L' arrivo dell' autunno aveva inumidito di rugiada i risvegli della campagna del Coastlund, i cui prati l' alba trovava grigi di gocce d' acqua, i boschi aleggianti di nebbia leggera ma quasi palpabile, che si muoveva lenta contorcendosi in serpenti e spirali, e su tutto aleggiava l' odore dei funghi e delle foglie marcescenti, un sentore di antico che si muoveva fra i tronchi rugosi delle querce secolari e su e giù per i crinali e gli strapiombi e le scarpate rocciose frantumate dalle radici dei faggi, dove le foglie secche si accumulavano alte. Le prime piogge avevano ingrossato i ruscelli, i torrenti e i fiumi che scendevano dalle lontane, aspre e aguzze vette, velate da nubi cotonose, delle montagne Brumafredda: corsi d' acqua dallo scorrere veloce e spumoso nei loro letti dai fondi sassosi e dalle sponde alte ed erbose, che raggiungevano gli altopiani veloci e li percorrevano serpeggiando; cristallini, limpidi e ancora velati dall' ultima spuma bianca nei pascoli e nei prati di trifoglio; mormoranti sui bassi letti di limo e sassi, trasportando foglie gialle nei radi boschi di giganteschi salici dalle fioriture bianche e gialle e dalle svettanti chiome anelanti all' ultimo azzurro del cielo; e poi destreggiandosi nelle strette valli degli ultimi colli di Tsabor e nei salti delle piccole ma innumerevoli cascate che ridanno loro vigore, prima di confluire nei bacini maggiori e penetrare nelle ombrose foreste di querce, uscendone più vigorosi e più lenti, scuri di particelle di terra, per percorrere gli ultimi chilometri fino al mare tagliando le Pianure Maggiori del Coastlund stretti in argini e terrapieni per proteggere i campi coltivati e le città.
Sui campi arati, sui pascoli ormai abbandonati e sui prati di erba all' ultimo vigore, facendo frusciare le siepi di confine e i boschetti di agrifogli, soffiava il vento fresco, mitigando gli ultimi calori di un sole sempre più basso e stanco, non soffiando più dal sud e dall' ovest, le terre delle calde pianure dove i venti secchi hanno la loro genesi, ma girando verso est, verso il mare, caricandosi di frescura e pioggia, in un lento cammino verso i freddi e le nevi del nord.
Ma quell' anno, l' autunno portò qualcosa di nuovo per la Contea di Norges, qualcosa che non era mai stato visto a memoria d' uomo entro i suoi confini, il cui avvento era funesto e foriero di morte, una morte antica e arcana, che sopraggiungeva da luoghi sconosciuti, o forse dimenticati.
La Contea di Norges, la Città Antica, la dimora del Conte, fratello del Re. Ma mentre il Re era una figura lontana, assisa su un trono posto in una rocca oltre le montagne Brumafredda, il Conte risiedeva sui colli Tsabor, dove il torrente Coller andava a gettarsi nel Travolgirivo. A Norges e al Conte andarono a chiedere aiuto i contadini, quell' autunno lontano, alla solida sicurezza delle grandi rocce non squadrate con cui erano state erette le torri della Città Antica e i bastioni delle sue mura, e alla robustezza delle aste di legno di frassino delle lance e delle lame di acciaio delle spade dei soldati del Conte.
La gente della Contea era un popolo fra i più antichi del Coastlund, uomini solidi, pur se di statura bassa, dalle gambe corte e leggermente arcuate. Era gente scaltra, che aveva dato la vita ad artisti e inventori. A Norges erano presenti anche alcune scuole, fra cui la più famosa università del regno, quella di matematica e ingegneria, dove gli stessi genieri del Re venivano istruiti e formati.
Erano stati gli uomini della Contea che avevano costruito la strada che da Norges andava fino alla capitale, il Buoncammino, un percorso lastricato che usciva dalla porta nord di Norges, costeggiava il Travolgirivo, superando innumerevoli piccoli torrenti che entravano spumosi nella vallata del fiume con brevi ponti e guadi in massicciata semi sommersa; giungeva poi ai Boschi del Pianto, l' unico bosco a nord-est degli Tsabor dove i salici fossero piangenti, proseguendo il suo cammino sotto le fronde ondeggianti che spesso giungevano a sfiorare il lastricato. Più a nord il Buoncammino deviava verso est, sorvolando il Travolgirivo sull' Arcoponte, un' opera di ingegneria senza pari in tutta la Contea e al di fuori di essa, e puntando le montagne Brumafredda, su cui si inerpicava dopo aver percorso i Prati degli Antichi, i pascoli pedemontani ondulati qua e là da collinette artificiali di vecchia data, nascondigli delle rovine di antichi fortini e tombe di re. Il Buoncammino zigzagava nelle vallette ripide delle Brumafredda, evitando gli strapiombi, costeggiando i burroni. Scollinava al Passo del Grigioalbore e scendeva quasi diritto nella Piana delle Tre Battaglie, attraversava Bosco Ombroso e dopo pochi chilometri giungeva a Brunwick, la capitale. In tutto 206 chilometri, lastricati completamente dagli uomini della Contea, aiutati solo dai Picconieri, i minatori delle cave delle Brumafredda da cui erano state tagliate le lastre di roccia per la pavimentazione.
