PROLOGO
LA
LEGGENDA DELLA CULLA
Sulla
Terra camminavano le Potestà, forze misteriose i cui poteri erano
sconfinati. Non c'era posto per l'Uomo. L'Uomo viveva nascosto ad
Ovest, vicino al Mare, in quei luoghi dove la sabbia si era mischiata
con le foglie del terebinto e la resina del cipresso, che bagnate
dalla rugiada dettero la vita ai Padri, i Primi Uomini. Quei luoghi
erano chiamati la Culla.
L'Uomo
viveva nascosto nella Culla, e le Potestà camminavano per la Terra.
Le Potestà si combattevano, si divoravano e si distruggevano. Ma non
morivano. Fin quando una Figlia dell'Uomo, Eunoè, si avventurò per
le foreste della Terra. La Belva fiutò il suo odore e la inseguì
per tre stagioni. Alla fine della quarta stagione la raggiunse e la
sbranò per divorarla. Il sangue di Eunoè bagnò le Potestà e fu
così che la Morte fece il suo ingresso nel mondo. Le Potestà
cominciarono a diminuire di numero e gli uomini poterono fare il loro
ingresso nel mondo. Le Potestà cominciarono a scomparire e gli
uomini si propagarono per la terra portando ovunque la Morte.
La
Culla fu dimenticata, la sua strada perduta. E fin quando l'Uomo non
vi farà ritorno la Morte camminerà con lui per le strade del mondo.
Quando
verrà l'Ultima Stagione, che non ha ancora bagnato la terra con le
sue piogge, il vento raccoglierà il corpo di Eunoè, la terra
restituirà il suo sangue e lei berrà l'acqua della sorgente in cui
il cedro affonda le radici. Allora nasceranno nuove generazioni, le
Potestà non potranno incutere loro alcun timore e la notte solleverà
il suo velo rivelando ciò che teneva nascosto. I Figli dell'Uomo,
allora, intraprenderanno la ricerca della strada che conduce alla
Culla.
RUINOR
Anno
704 degli Ultimi Tempi, 531 del Quarto Ciclo Arano
La
guida alzò un braccio e tirò le redini del cavallo. Immediatamente
anche il gruppo che seguiva arrestò le sue cavalcature, fra il
rumore sordo degli zoccoli che colpivano e strusciavano sul terreno
cotto e indurito dal sole, il tintinnio delle briglie e delle armi e
i nitriti di protesta dei cavalli. Davanti ai sette uomini si ergeva
la muraglia verde scuro della giungla, e sul suo confine le rovine di
un antico forte eretto con pietre non squadrate. Intorno al forte era
ancora visibile la traccia lasciata da un fossato ormai interrato dal
tempo.
-Questo
è il confine di Ruinor-, disse la guida, incurante della nube di
polvere che aleggiava sopra di loro e che copriva di una patina
grigia la sua pelle nera come il giaietto.
Ruinor,
il Portatore di Rovina, l'Impero degli Uomini Neri, che fino a cinque
secoli prima aveva dominato tutte quelle terre per centinaia di
chilometri in ogni direzione, punendo con la distruzione chi osava
tentare la ribellione. Ora il Portatore di Rovina era caduto. Finito
l'oro delle miniere di Profundia, esauriti i diamanti di
Tan-ghejlàsh, Ruinor non aveva più potuto far fronte all'opulenza
della sua corte imperiale, dello stuolo di dignitari e alla vastità
degli Eserciti dei Distruttori. La fine era arrivata di colpo. Le
guarnigioni di guardia ai confini, non pagate, si erano vendute come
mercenari, le poche rimaste fedeli erano state ritirate all'interno
dell'Impero. Ruinor si era affidato alla giungla e alla povertà per
la sua sicurezza.
Gli
antichi servitori non avevano cercato vendetta, ed avevano lasciato
l'Impero al suo volontario isolamento, disinteressandosi
completamente di ciò che accadeva nelle profondità della giungla.
Le terre che erano state le Province Esterne dell'Impero erano troppo
impegnate ad amministrare adeguatamente la riottenuta libertà per
darsi pena di ciò che facevano gli aguzzini decaduti. Alcune voci
erano giunte dalla foresta: parlavano di guerra civile, dicevano che
l'Imperatore aveva condannato a morte più della metà dei Signori
della Distruzione, i generali di Ruinor. Le ultime notizie parlavano
di Akal-ghejlàsh, la capitale, assediata. Poi più niente. Ancora
dopo cinquecento anni nessuno sapeva quale fosse stato il destino di
Ruinor. L'Impero era scomparso inghiottito dalla foresta; ne
rimanevano solo i ruderi delle fortezze di confine, ammassi pietrosi,
torri diroccate, muri crollati.
