-Keir e i sette prigionieri più importanti a Bet-Nimra, altro porto fluviale a meno di metà strada dalla capitale. Gli altri prigionieri li avrebbero seguiti più lentamente.

Agar-Keir uscì dalla vasca di acqua profumata e subito una serva si affrettò con un asciugamano. Ancora rimuginava sul significato di ciò che aveva visto due giorni prima quando era rientrato a Mithas. Stava conducendo i sette prigionieri che aveva portato da Bel-Mèll verso il Palazzo Reale, e strada facendo aveva visto numerosi operai che lavoravano per abbattere uno delle centinaia di minareti che con le loro cupole d' oro avevano dato il soprannome di Dorata alla città. Già di per sè la cosa era strana, ma strada facendo si era accorto che la stessa sorte era stata destinata ad altri due minareti. E alle sue domande al riguardo nessuno sapeva o voleva dire nulla.
Quella sera sarebbe andato a trovare Tar-Urim: forse lui gli avrebbe detto qualcosa, gli avrebbe spiegato cosa stava accadendo in città.
La sera venne e lui si recò da Tar-Urim. Come al solito dovette fare anticamera, prima che l' amico lo ricevesse, ma questa volta l' attesa fu più lunga del normale, e non fu Tar-Urim che si recò da lui, bensì il contrario.
Fin dalle prime parole che l' amico gli rivolse Agar-Keir capì che c' era qualcosa che non andava. I saluti furono freddi, i convenevoli condotti in maniera distaccata. Tar-Urim pareva lontano ed era fin troppo formale. Sembrava che volesse erigere un muro fra loro due.
-Sono venuto a chiederti spiegazioni su ciò che sta accadendo in città-, disse Agar-Keir. -Il popolo è irrequieto, nervoso, quasi spaventato, oserei dire. Una strana aria ristagna per le strade e le piazze.- Negli occhi di Tar-Urim si accese una strana luce, che ad Agar-Keir risultò tanto incomprensibile quanto spaventosa. -...e poi ho visto degli operai che stanno abbattendo dei minareti. E' una cosa che non era mai successa in tutta la storia di Mithas. E poi i cantieri sono inaccessibili a tutti e la gente che vi abita vicino dice che gli operai sono degli stranieri, che parlano una lingua simile al takàrim.
-Non comprendo bene le tue parole, amico Agar-Keir. Io non ho notato nulla di strano. I tre minareti vengono abbattuti perché sono stati dissacrati da coloro che appartengono ai Misteri con atti innominabili. Forse è questo che rende irrequieto il popolo.
"Comunque non è niente per cui valga la pena di fare domande. Anche perché le indagini stanno venendo affidate tutte a dei nuovi Ispettori dell' Inquisizione, tutti dell' alta nobiltà e nessuno di loro tollera intromissioni. Io, del resto, sono già stato rilevato dal mio incarico e me ne è stato affidato uno nuovo.