Da nord a sud la Contea si stendeva per quasi 400 chilometri, anomalia dovuta all' antico matrimonio fra i Lussalioth di Norges e i Math-ammon di Twinnidh, che aveva riunito in un solo feudo due già vaste contee create col ferro delle spade. Però nella Contea erano solo tre i centri abitati di una certa importanza e cinti da mura: il primo era la Città Antica; poi c' era Alberwick, nel nord, ai confini della Contea; e c' era Twinnidh, verso sud, sulla sponda destra del Rivoscuro, oltre il quale c' erano solo le fattorie fortificate degli scontrosi Torod, i coltivatori di agrumi e pistacchi, e poi più nulla, se non le Lande dei Vagabondi e le Terre Brulle.
C' erano poi numerose fortezze, sparse un po' in tutta la Contea, eredità di epoche più tormentate, prima che la Pace del Re ponesse tregua alle guerre di clan e alle invasioni. Si trattava di roccheforti montane sulle Brumafredda, rovine abbandonate da almeno un secolo; fortini posti a nord, lungo confini sicuri e tranquilli, dotati perciò di esigue guarnigioni; castelli costruiti sui Prati degli Antichi, tra le vigne degli Tsabor e a guardia dei campi di grano nelle Pianure Maggiori, dalle torri coperte di edera e i ponti levatoi abbassati e bloccati dalla ruggine; torri di avvistamento sui promontori della costa e basi navali nei golfi e nelle rade, da cui veloci triremi salpavano alla ricerca dei velieri pirati e delle robuste navi da guerra dei popoli nordici dell' Esvenia; pochi castelli spopolati nel cuore della Foresta di Ombra Tremula, accerchiati dalle querce e rifugio polveroso delle bestie del bosco e degli uccelli; fortezze robuste, dalle mura alte straripanti di soldati sulle sponde del Rivoscuro e tra i boschi di agrumi, olivi e pistacchi dei Torod; stazioni di posta per i messi del Re lungo tutto il Buoncammino.
Aveva una storia antica, la Contea, undici secoli di battaglie e invasioni, vittorie e sconfitte. Navi veloci avevano disceso la costa verso sud, eserciti giganteschi avevano attraversato le Terre Brulle, creature ignobili e malefiche erano scaturite dai recessi posti sotto i monti, dove le Brumafredda avevano le loro radici.
Ma erano storie vecchie, anzi antiche. Ne parlavano solo i libri di storia nelle biblioteche polverose e vuote dei nobili, scambiandosi, con gli altri libri, segreti sussurrati nel silenzio della notte, e i pochi menestrelli girovaghi che traversavano la Contea, diretti magari verso i Porti Luminosi, per imbarcarsi per terre più ricche di miti o ancora giovani e affamate di antiche storie.
Le battaglie erano state dimenticate, le ossa dei morti rosicchiate dagli animali e le spade spezzate abbandonate sui campi di battaglia erano state trasformate in ruggine dal tempo. Solo qua e là, i resti segnati dal fuoco e dai proiettili delle catapulte di barricate e forti, affioravano ancora per brevi tratti dalla terra scura ed erbosa e dai rovi, oppure ondeggiavano sotto l' acqua scintillante di un placido fiume o magari sotto quella verdolina di uno stagno poco profondo, nascosti agli occhi umani da boschetti di salici o fitti canneti.
Ma quell' autunno qualcuno giunse, galoppando sull' ultimo vento caldo delle notti stellate, qualcuno memore delle antiche battaglie, qualcuno i cui occhi vedevano ancora i solchi lasciati dai carri da guerra e le orme dei piedi dei soldati impresse nell' erba verde; il vento portava il tintinnio del ferro, alle loro orecchie, ed il lontano crepitare e ruggire dei fuochi degli incendi. Qualcuno che ancora ricordava fatti avvenuti ben prima che il "Re a Nord" arrivasse da Brunwick per riunire tutta quella terra sotto la sua corona e ancora cento piccoli sovrani si combattevano per pochi ettari di terra.
Un antico pericolo tornava dal Sud in cui gli eroi ormai dimenticati lo avevano un tempo ricacciato. Un richiamo aveva attraversato le ombre della morte e le foschie dei secoli, sipario e sudario steso su terre misteriose devastate da eserciti vendicativi. Loro ricordavano la marcia verso nord, oltre il Rivoscuro, a quei tempi chiamato Linnosante. Ricordavano le battaglie ai guadi, le imboscate sotto i rami di giovani querce, le frecce che sibilavano dalle fronde di salici nani e da fitti canneti palustri. Ricordavano le macchine da guerra impantanate nelle paludi e negli acquitrini, le trappole fangose che inghiottivano cavalieri e fanti. Poi, vista da lontano, la città di Norges, allora solo un piccolo centro costruito su un terrapieno e protetto da una semplice palizzata e torri di legno. Solo da lontano, prima di ritirarsi davanti all' incalzare dei nemici, feroci guerrieri di bassa statura, protetti solo da corazze di cuoio ed elmi conici, ma armati con giavellotti leggeri, frecce dalle punte acuminate e spade affilate e più resistenti del bronzo.
Loro ricordavano il motivo per cui ora tornavano a nord, era l' alito della terra a ricordarglielo, era la voce delle rocce, che ancora portavano i segni di un esercito vincitore che aveva braccato verso il meridione lo sconfitto in fuga, fin oltre i guadi limosi del Rivoscuro e le ondulate regioni spoglie che erano a sud del suo corso, fino a una terra sorvegliata da rocche di pietra unite fra loro da strade serpeggianti fra i bassi colli e i campi coltivati e i frutteti e i vigneti.