Un
guerriero nero fece avanzare il suo possente cavallo da guerra fino
ad affiancare quello della guida. Il suo nome era Tasej-dan.
-Si
sono infilati la dentro?- chiese.
Lo
stallone scartò, cercando di mordere l'altro cavallo, ma Tasej-dan
lo bloccò strattonando le redini, con un gesto incurante, che però
fu capace di tirare indietro la testa del destriero. Quando la guida
fu riuscita a calmare il suo cavallo spaventato rispose.
-Di
sicuro.- Il suo sguardo era fisso su un punto della muraglia verde
vicino alle rovine, dove si intravedeva una pista, forse ciò che
rimaneva di una delle antiche strade lastricate che conducevano nel
cuore dell'Impero. -Guarda. Quelle sono le impronte lasciate dai loro
cavalli, che vanno verso est. Non sono più marcate come prima: non
hanno carico.
"Hanno
abbandonato i cavalli e si sono addentrati nella foresta.
Il
grido di una pantera, giungendo dal folto della vegetazione,
sottolineò le parole della guida. Tasej-dan si tolse l'elmo, per
asciugarsi il sudore che gli imperlava il cranio rasato. Fece un
cenno ed uno dei guerrieri gli si affiancò.
-Dosuj,
tu rimarrai coi cavalli. Trovati un riparo fra quelle rovine ed
aspetta per quattordici giorni. Poi fai ritorno a Donglaj e riferisci
al Supremo che la missione è fallita.
Senza
attendere risposta Tasej-dan scese da cavallo, raccolse le sue armi e
l'equipaggiamento che i Codici dei Primi stabilivano che uno
Shaghèj-tugàh, un Portatore di Morte, non abbandonasse mai. Quindi,
preceduto dalla guida e seguito dagli altri quattro uomini, si
incamminò verso la giungla.
Quando
le ombre verdi della foresta li ebbero inghiottiti, il guerriero
Dosuj condusse i cavalli verso le rovine, tirandoli per la cavezza.
La pantera si fece sentire ancora, ma sembrava essersi allontanata.
Ben presto il calore del giorno sarebbe scemato, mentre il pomeriggio
inoltrato diventava sera e poi notte. Il buio doveva trovarlo al
riparo e con un fuoco acceso, si disse, perché non conosceva i
pericoli della foresta.
Mahaban
faceva da guida negli intricati meandri vegetali della foresta. Lo
seguiva Osul-dan, il Portatore di Morte, un sacerdote temorita
addestrato ad uccidere fin dall'età di sette anni, e che già aveva
concluso i sette cicli di sette anni di addestramento e crescita
nell'arte di portare la morte. Il sette era il numero sacro di Mogur,
il Dio Massacratore, la divinità suprema in tutto Tèmor. Portava
con sé tutto il bagaglio prescritto dai Codici dei Primi e da cui
uno Shaghèj-tugàh non doveva separarsi neanche quando fosse stato
costretto ad abbandonare il suo cavallo da guerra. La sera prima si
era dipinto un teschio bianco sul volto, cosa che gli Shaghèj-tugàh
facevano solo prima di combattere. Per i suoi compagni ciò non era
un buon segno, perché significava che il sacerdote-guerriero si
aspettava di essere raggiunto dagli inseguitori da un momento
all'altro.
Alle
spalle di Osul-dan camminava Eunoè la strega, Signora del Lete e che
fu sposa di Anjej Kèlsh ibn-Kadàr, il Sacerdote Nero dell'Azazel.
La seguivano Vass e Saghèl, yezdamiti dalla pelle olivastra,
Alterazioni e guardie del corpo di Eunoè fin dall'inizio del suo
esilio a Yezdam.
Mahaban
si arrestò all'improvviso, si guardò intorno e si immerse tra dei
cespugli carichi di bacche violastre. Gli altri lo seguirono fino ad
una piccola radura formatasi intorno al tronco di un gigantesco
albero i cui rami disposti a raggiera erano poco più alti di un
uomo. Vicino al fusto erano ammassate numerose fascine di legna da
ardere.
-Ci
accampiamo qua-, disse Mahaban. -Tra poco sarà buio.
Dosuj
stava per coricarsi quando un moto di nervosismo fra i cavalli lo
mise sul chi vive. Afferrò il giavellotto e si pose in ascolto,
cercando di afferrare un rumore che non armonizzasse coi versi degli
animali notturni o delle fronde mosse dal vento. Si era accampato
all'interno di un recinto in pietre circolare, alto quasi cinque
metri e praticamente integro. L'accesso era una stretta apertura da
cui aveva faticato a far passare i cavalli, e che aveva richiuso con
un intreccio di rami e cespugli spinosi. Gettò del combustibile sul
fuoco per aumentarne la fiamma e puntò il giavellotto verso
l'entrata. Un attimo dopo udì uno scricchiolio poco oltre i
cespugli. A quel punto si aspettava che una qualche fiera, forse la
stessa pantera che aveva udito quel pomeriggio, cercasse di entrare.