Tar-Urim non era riuscito a convincerlo. C'era qualcosa che non andava, ed era qualcosa di veramente pericoloso. E su questo non ebbe più dubbi quando un servo, appena rientrato in casa, gli disse che il capitano Zaggizi gli aveva chiesto udienza e lo stava attendendo da due ore in uno dei salotti.
Preoccupato e un po' impaurito, Agar-Keir si affrettò a raggiungere Zaggizi, che trovò in preda ad un genuino terrore.
-Siamo in pericolo, signore-, disse a bassa voce non appena furono rimasti soli. -Hanno rilasciato i prigionieri presi alle sorgenti del Sila!
-Rilasciati? Spiegati!- Ora era vera e propria paura, quella che serpeggiava lungo la schiena di Agar-Keir.
-Per ordine del Re! Capite? Siamo morti!
-Calma-, disse Agar-Keir, sebbene riuscisse a controllarsi a stento. -Se restiamo calmi riusciremo a trovare un modo per salvarci.
-Dobbiamo fuggire! Non c' è altra soluzione. Io so come fare, ma occorre denaro. Oro, se lo avete.
-Ce l' ho. Vieni.
I due percorsero alcuni corridoi, raggiunsero le camere private di Agar-Keir, che prese dell' oro da un forziere nascosto.
-Quanto te ne occorre?
-Per ora venti sicli, per comprare due cavalli e delle provviste. Altro oro servirà per raggiungere il confine e passarlo.
-Che confine? E come intendi uscire dalla città?
-Per uscire dalla città conosco una strada che passa sotto le mura. Occorre arrivare al Colle delle Grotte del Labirinto.
-Conosci la strada che passa per le Grotte del Labirinto?
-Sì.
-Ma sono chiuse, il guardiano non ci lascerà passare.
-Basterà un po' d' oro.
-Va bene. Ed una volta usciti dalla città?
-Ci dirigeremo a nord, verso la Catena del Gabràk, e la passeremo in territorio takàrim. Poi direi di attraversare l' Argash fino all' Ashter.
-Sì, mi sembra la soluzione migliore. Tieni venti sicli per i cavalli ed altri trenta nel caso si verificassero degli inconvenienti. Io mi procurerò altri trecento, quattrocento sicli. Dove ci troviamo?
-Tra due ore sul lato est del Colle delle Grotte del Labirinto. Sotto l' Arco Marveano.
-D' accordo.

Zaggizi camminava veloce per le vie del quartiere della Porta dei Cammelli, il quartiere più a sud della città, la cui porta era così denominata perché anticamente, prima che Mithas governasse su tutto Mell, quando il territorio a sud di Bet-Nimra era spopolato e regredito, era da quella porta che entravano le carovane di cammellieri che giungevano dal Koiròth.
All' improvviso un' ombra si gettò su di lui, scaturendo dall' oscurità di un androne. Un lungo pugnale scintillò, puntando veloce verso la sua gola. Zaggizi, provetto spadaccino, ed all' erta proprio nel timore di un' aggressione del genere, reagì velocemente, gettandosi a terra e sgambettando il suo assalitore. E mentre l' assassino cadeva a terra si rialzò, sfoderando la sua daga. Prima che potesse contrattaccare, però, l' assassino era nuovamente in piedi. I due si fronteggiarono.
Improvvisamente Zaggizi si dette alla fuga, mentre l' assassino scattava insieme a lui per inseguirlo. Ma il capitano si arrestò bruscamente, voltandosi in un affondo. Chinatosi per evitare la lama, sentì la sua daga affondare nel ventre dell' uomo, poi la spinse verso l' alto aprendo un largo squarcio nella carne, da cui fuoriuscirono gli intenstini bluastri, mentre l' uomo moriva con un grido strozzato.
Zaggizi ripulì la spada sulla veste del morto e proseguì per la sua strada.
Arrivato dal venditore di cavalli pagò i cinque sicli d' oro precedentemente pattuiti per un cavallo da sella ed uno da soma carico di scorte. Conducendo le bestie per le cavezze si avviò verso la Porta dei Cammelli.
Agar-Keir aveva reagito esattamente come previsto: la vita agiata e molle lo aveva disabituato a agire con lucidità in momenti di improvviso pericolo, così era riuscito a prendergli il denaro occorrente per fuggire. Non gli era nemmeno venuto in mente che venti sicli d' oro sarebbero stati un prezzo troppo elevato anche per il mercato nero, cosa a cui non aveva avuto bisogno di ricorrere, e in più gli aveva dato altro denaro per "gli imprevisti".
Ma strada facendo, tra l' idea che l' indomani mattina Agar-Keir sarebbe stato trovato morto e la convinzione che lui sarebbe già stato lontano dalla città, gli sovvennero alcune parole del piccolo nobile: -... io porterò altri trecento, quattrocento sicli...-
Quattrocento sicli! Tutto quel denaro avrebbe fatto di lui un uomo ricco, nel Takàr. E poi era un peccato lasciarlo a qualche ufficiale corrotto. Arrestò e girò i cavalli, dirigendosi verso il Colle delle Grotte del Labirinto. Un po' di ritardo non lo avrebbe di certo messo in pericolo, dato che quelli dei Misteri erano ormai sicuri che lui fosse già morto.