Ma i forti non aveva fermato l' invaso divenuto invasore, riunito sotto una sola bandiera dal pericolo meridionale, rinforzato dai guerrieri barbari scesi dai monti o sopraggiunti al richiamo dei corni da guerra dalle terre a nord e a est di essi. Ed il fuoco aveva distrutto castelli e valli, gli ultimi carri da combattimento e i boschetti sacri, i campi di grano e le case dei contadini, fortini e baracche di schiavi, pontili e navi. Il fuoco purificatore aveva distrutto una terra oscura, il suo popolo empio era stato passato a fil di spada, nessuno era scampato. Le mandrie e i greggi erano stati macellati per un grande olocausto in favore del Dio dei vincitori. Di quel popolo empio non era stata lasciata traccia, se non le rovine fumanti di città vecchie quanto il mondo e campi bianchi di ossa e le tombe segrete dei loro otto sovrani.
E là, nelle loro tombe umide, in grotte affrescate, accuditi da guerrieri e servi di scuro metallo, il richiamo li aveva raggiunti attraversando il tempo. Davanti alla rovina del loro popolo, a fronte della devastazione delle loro terre, pronunciarono un solenne giuramento, una promessa più vincolante della morte: avrebbero fatto vendetta.
La loro antica voce aleggiò nel cielo per secoli, persa fra le nubi, trasportata dal vento a toccare i quattro canti del mondo e i suoi confini offuscati dal vapore di gigantesche cascate. Poi discese, tornando ai suoi padroni, raggiungendoli nelle profondità della terra, all' interno di tombe più simili a roccheforti e dentro sarcofaghi protetti da glifi magici. La luce tornò nei loro occhi ombrosi, una velenosa linfa energetica tornò a scorrere nelle loro carni rinsecchite e aride, fonte di una forza disumana. I coperchi dei sarcofaghi frusciarono e stridettero, e caddero a terra con forti colpi. Le mani adunche e dalla pelle scura si afferrarono ai bordi delle bare, sollevando gli alti corpi al di fuori di esse. Gli otto sovrani decaduti si raccolsero al centro dell' immensa sala, il soffitto perso nella tenebra sorretto da archi sottili e deformi. Poi si mossero, come un solo essere, guidati da una coscienza non più umana. Percorsero migliaia di scalini, salendo per centinaia di metri una scala attorcigliata come un serpente attorno ai rocciosi pilastri della terra sprofondati nei fanghi di ere primordiali, vicino a occulte rovine inghiottite e sepolte dalle profondità quando il mondo era ancora giovane.
Avvolti nei neri mantelli affiorarono in superficie, e i loro occhi rossi come braci ardenti osservarono il ventoso paesaggio di una regione desolata e morta. Ancora una volta giurarono vendetta.
Cavalcarono verso nord, su oscuri destrieri che nessuno avrebbe mai saputo da dove provenissero, dal manto più nero del fumo dell' inferno. Procedettero veloci, muovendosi di notte, nascondendosi di giorno. Uno dopo l' altro visitarono tutti gli antichi luoghi di potere e dove un tempo sorgevano le loro fortezze, i loro castelli, le loro grandi città. Trovarono soltanto are e altari spezzati, consumati dai venti e dalle piogge, a malapena riconoscibili per ciò che erano stati, e solitudine e paesaggi sconosciuti. Sibilarono la loro rabbia ai primi geli della notte autunnale, al silenzio di un cielo luccicante di stelle, e furono felici di avere rinunciato tempo addietro alla loro umanità.
I cavalli furono lanciati verso nord, attraverso le Terre Brulle, una distesa spoglia di basse ondulazioni attraversata dai corsi disseccati di antichi fiumi, punteggiata da ammassi rocciosi che un tempo erano stati rovine di possenti fortezze. Chilometro dopo chilometro percorsero la loro terra devastata, resa sterile quando sotto il loro regno era fiorente e fertile, vuota quando in antico era densamente abitata. Che ne era stato dell' antica gloria? Come potevano i sanguinari dei che lì venivano adorati permettere che tutto svanisse e venisse persino dimenticato? A nulla erano valsi i prigionieri sacrificati, il sangue versato sugli altari e le grida di dolore e morte che si levavano al cielo come un profumo soave? Così quegli dei egoisti avevano ricambiato la fedele adorazione del loro popolo? Con rabbia maledissero i nomi delle divinità che un tempo avevano invocato, promisero di cancellare i loro nomi, così che il loro ricordo svanisse come era svanito il ricordo del loro popolo e della sua gloria e anche gli dei morissero col popolo che li aveva adorati invano.
Gli otto re si spinsero a nord fino alle prime terre coltivate. Agrumi, pistacchi e olivi giganteschi crescevano fitti e densi, vere e proprie foreste accudite dall' uomo. Grandi masserie fortificate sorgevano in mezzo al verde delle loro fronde, costruite con blocchi di tufo e calce bianca risaltavano chiare nel buio della notte. I versi inquieti di greggi ed armenti provenivano dai ricoveri e dalle stalle, i cani abbaiavano, avvertendo la presenza di coloro che non erano vivi ma rifiutavano l' oblio della morte, e le guardie nei cortili e sulle mura divenivano improvvisamente inquiete al loro passaggio senza riuscire a spiegarsene la ragione.
