Thursday 3 April 2014

Samuel e Cedric



Il mio nuovo corso lavorativo con la ditta presso cui sono assunto è cominciato con un periodo in cui sono stato letteralmente “parcheggiato” al Jubilee Garden, quel giardinetto pieno di bambini chiassosi, turisti che spargono spazzatura ovunque, artisti di strada che si esibiscono sul lungo-Thames e scippatori che girano su bici in fibra di carbonio adocchiando le borse della gente. Il tutto all’ombra di quella che è la ruota panoramica chiamata London Eye, una trappola per turisti che offre “the most boring forthy minutes of your life” alla modica cifra di 25 sterline e di una lunga attesa in coda prima di poter salire.
Il lavoro al Jubilee Garden è quanto meno stressante: abbiamo a che fare con la maleducazione della gente, che sporca, non rispetta le regole e distrugge il lavoro che facciamo quasi in tempo reale. Turisti o locals, nessuna categoria fa eccezione. Ma, ovviamente, là dove passa molta gente, c’è anche la possibilità di fare incontri davvero interessanti. Questa settimana ne ho fatti due, e molto particolari.
Il primo incontro è stato Samuel. Samuel, un ivoriano che ha studiato letteratura moderna, lavora al Jubilee Garden per la compagnia Veolia, che ha rilevato dalla mia ditta l’appalto per la pulizia del giardino. Insomma, ora è compito loro raccogliere i quintali di spazzatura, pulire i vetri delle bottiglie rotte dagli idioti, staccare i chewing gum dai viali, rimuovere il vomito e talvolta gli escrementi prodotti dai festaioli della movida notturna londinese che, ubriachi fradici, vengono a spendere le ore piccole nel giardino. Noi ci occupiamo solo della parte strettamente orticolturale, adesso.
Dovendo lavorare nello stesso spazio con un’altra persona, cerco di intavolare una relazione amichevole da subito, e lo scorso lunedì mattina, alle ore 6 quando entrambi iniziamo a lavorare, lo saluto e gli pongo alcune domande. Quelle di rito: come ti trovi a lavorare qui (uno schifo), vivi lontano (a Lewisham – sì, abbastanza lontano: non è facile arrivare per le 6 am), sei assunto direttamente o lavori per un’agenzia (agenzia, ovviamente: ormai la maggior parte dei lavori in UK sono tramite agenzie o a tempo determinato, così i sindacati distrutti dalla Thatcher non hanno speranza di riformarsi). Circa mezz’ora dopo, quando arriva il mio collega responsabile per il Jubilee Garden, nel corso di una nuova conversazione, viene fuori che sono italiano. Al che Samuel comincia a parlarmi in un ottimo italiano. Costretto dalla crisi, è partito per Londra dopo 22 anni vissuti in Italia, fra Napoli, Treviso e Padova. Portando con sé dell’Italia un ricordo splendido. E non solo. Nel momento in cui si arriva all’inevitabile fase in cui ci si racconta come ci troviamo a Londra, Samuel se ne esce fuori con: -No, ogni volta che parlo con altri italiani che sono venuti qui come me, mi dicono sempre che si trovano male. Non è come credevamo.
-No-, ribatto io. –Non è come ci avevano detto. Che è una cosa diversa.
-Hai ragione-, dice annuendo, con la comprensione che gli compare negli occhi. –Non è come ci avevano detto.
E andando avanti a parlare arrivo a spiegare le ragioni del perché io ho lasciato l’Italia.
-Io non sono scappato dalla crisi-, gli dico. –Sono scappato dalla mentalità degli italiani.
-Nooo-, mi fa scuotendo la testa, con l’espressione di un cane bastonato. –Non cominciare ad offendermi di primo mattino.
A quel punto ho realizzato: Samuel si sente italiano.

Soltanto il giorno dopo, faccio il secondo incontro: Cedric. Nel pomeriggio vengo approcciato da una coppia di ragazzi, uno cinese e l’altro chiaramente europeo, che mi chiedono, per voce del cinese, dove possano trovare un supermercato o un negozio comunque economico per comprare qualcosa da bere. Do loro le indicazioni opportune, con tre opzioni possibili, ed ho appena finito di spiegare dove possono andare quando l’europeo mi chiede da dove vengono.
-Italy-, rispondo, e indovinate. Inizia a parlarmi in italiano. Nato e cresciuto in Venezuela in una famiglia italiana, Cedric sta studiando inglese a Dublino ed era a Londra in visita, tifa Juventus, studia per diventare ufficiale di flotta mercantile, ha vissuto per un breve periodo nel Lazio con la madre prima di tornare a Caracas ed è legato indissolubilmente alle tradizioni italiane che il nonno ha tramandato nella famiglia. Cedric si sente italiano.

Cedric non può essere definito italiano al 100%, e ancor meno Samuel. In fondo in fondo sono degli stranieri, no? Ma chi, cosa è uno straniero? E’ uno straniero una persona che ritiene l’Italia la sua terra? E’ uno straniero una persona che sente le tradizioni italiane come proprie? Ma forse faremmo meglio a chiederci: chi, cosa è un italiano?
Gli italiani, in genere, non si sentono italiani. Ci definiamo fiorentini, siciliani, milanesi, abruzzesi. Diventiamo italiani solo quando siamo all’estero. Se non apparteniamo a quella categoria indegna di chi si vergogna di essere italiano. Là dove gli italiani per nascita e territorio non si sentono italiani, o addirittura si vergognano di esserlo, gli “stranieri”, oriundi o italiani per adozione, ivoriani, venezuelani o rumeni, si sentono molto più italiani di noi. Quando nel 1861 Vittorio Emanuele II proclamò la nascita del Regno d’Italia, Camillo Benso Conte di Cavour disse: “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani.” Se fosse ancora vivo, ci starebbe tutt’ora lavorando.
Chissà, forse sarà proprio grazie a questi “italiani d’importazione”, stranieri che hanno trovato accoglienza in qualche modo e si sono legati all’Italia, che riusciremo ad andare oltre alle divisioni, a mettere da parte le forme più stupide e perniciose di campanilismo, e a trovare quel filo che unisce, nonostante tutte le differenze delle macro e micro regioni che compongono la penisola, il nord fino al sud e alle isole lungo la dorsale appenninica. Un filo rosso fatto di modi di sentire, di cultura e storia, del modo di amare e anche di odiare, di paure ed egoismi, di folklore ed amore per il buon cibo e del desiderio di sorseggiare un bicchiere di vino con gli amici in una sera di estate, dello “schiocco del sole nel campo di grano” e della canicola sulla spiaggia d’agosto. Tutte quelle cose che ci sembrano così diverse da regione a regione quando siamo a casa nostra, ma che ci sembrano così uguali a noi che, volenti o nolenti, viviamo a Londra.


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