Agar-Keir sbrigò in mezz' ora certe faccende importanti, come raccogliere documenti di notevole importanza che avrebbe portato con sé e distruggere quelli che sarebbero potuti essere utili al Re o ai Misteri, poi indossò la sua cotta di maglie d' acciaio, il leggero e resistente acciaio della città di Sardàr. La coprì con le vesti da viaggio, prese la spada lunga e la piccola balestra, mise in una bisaccia il denaro, cento sicli in oro, tutto ciò che gli restava, e i documenti che gli avrebbero fatto comodo una volta in esilio, indossò il mantello nero da viaggio e si avviò verso la porta sul retro.
Vi era quasi giunto quando gli si fece incontro la vecchia serva che gli aveva fatto da balia nell' infanzia e che tanto fedelmente lo aveva servito in quegli ultimi anni. Nascose sotto le falde del mantello la piccola balestra già carica per non spaventare la vecchia donna, cui lo legava un profondo affetto.
-Anànhia, cosa ci fai ancora alzata?- le chiese.
-Dove vai, Keiry?- chiese lei di rimando con tono preoccupato, usando il dimutivo con cui lo chiamava da bambino. -C' è qualcosa che non va?
Agar-Keir cercò una qualche bugia da dirle per tranquillizzarla e soltanto all' ultimo momento vide il sottile pugnale, un attimo prima che la lama baluginante affondasse nel suo ventre. D' istinto si buttò all' indietro, mentre sentiva l' acciaio gelido mordergli la carne. Colpì il pavimento assalito da un bruciore atroce al ventre, che insieme allo spavento e allo stupore inorridito di quell' inaspettata aggresione gli tolse per un lungo istante ogni lucidità.
Attese ma non accadde nulla. Allora aprì gli occhi. La prima cosa che notò fu il foro nel suo mantello e le nocche sbiancate della mano destra che stringeva convulsamente il calcio ed il grilletto della balestra. Poi vide la vecchia Anànhia, stesa a terra col sangue che ancora zampillava dalla gola squarciata dalla quadrella; le mani nodose, rovinate dall' artrite, si tendevano adunche verso l' alto. Il pugnale, arrossato dal suo sangue, era a terra poco distante.
La lama sottile era riuscita a penetrare fra le maglie del suo usbergo, ma non abbastanza per infliggergli altro che una ferita superficiale, anche se dolorosa, dato che la forza della vecchia era minima.
Quando si fu ripreso dal trauma abbastanza da ragionare, Agar-Keir controllò che la lama non fosse avvelenata. Sollevato dal fatto che Anànhia non avesse avuto l' accortezza di usare alcun veleno, tamponò la ferita, ricaricò la balestra e raggiunse la porta posteriore. La socchiuse e controllò che non ci fosse nessuno a giro, poi sgusciò fuori di casa, scomparendo nel buio della strada.
Raggiunse velocemente il colle delle Grotte del Labirinto. Sul lato est di quel colle che sorgeva ai margini del Quartiere Nobiliare, lungo le sue pendici ed in un largo spiazzo ai suoi piedi, si trovavano antiche rovine risalenti alla prima Mithas, un piccolo villaggio di pastori accresciutosi col tempo ed arricchitosi grazie al fatto di trovarsi al centro di tutte le strade commerciali della regione. Mithas era divenuta una delle più grandi città di Marvea, un regno che circa cinque secoli prima racchiudeva nei suoi confini tutte le terre di Mell e della Tetrarchia, che si trovava a nord, parte dei territori del Takàr; sempre a nord, le terre ora dell' Argash comprese fra il lungo Fiume del Ritorno e il Rio dei Rossi, e ad ovest quello che ora era il regno insulare di Kerlash.
Cinque secoli prima era stato il momento di maggior espansione di Marvea, un regno che durava da più di mille anni. Un secolo dopo era cominciato il decadimento, a causa di lotte interne, e subito i regni vicini ne avevano approfittato. I primi erano stati i koiròthiani, che avevano cominciato a varcare regolarmente i confini di Marvea, il cui esercito non era più in grado di difendere, sempre impegnato a combattere assurde guerre civili. Poi il potere centrale aveva perso ogni controllo sulle città minerarie del Massiccio Meridionale e di quelle della Catena del Gabràk, mentre la popolazione abbandonava i territori del sud per sfuggire alle incursioni di predoni. Quindi era toccato al Takàr e all' Argash farsi avanti per espandersi a spese di Marvea, mentre l' Isola Moiropth diveniva il covo di bande di pirati, i quali cominciarono ad infestare il Mar di Kerlash e a spingersi fin nel Golfo di Vider. Dopo poco Kadèr, la maggiore città di Kerlash, annunciava l' indipendenza e annetteva l' Isola Moiropth con la sua favolosa flotta pirata.