Arrestarono i cavalli sotto le fronde di un olivo immenso, dal tronco nodoso contorto e avvolto su se stesso, scavato dal tempo fino al suo cuore, ma vigoroso e carico di foglie e di frutti, tanto che i rami ne erano piegati e pendevano verso terra. Uno degli otto estrasse la sua spada, nera, appuntita e sottile, piantandola a fondo nel legno. Le fronde dell' albero fremettero, l' intero legno fu scosso da un tremito: una carie biancastra si allargò veloce dalla ferita disgregando il duro legno, mentre la corteccia si sollevava e staccava in scaglie; il fogliame assunse un colore grigio e poi marroncino, mentre le olive quasi mature imbrunivano e raggrinzivano svuotandosi della polpa e cadevano a quintali in una cascola che fece nero il terreno. Lasciandosi alle spalle l' albero morto, monito per gli abitanti di quelle terre, gli otto si divisero, prendendo strade diverse. Quattro proseguirono a nord, verso il fiume che chiamavano Linnosante, uno si allontanò da solo, tre cavalcarono attraverso le terre dei Torod, raggiungendo le masserie più grandi e ricche, le fortezze dei signori riottosi al governo del Conte, bussando in piena notte alle loro porte, raggelando il sangue delle guardie coi loro aliti venefici. I feroci mastini da guardia ringhiavano rizzando il pelo, sentendoli avvicinare, uggiolavano e guaivano non appena i cavalli neri scalpitavano oltre le massicce porte sprangate, per andare a nascondersi in angoli bui. I bambini cominciavano a piangere nel sonno mentre tremebondi, incapaci di resistere alla loro voce, i guardiani aprivano le porte, e non appena ne varcavano le soglie le puerpere perdevano il latte e i bambini che ancora dovevano nascere morivano e dissecavano nel grembo delle loro madri.
Fu così che vennero ricevuti dai signori dei Torod, dai proprietari terrieri e dai capitani di soldati, uomini orgogliosi, la pelle bruciata dal sole del Sud, le mani callose per l' uso di attrezzi agricoli e armi, gli occhi scuri ardenti di una brama mai sazia e i cuori recalcitranti ad ogni volontà che non fosse la loro. Nel cuore della notte, accerchiati da uomini tremanti sussurrarono parole di ribellione, sibilarono minacce, blandirono cuori avidi e malvagi, parlando di terre libere dal giogo nordico, di strade libere dai dazi e facili accessi ai porti dei mercati più ricchi, di stazioni di posta e fortilizi custoditi dai Torod e non dai soldati del Conte, di libero sfruttamento dei canali di irrigazione, di nessuna tassa da pagare al nord. Fecero breccia con le lusinghe, e con la paura per i meno convinti, prospettarono un futuro difficile per chi non si fosse schierato, profetizzarono calamità e malattie che avrebbero devastato i frutteti, e quando lasciarono quelle terre, dopo molte notti, il germe della ribellione covava nei cuori dei possidenti mai soddisfatti.
Il cavaliere solitario lasciò i possessi dei Torod al galoppo veloce, e quando l' ultimo gigantesco olivo fu scomparso alle sue spalle fu nelle Lande dei Vagabondi. Nessuna maledizione era stata scagliata su quelle terre, ma da sempre povere di acqua e spazzate dai secchi venti impietosi generati dalla fucina ardente del Deserto Meridionale, non avevano mai generato che poche forme di vita: cespugli spinosi dalle bacche tossiche, erbe grasse dai fiori colorati, piccoli ed esili alberi coperti di spine e incapaci di fare ombra, erbe coriacee nella stagione umida e piccole palme dai datteri insapori intorno ai rari pozzi e ai bacini celati fra alte e impervie pareti di roccia scura. Quando i Torod si erano insediati oltre il Rivoscuro vi avevano ricacciato i branchi di sciacalli e le primitive bande di Vagabondi, oltre a tante altre creature sanguinarie e orribili, impedendo loro di lasciarne i confini e relegandoli ad una vita di stenti e fame, di lotte e incursioni per rubare cibo e catturare prigionieri da divorare nei loro macabri festini. Cani e sciacalli avvertirono il passaggio del cavaliere, annusarono il sangue nella sua scia e presero a riunirsi in grandi branchi chiassosi e famelici. Il cavaliere raggiunse una grande grotta da cui si levava denso il lezzo di escrementi e putrefazione. Dietro di lui si assiepavano le fiere dalle lingue penzolanti, gli occhi gialli e le zanne luccicanti. Ringhi, uggiolii e guaiti fecero da accompagnamento a parole simili al vento che struscia sulla sabbia, a una voce secca e scricchiolante: dal buio emerse una figura enorme, un orco possente e feroce, un mangiatore di uomini. Ammaliato da quella voce, irretito dalla similarità del suo cuore con quello immobile del cavaliere, recepì gli ordini e si avviò per la sua missione, attraversando il mare di corpi pelosi che si aprivano a fargli ala, per richiudersi dopo il suo passaggio e seguirlo in un unico branco compatto. Il cavaliere rimase a guardare il mostro che camminava verso nord, seguito dai feroci e affamati canidi, come se la Morte marciasse sulla terra seguita dalle anime dannate dell' Ade. Pieno di feroce soddisfazione riprese la sua cavalcata, in cerca delle bande di Vagabondi, trovandole accampate nelle desolazioni spazzate dal vento, abitanti di tende di pelle malamente conciata, armati di clave e asce di pietra, lance dalla punta d' osso e frombole di cuoio, rissosi e cattivi, incapaci di controllarsi davanti al sangue, inarrestabili una volta scatenati, superstiziosi e paurosi di fronte a ciò che non comprendevano, incuranti della morte propria o altrui. Conoscevano solo la legge del più forte, perciò fu facile sottometterli e riunirli, convincerli e indirizzarli, e poi guidarli in una decisa marcia verso il Rivoscuro.
