Il mio nuovo
corso lavorativo con la ditta presso cui sono assunto è cominciato con un
periodo in cui sono stato letteralmente “parcheggiato” al Jubilee Garden, quel
giardinetto pieno di bambini chiassosi, turisti che spargono spazzatura ovunque,
artisti di strada che si esibiscono sul lungo-Thames e scippatori che girano su
bici in fibra di carbonio adocchiando le borse della gente. Il tutto all’ombra
di quella che è la ruota panoramica chiamata London Eye, una trappola per
turisti che offre “the most boring forthy minutes of your life” alla modica
cifra di 25 sterline e di una lunga attesa in coda prima di poter salire.
Il lavoro al
Jubilee Garden è quanto meno stressante: abbiamo a che fare con la maleducazione
della gente, che sporca, non rispetta le regole e distrugge il lavoro che
facciamo quasi in tempo reale. Turisti o locals, nessuna categoria fa eccezione.
Ma, ovviamente, là dove passa molta gente, c’è anche la possibilità di fare
incontri davvero interessanti. Questa settimana ne ho fatti due, e molto
particolari.
Il primo
incontro è stato Samuel. Samuel, un ivoriano che ha studiato letteratura
moderna, lavora al Jubilee Garden per la compagnia Veolia, che ha rilevato
dalla mia ditta l’appalto per la pulizia del giardino. Insomma, ora è compito
loro raccogliere i quintali di spazzatura, pulire i vetri delle bottiglie rotte
dagli idioti, staccare i chewing gum dai viali, rimuovere il vomito e talvolta
gli escrementi prodotti dai festaioli della movida notturna londinese che,
ubriachi fradici, vengono a spendere le ore piccole nel giardino. Noi ci
occupiamo solo della parte strettamente orticolturale, adesso.
Dovendo lavorare
nello stesso spazio con un’altra persona, cerco di intavolare una relazione
amichevole da subito, e lo scorso lunedì mattina, alle ore 6 quando entrambi
iniziamo a lavorare, lo saluto e gli pongo alcune domande. Quelle di rito: come
ti trovi a lavorare qui (uno schifo), vivi lontano (a Lewisham – sì, abbastanza
lontano: non è facile arrivare per le 6 am), sei assunto direttamente o lavori
per un’agenzia (agenzia, ovviamente: ormai la maggior parte dei lavori in UK
sono tramite agenzie o a tempo determinato, così i sindacati distrutti dalla
Thatcher non hanno speranza di riformarsi). Circa mezz’ora dopo, quando arriva il
mio collega responsabile per il Jubilee Garden, nel corso di una nuova
conversazione, viene fuori che sono italiano. Al che Samuel comincia a parlarmi
in un ottimo italiano. Costretto dalla crisi, è partito per Londra dopo 22 anni
vissuti in Italia, fra Napoli, Treviso e Padova. Portando con sé dell’Italia un
ricordo splendido. E non solo. Nel momento in cui si arriva all’inevitabile
fase in cui ci si racconta come ci troviamo a Londra, Samuel se ne esce fuori
con: -No, ogni volta che parlo con altri italiani che sono venuti qui come
me, mi dicono sempre che si trovano male. Non è come credevamo.
-No-, ribatto
io. –Non è come ci avevano detto. Che è una cosa diversa.
-Hai ragione-,
dice annuendo, con la comprensione che gli compare negli occhi. –Non è come ci
avevano detto.
E andando avanti
a parlare arrivo a spiegare le ragioni del perché io ho lasciato l’Italia.
-Io non sono
scappato dalla crisi-, gli dico. –Sono scappato dalla mentalità degli italiani.
-Nooo-, mi fa
scuotendo la testa, con l’espressione di un cane bastonato. –Non cominciare ad
offendermi di primo mattino.
A quel punto ho
realizzato: Samuel si sente italiano.
Soltanto il
giorno dopo, faccio il secondo incontro: Cedric. Nel pomeriggio vengo
approcciato da una coppia di ragazzi, uno cinese e l’altro chiaramente europeo,
che mi chiedono, per voce del cinese, dove possano trovare un supermercato o un
negozio comunque economico per comprare qualcosa da bere. Do loro le
indicazioni opportune, con tre opzioni possibili, ed ho appena finito di
spiegare dove possono andare quando l’europeo mi chiede da dove vengono.
-Italy-,
rispondo, e indovinate. Inizia a parlarmi in italiano. Nato e cresciuto in
Venezuela in una famiglia italiana, Cedric sta studiando inglese a Dublino ed
era a Londra in visita, tifa Juventus, studia per diventare ufficiale di flotta
mercantile, ha vissuto per un breve periodo nel Lazio con la madre prima di
tornare a Caracas ed è legato indissolubilmente alle tradizioni italiane che il
nonno ha tramandato nella famiglia. Cedric si sente italiano.
Cedric non può
essere definito italiano al 100%, e ancor meno Samuel. In fondo in fondo sono
degli stranieri, no? Ma chi, cosa è uno straniero? E’ uno straniero una persona
che ritiene l’Italia la sua terra? E’ uno straniero una persona che sente le
tradizioni italiane come proprie? Ma forse faremmo meglio a chiederci: chi,
cosa è un italiano?
Gli italiani, in
genere, non si sentono italiani. Ci definiamo fiorentini, siciliani, milanesi,
abruzzesi. Diventiamo italiani solo quando siamo all’estero. Se non
apparteniamo a quella categoria indegna di chi si vergogna di essere italiano.
Là dove gli italiani per nascita e territorio non si sentono italiani, o
addirittura si vergognano di esserlo, gli “stranieri”, oriundi o italiani per
adozione, ivoriani, venezuelani o rumeni, si sentono molto più italiani di noi.
Quando nel 1861 Vittorio Emanuele II proclamò la nascita del Regno d’Italia,
Camillo Benso Conte di Cavour disse: “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare
gli italiani.” Se fosse ancora vivo, ci starebbe tutt’ora lavorando.
Chissà, forse
sarà proprio grazie a questi “italiani d’importazione”, stranieri che hanno
trovato accoglienza in qualche modo e si sono legati all’Italia, che riusciremo
ad andare oltre alle divisioni, a mettere da parte le forme più stupide e
perniciose di campanilismo, e a trovare quel filo che unisce, nonostante tutte
le differenze delle macro e micro regioni che compongono la penisola, il nord
fino al sud e alle isole lungo la dorsale appenninica. Un filo rosso fatto di
modi di sentire, di cultura e storia, del modo di amare e anche di odiare, di
paure ed egoismi, di folklore ed amore per il buon cibo e del desiderio di
sorseggiare un bicchiere di vino con gli amici in una sera di estate, dello “schiocco del sole nel campo di grano” e della canicola sulla spiaggia d’agosto. Tutte
quelle cose che ci sembrano così diverse da regione a regione quando siamo a
casa nostra, ma che ci sembrano così uguali a noi che, volenti o nolenti,
viviamo a Londra.
O a Searcy.
ReplyDeleteGiusto :) Sempre stranieri in terra straniera siamo.
ReplyDeleteIo poi..
ReplyDelete