Tutto il territorio a sud del fiume Kaidàr era spopolato, escludendo le tribù di nomadi koiròthiani con le loro mandrie di cammelli, quando infine ciò che rimaneva di Marvea si scisse in due: il meridione rimase fedele all' antico monarca, che si rifugiò a Mithas, da cui continuò a comandare su un territorio sempre più ristretto; il settentrione seguì le città ribelli di Renan, Lui-An, Sardàr e Tajl-An, che fondarono la Tetrarchia, retta da un Tetrarca votato all' interno della più prestigiosa famiglia nobiliare di Sardàr per i primi anni, in quella di Renan nei successivi. La Tetrarchia riusciva a malapena a mantenere i propri confini, che passavano molto vicini alle Quattro Città, mentre Mithas si indeboliva sempre più, finché giunse un' orda di koiròthiani a raderla al suolo.
Dopo la caduta di Mithas, Kerlash costruì delle fortezze costiere lungo tutto il corso del fiume Kaidàr, la più interna delle quali fu Bet-Nimra, e grazie alla protezione di quei presìdi, il commercio nelle terre a settentrione del Kaidàr tornò a fiorire. E dato che Mithas sorgeva nel più importante nodo di vie di comunicazioni di tutta quella regione, venne ricostruita, e con le pietre delle sue rovine vennero eretti nuovi edifici e mura difensive. La città si fece sempre più ricca e potente, prosperando sul commercio, e ben presto i suoi signori si liberarono delle influenze degli stati vicini: vennero erette nuove mura ciclopiche impossibili da espugnare e i soldati dei nuovi eserciti di Mithas marciarono verso tutti i punti cardinali sottomettendo le città vicine che già in passato le avevano reso tributo. I territori sotto il suo dominio si estesero sempre più, fin quando conquistò una ad una tutte le fortezze lungo il Kaidàr, cominciando da Bet-Nimra. Nacque così il regno di Mell, ed i suoi confini si estesero verso nord fino alla Catena del Gabrak, dove si incontrò con la Tetrarchia; a ovest, combattendo i Takarìm; verso sud, ricacciando nel deserto i predoni koiròthiani e raggiungendo il Massiccio Meridionale, per scoprire che tutte le città-stato sorte nelle sue vallate erano da tempo scomparse, soffocate dalla povertà della regione, dai predoni e dall' isolamento. Infine riconquistò una ad una le sue città marinare e le fortezze costiere erette da Kerlash. I confini erano nuovamente sicuri, tutto Mell era popolato, sebbene gran parte del regno fosse stato invaso da sud dal deserto, e Mithas che era il cuore del regno fioriva, tanto da meritare ben presto l' appellativo di Favolosa. E così erano giunti gli Ultimi Tempi, cioè quegli anni in cui, secondo un' antica profezia, Mell si sarebbe eretto in breve a padrone della Mezzaluna, le ricche terre intorno al Golfo di Vider, per ripristinare l' antica gloria di Marvea.
E quelle dove Agar-Keir si era introdotto erano le ultime vestigia della prima Mithas, capitale di un impero senza pari sul continente, e fra esse si ergeva orgoglioso un arco di trionfo, oramai eroso dal tempo, che tutti in città conoscevano come l' Arco Marveano.
Zaggizi non c' era ancora, constatò soddisfatto Agar-Keir. Controllò la balestra e si sedette su una pietra nell' oscurità più fitta, attendendo l' arrivo del suo compagno di fuga.
Questi arrivò molto prima dell' ora stabilita, come Agar-Keir si era aspettato, come del resto si era aspettato che solo il cavallo montato da Zaggizi avrebbe avuto la sella, mentre l' altro sarebbe stato solo un cavallo da soma, cosa che notò facilmente anche se non c' era neppure la luna a rischiarare la scena.
-Sono qua, Zaggizi-, disse spostandosi verso un punto meno buio, ma non abbastanza da permettere all' altro di vederlo chiaramente.
-Eh? Come? Cosa... cosa ci fai qui?- chiese l' altro con tono a metà fra lo spaventato ed il sopreso. -Voglio dire, sei in anticipo.
-Anche tu.
Agar-Keir premette il grilletto e il dardo partì, colpendo preciso. Il ruomore della carne squarciata, del sangue zampillante e del metallo che raschiava contro l' osso si udì chiaramente, e fu come un gran fragore nella quiete della notte. Zaggizi fu spinto indietro dal colpo, ma si afferrò saldamente alle redini e riuscì a raddrizzarsi; aprì la bocca, ma il sangue gli invase la gola e gli ruscellò sul mento, soffocandolo, e quando dopo un attimo scivolò di sella emise solo un gorgoglio.
Agar-Keir recuperò dal cadavere di Zaggizi la sacca con i suoi soldi, poi, presa la cavezza del cavallo da soma, montò in arcione all' altro. Ricaricò la balestra e le mise la sicura, e solo allora gettò un altro sguardo al morto.
-Senza rancore, capitano, ma era tu oppure io. E poi non sono stato io ad ucciderti, ma la tua avidità.
Voltò i cavalli e si avviò verso le porte della città, lasciandosi alle spalle il vicolo cieco del Labirinto.