Intanto gli altri quattro cavalieri avevano passato il Rivoscuro, guadandolo dove l' acqua era più lenta, e poi si erano lasciati alle spalle le coltivazioni dei Torod per lanciarsi in una cavalcata sfrenata attraverso le spopolate Pianure Maggiori. Come erano cambiate quelle terre dai tempi in cui le avevano percorse alla testa del loro esercito: non più ruscelli, laghi e acquitrini, canneti e paludi, ma solo sterminate distese di erba e, qua e là, piccoli boschi di alberi secolari di specie sconosciute. Raggiunsero il Travolgirivo, profondo e dal corso impetuoso, dall' estuario pieno di piccoli villaggi di pescatori. Risalendone il corso giunsero ad un ponte, che attraversarono di notte, quando nessuno li vedeva, e continuarono a cavalcare velocemente verso nord, raggiungendo la costa e le pianure che dividono il mare dai colli Tsabor, là dove questi si assottigliano ed abbassano, fino a scomparire, per lasciare posto ai Gabor, divisi da quest' ultimi solo da un' ampia valle chiamata Passo dei Mandriani. Ed ancora chilometri e chilometri, percorsi a dorso di quelle misteriose e instancabili creature simili a cavalli, ma i cui occhi di fiamma ne negavano tale natura; chilometri e chilometri viaggiando solo di notte alla luce delle stelle, silenziosi e veloci come il vento.
Ed ecco i Porti Luminosi, città luccicanti nate sulla riva del mare, che si tengono strette agli ultimi crinali dei Colli di Gabor, con le loro case dai tetti piatti e dai colori chiari; e dalle mura che si stendono seguendo le ondulazioni del terreno, basse e robuste, interrotte ogni tanto da torri tronco coniche dai cui pennoni ondeggiano bandiere rosse e blu, verdi e bianche. I moli sono linee nitide nell' azzurro cristallino delle acque della baia, barche e piccole navi sono attraccate agli ormeggi, mentre rapide e letali triremi dall' aspetto maestoso e gigantesche navi mercantili lente e capienti attendono all' ancora nella rada. Gli uomini nelle loro vesti colorate si muovono come piccole, alacri formiche, visti così da lontano: camminano veloci sui moli e le banchine, indaffarati intorno alle navi agli ormeggi o sugli ingressi dei magazzini; affollano le Vie degli Artigiani, nel centro antico della città, si accalcano sulle piazze del grande bazar dai tendoni variopinti. E le loro grida si uniscono e salgono al cielo, mescolandosi coi belati e muggiti provenienti dal mercato degli animali posto appena fuori delle mura: il Dio ascolta tutto ciò, ma nella città nessuno presta attenzione a ciò che può pensarne; forse, solo i casti preti dal capo rasato che vivono nei monasteri sui colli lo fanno, nelle ore di digiuno trascorse stesi sui pagliericci, o durante il tempo delle preghiere, inginocchiati all' ombra molle dei freschi boschetti, o durante le notti stellate mentre passeggiano e meditano per i giardini profumati cullati dalle dolci brezze dei colli.
In una terra antica come la Contea, la Costa dei Porti Luminosi ne è una delle parti più antiche, una terra di traffici intensi coi popoli di strani paesi che sono oltre il mare. I marinai vi hanno portato merci pregiate che nessuno conosceva, e opere d' arte e statue e vasellame dalla strana foggia; e libri e studiosi, armi e animali, nuovi metodi di uccidere e conoscenze segrete per curare; hanno portato nuove lingue e nuove preghiere, schiavi e donne dalla pelle bruna, rossiccia e gialla, con le loro arti amatorie e il loro modo di adorare spiriti benigni e altre più inquietanti entità. Tutto questo ha cambiato la gente dei Porti Luminosi, ed essa ha cambiato il luogo in cui vive, erigendo nuovi edifici dalle linee architettoniche innovative, chiamando artigiani stranieri per scolpire e incidere le pareti dei luoghi sacri. Maestosi affreschi hanno colorato le pareti e le cupole dei palazzi dei Signori, strade lastricate collegano le varie città, statue di spiriti dal ventre gonfio sostano lungo di esse all' ombra di cespugli dai piccoli fiori bianchi. Gli uomini ricchi e le loro donne godono dei colori e dei profumi di giardini senza eguale, abbelliti di pergole di uva fragola e glicine, di bianche colonne marmoree e statue di animali, di giochi d' acqua e sentieri lastricati, prati verdi e aiuole di rose di ogni colore; i loro bambini giocano alle ombre dei giganteschi cedri che hanno impiegato il tempo di cinque generazioni d' uomo per crescere, o intorno ai laghetti in cui nuotano carpe gigantesche e cigni candidi, e si rincorrono per i vialetti di ghiaia colorata delimitati da siepi sempreverdi fra i richiami dei pavoni e i canti di uccelli esotici.
Lo Spirito del Dio è divenuto debole in quei luoghi, i quattro re risorti lo possono avvertire. Gli abitanti dei Porti gli hanno lasciato poco spazio nel loro cuore, ammaliati dalle bellezze della vita e da culti stranieri dotati di grande fascino. Quello stesso Spirito che li guidò alla vittoria in un tempo quasi dimenticato non potrà proteggerli dalla loro vendetta. E così partono, come segugi sull' usta, attirati da quei cuori che più facilmente presteranno loro ascolto: anime contorte, represse, che celano anche a se stessi nel buio dei loro cuori desideri e brame troppo sconvenienti per essere confessati. Uno dei quattro scende verso i centri abitati, due si allontanano nelle campagne, l' ultimo prosegue verso nord.
