E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All’opere imbelli dell’arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l’antico;
L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
"Le rivoluzioni le fanno le élites" sento ripetere come un mantra, e con sempre maggior frequenza, da alcuni anni a questa parte. Lo intonano quelle persone che aspettano la rivoluzione contro l'austerità europea. E certo, non c'è rivoluzione che non sia stata guidata, apertamente o celatamente, da questa o quella élite. Ma quando mai le élites si sono mosse se non per loro diretto interesse? Se voi siete a conoscenza di un caso in cui l'intervento sia stato umanitario e disinteressato fatemelo presente. E, personalmente, non vedo perché questa volta dovrebbe essere differente. Certamente, è possibile che gli interessi di una élite coincidano in parte con quelli del popolo, e il nemico del mio nemico è il mio amico. Ma il mio pensiero, anche se nel nostro caso si tratta di una élite nostrana contro una élite apolide, non può che andare al coro dell'atto terzo dell'Adelchi di Manzoni, e in particolare alle sue ultime strofe:
Domani, al destarvi, tornando infelici,
Saprete che il forte sui vinti nemici
I colpi sospese, che un patto troncò.
Che regnano insieme, che sparton le prede,
Si stringon le destre, si danno la fede,
Che il donno, che il servo, che il nome restò.
Saprete che il forte sui vinti nemici
I colpi sospese, che un patto troncò.
Che regnano insieme, che sparton le prede,
Si stringon le destre, si danno la fede,
Che il donno, che il servo, che il nome restò.
Quindi, mi raccomando: stat've accuorti guagliò!
Coro dell'Atto III ripristinato nella sua originaria integrità.
I versi stampati in corsivo sono quelli che mancano all’Adelchi,
quale venne pubblicato vivente l’autore,
in obbedienza ai voleri della Censura austriaca.
Dagli
atrii muscosi, dai Fori cadenti,
Dai
boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai
solchi bagnati di servo sudor,
Un
volgo disperso repente si desta;
Intende
l’orecchio, solleva la testa
Percosso
da novo crescente romor.
Dai
guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual
raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce
de’ padri la fiera virtù:
Ne’
guardi, ne’ volti confuso ed incerto
Si
mesce e discorda lo spregio sofferto
Col
misero orgoglio d’un tempo che fu.
È
il volgo gravato dal nome latino
Che
un’empia vittoria conquise e tien chino
Sul
suol che i trionfi degli avi portò;
Che,
in torbida voce, qual gregge predato,
Dall’Erulo
avaro nel Goto spietato,
Nel
Vinnulo errante, dal Greco passò.
S’aduna
voglioso, si sperde tremante,
Per
torti sentieri, con passo vagante,
Era
tema e desire, s’avanza e ristà;
E
adocchia e rimira scorata e confusa
De’
crudi signori la turba diffusa,
Che
fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti
li vede, quai trepide fere,
Irsuti
per tema le fulve criniere,
Le
note latebre del covo cercar;
E
quivi, deposta l’usata minaccia,
Le
donne superbe, con pallida faccia,
I
figli pensosi pensose guatar.
E
sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai
cani disciolti, correndo, frugando,
Da
ritta, da manca, guerrieri venir:
Li
vede, e rapito d’ignoto contento,
Con
l’agile speme precorre l’evento,
E
sogna la fine del duro servir.
Udite!
Quei forti che tengono il campo,
Che
ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son
giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser
le gioie dei prandi festosi,
Assursero
in fretta dai blandi riposi,
Chiamati
repente da squillo guerrier.
Lasciar
nelle sale del tetto natio
Le
donne accorate, tornanti all’addio,
A
preghi e consigli che il pianto troncò:
Han
carca la fronte de’ pesti cimieri,
Han
poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron
sul ponte che cupo sonò.
A
torme, di terra passarono in terra,
Cantando
giulive canzoni di guerra,
Ma
i dolci castelli pensando nel cor:
Per
valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron
nell’armi le gelide notti,
Membrando
i fidati colloqui d’amor.
Gli
oscuri perigli di stanze incresciose,
Per
greppi senz’orma le corse affannose,
Il
rigido impero, le fami durar:
Si
vider le lance calate sui petti,
A
canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron
le freccie fischiando volar.
E
il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe,
o delusi, rivolger le sorti,
Por
fine ai dolori d’un volgo stranier?
Se
il petto dei forti premea simil cura,
Di
tanto apparecchio, di tanta pressura,
Di
tanto cammino, non era mestier.
Son
donni pur essi di lurida plebe,
Inerme,
pedestre, dannata alle glebe,
Densata
nei chiusi di vinte città.
A
frangere il giogo che i miseri aggrava,
Un
motto dal labbro dei forti bastava;
Ma
il labbro dei forti proferto non l’ha.
Tornate
alle vostre superbe ruine,
All’opere
imbelli dell’arse officine,
Ai
solchi bagnati di servo sudor.
Stringetevi
insieme l’oppresso all’oppresso,
Di
vostre speranze parlate sommesso,
Dormite
fra i sogni giocondi d’error.
Domani,
al destarvi, tornando infelici,
Saprete
che il forte sui vinti nemici
I
colpi sospese, che un patto troncò.
Che
regnano insieme, che sparton le prede,
Si
stringon le destre, si danno la fede,
Che
il donno, che il servo, che il nome restò.
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