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Friday, 25 November 2011

I piatti della Bilancia / Scale pans

L'universo tende inequivocabilmente al dolore. Per ogni momento felice, pagheremo soffrendo. L'ordine naturale delle cose e' la sofferenza, e l'universo deve riequilibrare lo stato delle cose. O addirittura far pendere il piatto della bilancia dal lato del dolore. Non possiamo evitare che accada. Non ci e' vietato essere felici, anzi credo sia un nostro dovere nei confronti delle persone che ci circondano. Ma dobbiamo essere coscienti che per ogni cosa che riceviamo dobbiamo pagare un prezzo.

Universe unmistakably tends to pain. For any happy moment we'll pay suffering. Is the natural order of things, and universe must restore state of affairs. Or even to tip the scale to pain side. We can't avoid it happens. Is not forbidden to be happy, even I believe it is our duty towards people who surround us. But we must be aware that we'll pay the price of any thing we'll receive.

Monday, 14 November 2011

L'inizio del viaggio / Journey beginning

Infine riesco a muovere i primi passi in questo nuovo mondo, apparso quando lo specchio si e' rotto. Dolci ondulazioni del terreno, coperte di verde erba grassa, mi invitano a percorrere queste terre. Ma tutto e' nuovo e diverso. Non conosco nulla e niente conosce me. I colori sono vagamente diversi, ancora non sono capace di sentire gli odori. E in questo scintillante cielo, non una ma due lune stanno sospese. Le vedo la', cosi' vicine che pare possano essere toccate con mano. Ballano sopra scure foreste di abeti. E mentre un vento freddo preannuncia l'arrivo del dio dell'inverno, io so che una di esse sta per precipitare al suolo.


In the end I'm able to move first steps in this new world, appeared when the mirror broke. Sweet ground undulations, green plentiful grass covered, invited me to walk these lands. But all is new and different. I don't know anything and nothing knows me. Colours are vaguely different, I'm not able to smell scents yet. And in this sparkling sky not one but two moons are suspended. I see them there, such close that it seems they may be touched by hand. Dancing over dark spruce forests. While a cold wind preannounces the winter god arrival, I know that one of them is close to fall down on the ground.