Una voce si leva nel buio della notte, l' aria diventa improvvisamente stagnante e afosa, parole antiche di una lingua maledetta e dimenticata parlano ai cittadini nel sonno, li irretiscono violando i loro sogni. La follia si impossessa di chiunque presti orecchio a quella voce, sobillando attraverso le allucinate visioni indotte dalle droghe, istigando con le urla di rabbia, invidia e odio, confondendo nel sonno fumoso dell' alcol o nella disperazione di chi non ha più lacrime da versare. E così la notte cittadina viene sconvolta dalla violenza, che corre per le strade e le bagna di sangue: tutte le guarnigioni sono chiamate a fronteggiare l' emergenza, e fino all' alba sono urla e grida, sangue e dolore, pazzia e sconcerto, fiamme, cenere, sudore e paura. All' alba non c' è più nessuno nelle strade, tutto è silenzio, rotto solo da pianti solitari che giungono da nascondigli sventrati. Ma al calar del sole è ancora la folle rabbia, nuovamente furti, omicidi, violenza. I roghi di fuoco e invidia sono accesi.
Ed è in questo clima di terrore che dei messi vengono inviati a Norges, per chiedere l' aiuto del Conte. E lungo il cammino trovano campi incendiati, oppure distese di piante marcite, e greggi falcidiate dalle epidemie sparse per i pascoli, mandrie impazzite al punto da procurarsi la morte con folli corse verso baratri o contro edifici. I messi, ovunque volgano lo sguardo, vedono solo morte e disperazione: laghi in cui galleggiano interi branchi di maiali, cadaveri d' uomini e donne al bordo della strada straziati dai cani randagi, contadini con lo sguardo disperato perso nel vuoto, bambini che piangono dimenticati da tutti, donne che li guardano passare con occhi imploranti.
Infine giungono a Norges e sono ricevuti dal Conte, insieme ad altri messi che sono appena arrivati dal Meridione. "I Torod sono insorti", stanno raccontando, "hanno sopraffatto con l' inganno le guarnigioni: hanno trucidato tutti gli uomini. Le carovane di mercanti di passaggio sono state depredate, i villaggi vicini alle loro terre assaliti e dati alle fiamme, le donne prese con la violenza, i bambini venduti come schiavi.
"E Bande di Vagabondi hanno lasciato le lande desolate, attraversando indisturbati il Rivoscuro e sciamando nelle terre orientali: gli abitanti sono fuggiti davanti alla loro avanzata, solo per finire tra le fauci di uno smisurato branco di sciacalli e cani selvatici, che i sopravvissuti hanno detto guidato da un grande orco."
E fu durante la descrizione di questi massacri che un cavaliere giunse al castello del Conte: aveva sfiancato il cavallo, che giunto di fronte al palazzo era stramazzato a terra, coperto di schiuma e la bava alla bocca. Anche l' uomo non aveva un bell' aspetto, scarmigliato e sporco, gli occhi spiritati. Arrivava dalla costa che si stendeva a nord dei Porti Luminosi: "Veloci navi cariche di guerrieri sono scese dall' Esvenia", disse, "tutta la costa è a ferro e fuoco. Dov' è l' esercito del Conte", chiese, "perché il popolo ha bisogno di aiuto."
In mezzo alla disperazione si levò la voce del Conte, calma, sicura, imperiosa. "Tutte le guarnigioni siano allertate", disse. "Richiamate ogni uomo che abbia impugnato un' arma, e preparate una richiesta di soccorso da inviare al Re. Armate la cavalleria perché respinga i Vagabondi nelle loro sterili terre, inviate la fanteria pesante sulle coste perché riporti l' ordine. Chiameremo in soccorso la flotta del Re perché respinga le navi del Nord, e la mia guardia personale punirà gli avidi Torod."
Ma fu a questo punto che un vecchio vigoroso fece il suo ingresso nella sala del trono. Vestiva di sacco, la sua barba era incolta, ed un bordone nodoso cadenzava il suo passo. "Non essere stolto", disse, "come pensi di fermare le malattie che falcidiano la campagna, e come credi di riuscire a spegnere la follia che infiamma i tuoi sudditi?
"Un nemico potente e sconosciuto ti si è rivolto contro, un nemico di cui non conosci gli scopi, come pensi di poterlo affrontare? Credi forse che ti aspetterà sul campo di battaglia, che ti si mostrerà in regolar tenzone?"
"E tu, Uomo del Dio, conosci il nome di questo nemico?" chiese il Conte.
"Il suo nome no", fu la risposta, "perché é un nome maledetto, che nessuno deve più pronunciare, ma i suoi scopi vendicativi sì. E posso dirti che già una volta lo abbiamo affrontato, in un' epoca remota. Venne contro i padri dei nostri padri con grandi eserciti e possenti carri da guerra, invocando il nome di idoli insanguinati e laidi demoni. La disperazione lo precedeva, la paura vinceva per lui le sue guerre. Cercava schiavi da sacrificare alle sue malvage divinità. Ma i nostri padri lo affrontarono col coraggio e con la fede, forti dello Spirito del Dio. Non riporre fiducia nella velocità dei tuoi cavalli, o nella forza delle spade e degli scudi: il nemico è infido, e con ben diverse armi devi affrontarlo."
"Che devo fare? "chiese il Conte ai suoi consiglieri. "Le parole dell' Uomo di Dio non sono prive di senso, ma come si può riporre fiducia in ciò che non vediamo?"
"Non ascoltarlo", dissero i più giovani. "Hai uomini fidati al tuo servizio, i migliori armaioli del regno, e le tue stalle sono piene dei destrieri più veloci. Quale nemico può resisterti?"
