Saturday 30 December 2017

Élites

E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.

"Le rivoluzioni le fanno le élites" sento ripetere come un mantra, e con sempre maggior frequenza, da alcuni anni a questa parte. Lo intonano quelle persone che aspettano la rivoluzione contro l'austerità europea. E certo, non c'è rivoluzione che non sia stata guidata, apertamente o celatamente, da questa o quella élite. Ma quando mai le élites si sono mosse se non per loro diretto interesse? Se voi siete a conoscenza di un caso in cui l'intervento sia stato umanitario e disinteressato fatemelo presente. E, personalmente, non vedo perché questa volta dovrebbe essere differente. Certamente, è possibile che gli interessi di una élite coincidano in parte con quelli del popolo, e il nemico del mio nemico è il mio amico. Ma il mio pensiero, anche se nel nostro caso si tratta di una élite nostrana contro una élite apolide, non può che andare al coro dell'atto terzo dell'Adelchi di Manzoni, e in particolare alle sue ultime strofe:

Domani, al destarvi, tornando infelici,
Saprete che il forte sui vinti nemici
I colpi sospese, che un patto troncò.
Che regnano insieme, che sparton le prede,
Si stringon le destre, si danno la fede,
Che il donno, che il servo, che il nome restò.

Quindi, mi raccomando: stat've accuorti guagliò!

 Coro dell'Atto III ripristinato nella sua originaria integrità.
I versi stampati in corsivo sono quelli che mancano all’Adelchi,
quale venne pubblicato vivente l’autore,
in obbedienza ai voleri della Censura austriaca.

Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l’orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de’ padri la fiera virtù:
Ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d’un tempo che fu.

È il volgo gravato dal nome latino
Che un’empia vittoria conquise e tien chino
Sul suol che i trionfi degli avi portò;
Che, in torbida voce, qual gregge predato,
Dall’Erulo avaro nel Goto spietato,
Nel Vinnulo errante, dal Greco passò.

S’aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Era tema e desire, s’avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De’ crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.

Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l’usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.

E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d’ignoto contento,
Con l’agile speme precorre l’evento,
E sogna la fine del duro servir.

Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.

Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all’addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de’ pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.

A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell’armi le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d’amor.

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz’orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durar:
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le freccie fischiando volar.

E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
Por fine ai dolori d’un volgo stranier?
Se il petto dei forti premea simil cura,
Di tanto apparecchio, di tanta pressura,
Di tanto cammino, non era mestier.
Son donni pur essi di lurida plebe,
Inerme, pedestre, dannata alle glebe,
Densata nei chiusi di vinte città.
A frangere il giogo che i miseri aggrava,
Un motto dal labbro dei forti bastava;
Ma il labbro dei forti proferto non l’ha.

Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Stringetevi insieme l’oppresso all’oppresso,
Di vostre speranze parlate sommesso,
Dormite fra i sogni giocondi d’error.

Domani, al destarvi, tornando infelici,
Saprete che il forte sui vinti nemici
I colpi sospese, che un patto troncò.
Che regnano insieme, che sparton le prede,
Si stringon le destre, si danno la fede,
Che il donno, che il servo, che il nome restò.

La storia del venerdì: i Longobardi e la questione meridionale

Comincia oggi una rubrica settimanale di storia e che, come si deduce dal nome, uscirà ogni venerdì. Composta di brevi riassunti di fatti storici, più o meno curiosi, che, senza la pretesa di essere lavori approfonditi, nascono con l'intenzione di dare al lettore una concisa conoscenza di fatti che non gli sono noti, di particolarità che la scuola dell'obbligo non ha la possibilità di esplorare, o che tale scuola ha insegnato erroneamente, vuoi per ignoranza auto-rigenerata vuoi per calcolo politico. Ognuno dei post di questa rubrica verrà ripubblicato durante il fine settimana tradotto in inglese. Buona lettura.