"Bada alle sue parole", dissero invece i più anziani. "Malattia e pazzia sono armi che nessun esercito può sconfiggere. E poi, cosa vorresti fare? Devastare il Meridione più di quel che hanno fatto i Torod? Costruire mura lungo tutta la tua costa? I Vagabondi hanno forse città da cingere d' assedio? Chi coltiverà i campi, se mandi tutti gli uomini in battaglia: non è forse tempo per la semina del frumento e dell' orzo, e chi poterà le vigne quando sarà il momento? Chi riparerà le strade per far giungere i mercanti dell' Oriente? Ascolta l' Uomo del Dio, confida nel Dio e le tue terre saranno salve. Volgigli le spalle e nessuno ti potrà proteggere da chi già é stato maledetto."
All' alba del giorno successivo l' Uomo del Dio tornò. "Quali sono i tuoi consigli?" chiese il Conte.
"Non le mie parole, ma gli ordine del Dio devi ascoltare. Ricorda la sua legge, che così facilmente il tuo popolo ha dimenticato, ricorda le regole che vi hanno portato prosperità. Ristabilisci la Sua legge in ogni casa ed Egli affronterà per te i tuoi nemici e ti chiamerà a dividerne le spoglie.
"Invia cento cavalieri a sud, lungo la pista chiamata Strada dei Cornioli; invia i tuoi genieri sulla costa, privi di scorta alcuna, perché ricostruiscano ciò che è stato danneggiato e abbattano tutti gli idoli che troveranno; e spandi i tuoi artigiani per le campagne: che riparino i santuari del Dio e i suoi altari vengano nuovamente eretti. Dopo attendi il decimo giorno."
E il Conte obbedì a ciò che l' Uomo del Dio gli aveva detto, mentre la sua corte bisbigliava. La follia si è impadronita del Conte, dicevano tutti, mentre il Conte digiunava e faceva cordoglio. Cento cavalieri contro i Torod che ne hanno massacrati più di duemila? E i Vagabondi e gli sciacalli, chi li ricaccerà? E i genieri affronteranno le navi pirata con i loro compassi e i metri? Nei meandri del castello della Città Antica i sussurri divennero trame ordite per usurpare il potere. Di nascosto vennero fatte circolare armi fra i congiurati, e ognuno di loro si ripeteva in cuor suo di farlo per il bene della Contea, che l' interesse personale non aveva ruolo alcuno, e che si doveva agire prima che la senilità del Conte portasse tutti alla rovina. E fu la sera del nono giorno che entrarono silenziosi nelle camere del Conte, decisi ad ucciderlo.
E già accerchiavano il letto del Conte quando un colpo secco sul pavimento li fece sussultare. Due figure cupe uscirono dall' ombra dell' angolo più buio. Una lanterna fu aperta e la sua luce colpì i cospiratori.
"Ecco di che razza di consiglieri ti sei circondato", disse l' Uomo di Dio al Conte. "La loro lingua è come miele, ma il loro cuore stilla assenzio.
"I vostri cuori neri stanno chiamando su di voi il vostro giudizio."
E come queste parole furono pronunciate tutti i congiurati caddero a terra morti. I loro corpi privi di vita e senza alcun segno di violenza furono restituiti alle famiglie, insieme al racconto delle guardie: "C' era l' Uomo di Dio col Conte", dissero, "Era venuto ad avvertirlo che avrebbero cercato di ucciderlo. Ma non ha voluto che nessuno di noi rimanesse, ci ha fatti allontanare. E quando ci ha richiamato erano tutti morti. Rimandateli dai loro parenti, ha detto, che vedano l' operato del Dio in questa piccola cosa perché credano nelle grandi."
Coi lutti e i timori trascorse la nona notte e giunse l' alba del decimo giorno, quello che l' Uomo di Dio aveva detto di attendere. Il sole stanco dei primi giorni d' inverno si levò sui prati ingialliti, illuminando le pietre grigie e cupe della Città Antica. I frutteti spogli e scoloriti erano ornati da diademi scintillanti fatti di gocce d' acqua prigioniere nelle tele di ragno; le fratte e i campi dissodati fumavano, sotto i piedi dei passanti il fango ghiacciato scricchiolava ricordando a tutti che erano vivi. I galli di tutta la città e delle campagne all' intorno, dopo aver taciuto tutta la notte, come se anche loro fossero in trepida attesa del nuovo giorno, avevano preso a cantare alle prime luci grigie e non avevano più smesso; i cani dietro gli usci abbaiavano festosi; stormi di passeri cinguettavano sulle mura della cittadella; nei pascoli i cavalli sgroppavano giocosi nitrendo al sole che si levava. Tutta la città era come sospesa, attendendo il compimento della promessa fatta.