E' l'anno 569 d.C.: guidati da re Alboino, i Longobardi hanno lasciato la Pannonia ed invadono l'Italia attraverso il Friuli. Logorata dal ventennio della guerra greco-gotica, che aveva visto contrapposto l'Impero di Giustiniano al regno italiano degli Ostrogoti, da epidemie e carestie, la società romana dell'Italia non è in grado di opporre alcuna resistenza all'invasione. I Longobardi si insediano senza alcun piano e in modo difforme in tre aree: nella Pianura Padana, in Toscana, e nei territori di Spoleto e Benevento. Le coste, l'entroterra di Ravenna, la Pentapoli, Roma con una fascia di castelli che la collega alla costa adriatica e le Isole rimangono sotto il dominio bizantino.
I Longobardi, una società militare frammentata da disaccordi interni, fra le più rozze, definita dagli storici contemporanei “ferocemente estranea” a quella romana, sono cristiani ariani i capi (l'arianesimo era stato dichiarato eresia sin dal 325), pagani i popolani. Il loro insediamento in Italia ha un impatto violento sui romani: l'aristocrazia latifondiaria viene dispersa e le sue terre sequestrate dai capi militari, che si trasformano così in una aristocrazia terriera; stessa sorte è destinata ai beni della Chiesa Cattolica, che vengono assegnati alle chiese ariane.
La situazione per i romani migliora dopo la conclusione del periodo di conquista e riorganizzazione, ma soprattutto dopo che i Longobardi abbracciano il cattolicesimo, con un processo iniziato dalla conversione di re Agilulfo e sua moglie Teodolinda nel 591 e completato con l'abolizione dell'arianesimo da parte di re Ariperto nel 653. Nell'VIII sec. le due società sono ormai etnicamente mescolate e, sotto re Liutprando (712-744), trovano un ulteriore consolidamento.
E proprio Liutprando, approfittando della debolezza imperiale e di un sollevamento popolare nel 727, scatenato dalla lotta iconoclasta dell'imperatore Leone III, attacca e sottrae alcuni territori a Bisanzio. Parte di questi territori sono poi donati al papato, vuoi per riconoscerne il ruolo politico ormai acquisito, vuoi per tenerselo buono. Quando, però, i re Astolfo prima e Desiderio poi, riprendono, nella seconda metà del secolo, l'espansione ai danni di Bisanzio, è proprio il Papa che invoca l'aiuto dei Franchi. Franchi che intervengono più volte a contrastare i Longobardi, sottraendo prima loro alcuni territori che pure sono donati al papato, e ponendo per ultimo fine al Regno Longobardo nel 774 con Carlo Magno, che annette il Nord Italia al suo regno. Il Regno Longobardo continua ad esistere, semplicemente sottomesso ai Franchi ma senza che niente cambi nella sua struttura. I ducati di Benevento e Spoleto evitano l'occupazione e resistono fino alla conquista normanna, completata nel 1076 con la presa di Salerno.

L'occupazione longobarda e poi la loro sottomissione da parte dei Franchi ebbero due conseguenze che tutt'ora affliggono l'Italia. La prima è la nascita del potere temporale dei papi con l'acquisizione di un territorio prioprio, grazie alla donazione di Liutprando nel 728 cui si aggiunse quella dei pipinidi nel 756. La seconda conseguenza fu la divisione del territorio italiano in due parti il cui sviluppo e culture procedettero indipendentemente e a velocità differenti, e che non sarebbero più state riunite fino XIX sec.: era nata la questione meridionale.

Monday 25 December 2017

Labyrinth of Dreams





Down a long-forgotten path,
Woodland nymphs and fairies dwell
Within a secret sanctuary,
Untouched by Queen Sinistra's spell -
The mystic Labyrinth of Dreams
Lies beyond their ancient gate,
And deep within this endless maze,
A hidden treasure lies in wait -
For at the very heart and centre,
Lies the fabled Crystal Key -
But all who dare to seek this prize
Are lost for eternity -
This hidden key must be retrieved
To break the spell of endless gloom -
Yet none who enter have returned
From deep within this maze of doom -



(Associated poem from the booklet)


Tuesday 19 December 2017

At the end of the journey



Sembra che sia giunto alla fine del percorso, che abbia raggiunto il centro e fine del Labirinto. E non c'è niente, qui. Solo un vicolo cieco, vuoto e spoglio, dove il vento d'inverno ha ammucchiato poche foglie secche, memorie inutili di giorni passati. E in piedi di fronte a questo muro disadorno rimango, ciò che serviva per pagare il passaggio speso e perso, consumato lungo il cammino.

It seems I'm at the end of the path, the centre and end of the Labyrinth. And there's nothing here. Just an empty and bare dead end, where the wintery wind piled up few dead leaves, useless memories of the days past. Standing in front of this plain wall I stay, the passage toll spent or lost, worn along the journey.

Wednesday 13 December 2017

Credimi, tu non vuoi essere mio amico

Mi lascia perplesso, esterrefatto la tendenza inconscia di certe persone a questa sorta di suicidio emotivo. Da chi gode della mia capacità di pungere, di toccare le persone nei loro punti deboli che inutilmente cercano di nascondere, a chi, spinto dalla mia palese sofferenza, decide di salvarmi, sono innumerevoli le persone che come avvoltoi sono discese per nutrirsi della mia carcassa. Ma io sono vivo! Più vivo di voi, povere maschere carnevalesche, che cercate di provare dei sentimenti per procura. E non resterò imbelle a lasciare che voi saziate le vostre perversioni! Ah, e come smettono di ridere quando rivolgo a loro le mie attenzioni, sezionandoli con le parole ed esponendo a loro stessi le loro falsità. E come piangono quando realizzano che io, che loro volevano salvare, quando sono a pezzi sono più forte di loro quando sono integri. Medici incapaci di curare se stessi! 

Credimi, neanche tu vuoi essere mio amico. Non hai la forza né il coraggio per passare attraverso il Tritacarne. E io non ho più pietà da spendere per gli ignavi. Stammi lontano ché è meglio per la tua pace e tranquillità. Tieni la tua vita lontano da me e sarai più sereno. Se poi quella vita sarà fatta di sostanza o di apparenza, io non lo so. E neanche me ne curo, fintanto che non incrocerai per sbaglio il mio cammino.