Per primi comparvero i cento cavalieri mandati a sud. Portavano una ventina di uomini legati, presi prigionieri, dissero, sulla Strada dei Cornioli. Erano i capi della rivolta Torod. Li avevano sorpresi isolati dai loro soldati, da cui erano rimasti divisi durante una razzia. Sicuri e arroganti non avevano ritenuto di correre rischi in una terra che consideravano loro proprietà e i cavalieri del Conte erano piombati sul loro accampamento col buio che precede l' alba, catturandoli senza colpo ferire. Dopo il rientro dei cavalieri fu tutto un giungere di notizie da ogni luogo, per quel giorno e i successivi: un messaggero arrivò dalle coste del nord, raccontando di una procella improvvisa scatenatasi molto prima della stagione delle tempeste, che si era abbattuta sulla flotta di pirati esveni. Quando i venti si erano placati e le piogge esaurite, della flotta rimanevano solo pochi assiti infranti che galleggiavano tra i flutti: il mare non aveva restituito altro che pochi pezzi di legno. Dalle campagne giunsero gli agricoltori e i pastori: ovunque i santuari ed altari del Dio venivano ripristinati le epidemie si fermavano, i campi smettevano di marcire, il bestiame malato guariva. Erano venuti per chiedere al Conte che inviasse Uomini di Dio nei loro villaggi perché insegnassero loro quale fosse il giusto modo di adorare il Dio di cui si erano dimenticati. Dal meridione giunsero dei mercanti stranieri: portavano la testa coperta di pece di un grosso orco del quale non si era mai visto l' eguale. Lo avevano trovato morto ai bordi delle steppe e a un giorno di distanza sciacalli, lupi e cani selvatici erano sparsi in un carnaio immondo mescolati ai Vagabondi contro i quali avevano lottato fino alla morte. La Piana dell' Aneto era completamente coperta da una nube di mosconi, dissero, e qualunque viaggiatore accorto avrebbe fatto bene ad evitarla per molti mesi, fin quando le formiche e i corvi non avessero finito di spolpare le ossa delle centinaia di carogne. Una delegazione dei Torod arrivò dalle terre oltre il Rivoscuro: offrivano la loro resa incondizionata e si affidavano alla clemenza del Conte. Infine ritornarono i genieri dai Porti Luminosi: raccontarono degli idoli che avevano fatto a pezzi, delle statue di legno smaltato che avevano dato alle fiamme, e di come ogni casa e ogni strada liberata dal suo idolo tornasse alla normalità. Era come se un velo cadesse dagli occhi di uomini e donne, la follia li lasciava e tornavano lucidi, rendendosi conto di ciò che avevano commesso. Avevano lasciato le città a seppellire i loro morti, ma nuovamente alacri e all' opera per ripristinare ciò che avevano distrutto.
Così l' autunno era passato sopra la Contea, una terra antica, terra di un popolo che si era adagiato nella propria prosperità. Dal Nord si levò il freddo vento dell' inverno, araldo della nuova stagione, la stagione del sonno e del riposo, che prepara la terra ad una nuova rinascita. Il vento impetuoso attraversò le valli delle montagne Brumafredda, percosse i boscosi altopiani e i Colli Tsabor, insinuò le sue stilettate nelle strette vie dei Porti Luminosi, diradando finalmente l' acre odore dei roghi e della morte. E nella voce del vento i re risorti udirono un richiamo e una condanna. Il primo degli otto fu colto tra le scogliere dell' Esvenia, là dove aveva sobillato i pirati nordici a veleggiare verso sud: le forti folate gli strattonarono il nero mantello, mentre la sua cavalcatura si dissolveva come fumo; la brace dei suoi occhi palpitò, lottando per non spegnersi, poi solo oscurità rimase sotto il cappuccio e il suo corpo secco si ridusse in cenere per essere trasportato via dal vento. Il secondo re fu ghermito mentre si aggirava sperso e inascoltato nelle vie dei Porti Luminosi: afferrato dalle raffiche di vento, venne sbattuto contro i muri e gettato a terra, consumato fino a che nulla ne rimase. Poi il vento sorvolò le campagne, dove trovò altri due re accanto ai roghi delle carcasse del bestiame morto di carbonchio, istupiditi dalla loro sconfitta. Continuando il suo volo il vento portò le fredde carezze dell' inverno sulle Pianure Maggiori, e un invito che non prevedeva il rifiuto trasportato sulle sue ali fino alle Terre dei Torod per i tre re rimasti, così che si riunissero nel vento alla cenere dei primi quattro. L' ultimo lo trovò alla Piana dell' Aneto, al centro di un carnaio come non ne erano mai stati visti, provocato dall' incontro fortuito fra due gruppi di creature sanguinarie. Tutti e otto furono presi dal vento, vento che li riportò ai luoghi da cui erano giunti, dove li disperse definitivamente.
Fu un inverno particolarmente freddo quell' anno. Abbondanti nevicate caddero sulle Brumafredda, seppellirono le rovine delle fortezze abbandonate giungendo fino ai Colli Tsabor, chiudendo il Buoncammino e le altre strade sugli altopiani, imbiancando il paesaggio intorno alla Città Antica; il ghiaccio strinse nella sua morsa laghi e fiumi, trasformandoli in piste per i pattini dei bambini; nelle foreste la nebbia ghiacciava sui rami degli alberi e lo schianto del legno che si spezzava risuonò per giorni nel silenzio della natura addormentata; i promontori e le torri di avvistamento sulla costa furono spazzati da venti freddi e taglienti, che portavano il sapore salato del mare e ne sbattevano con rabbia le grigie onde su spiagge e scogliere; i Prati degli Antichi furono imbiancati dalla brina e punte di ghiaccio scintillante pendevano dai merli dei fortini che vi sorgevano; la pioggia che cadeva lieve gelava e il ghiaccio avvolse in un abbraccio trasparente il nord della Contea.
Anche sulle Terre dei Torod, regione dal clima temperato, cadde la brina ad imbiancare i campi coltivati a grano e gli orti, le vigne e i boschi di olivi e pistacchi. La vita rallentò in tutta la Contea, quell' inverno, fin quasi a fermarsi. La popolazione si scaldò con le scorte di legna che aveva preparato e consumò le riserve di cibo accantonate appositamente, meditando su ciò che era capitato, riscoprendo la fede perduta e accettando le conseguenze che i fatti dell' autunno avevano portato. Dopo l' inverno sarebbe tornata la primavera, si dicevano l' un l' altro. E con essa una nuova opportunità.
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