Ma lo scricchiolio si ripeté in posizione diversa.
Da
dove era arrivato il rumore? Dosuj cercò invano di capirlo, confuso
ulteriormente da un terzo scricchiolio giunto da un punto diverso
ancora. Che stava facendo quella bestia? Guardò i cavalli e li vide
con le orecchie stese all'indietro. Ci fu un lungo silenzio, durante
il quale neanche gli uccelli notturni si fecero sentire. I cavalli,
però, erano sempre più inquieti: avevano cominciato a scalpitare,
strattonando le cavezze e cercando di morderle, mentre roteavano gli
occhi in preda al terrore. Il rumore fatto dai cavalli gli impediva
di capire gli spostamenti della fiera. Che stava facendo la pantera?
Forse se ne era andata. Il fuoco! Il fuoco l'aveva fatta desistere.
Se si trattava della pantera. Ma come faceva ad esserne sicuro?
Poi
percepì un quarto scricchiolio. Da dove era arrivato? da dove? Alto!
Dall'alto! Troppo tardi: Dosuj, alzando lo sguardo, fece appena in
tempo a vedere un'ombra più nera della notte che cadeva su di lui.
Nella
notte si levarono le urla del guerriero, i nitriti dei cavalli
frammisti ai colpi dei loro corpi che sbattevano contro le pareti di
pietre e poi un ruggito che non aveva nulla a che spartire con quello
di alcuna fiera.
-Dosuj è morto.
Tutti
guardarono Tasej-dan che sedeva su un tronco, gli occhi fissi nelle
braci del fuoco. Le fiamme facevano scintillare i suoi occhi e
tingevano di rosso la tintura che si era da poco spalmato sul viso,
creando un teschio sporco di sangue.
Tasej-dan
annuì, senza distogliere lo sguardo dal fuoco.
-Ho
avuto una visione, Asul. Una visione strana, come non mi capitava da
molti anni. Ed ho udito un grido che giungeva da molto lontano: era
la voce di tuo fratello. Mi spiace, sono sicuro.
Ci
fu un momento di silenzio, poi fu Asul a parlare.
-E'morto
con onore?
-Il
suo avversario era troppo forte. E troppo abile.- Non disse che era
convinto che non fosse umano. Tasej-dan sollevò lo sguardo sui due
uomini bianchi che il Supremo gli aveva detto di proteggere alla loro
partenza da Donglaj. -Domani combatteremo. Non so se raggiungeremo
quelli che stiamo inseguendo o se sarà ciò che abbiamo alle spalle
a raggiungerci prima. Prima del tramonto di domani verrà versato del
sangue, state tutti saldi e pronti perché non sia il nostro.
-Agun.-
Gli occhi duri del Portatore di Morte si fissarono sulla guida. -Si
dice che tua madre fosse un'abitante della giungla, e anche il tuo
nome è un nome straniero. Tu devi conoscere Ruinor meglio di noi.
La
guida scosse il capo, nervoso. -Ruinor dorme, e dobbiamo fare in modo
che continui a farlo. Era guidato da forze oscure e malefiche. Se
dovessimo incontrarle e perderemo soltanto la vita potremo ritenerci
fortunati.
-Ivar.-
Un sussurro. Ivar si girò nel suo giaciglio, guardando il suo
compagno. Asul montava la guardia al di là del fuoco.
-Cosa
c'è?- rispose sussurrando a sua volta.
-Cosa
credi che ci sia di vero in ciò che dicevano?
-Non
lo so. E ora neanche mi importa.
-Qualcosa
di vero deve esserci. Quella donna dice di essere Eunoè.
-E'
solo un'impostora. Sono passati quasi trent'anni dalla morte di Zel,
come può essere Eunoè?
-Ma
se esistono forze...
-Taci!
E lasciami dormire.
Ivar
si rigirò e non prestò più attenzione all'altro. Di lì a poco
anche Mor cercò di prendere sonno, però senza riuscirci.
Forze
oscure e malvagie. Che dormono nel profondo della giungla da
cinquecento anni. Doveva trattarsi senz'altro di superstizioni. Ma
era proprio necessario correre il rischio di scoprire che non lo
erano? Sì, era necessario, perché Eunoè... la donna che diceva di
essere Eunoè... si stava addentrando nella foresta in cerca
dell'aiuto non di quelle forze sconosciute ma dell'ultima delle Orde
di Distruzione, i famosi eserciti ruinoriani.
Osul-dan
attendeva. Il suo respiro si esalava in sintonia con quello della
foresta. Ai suoi lati percepiva la presenza dei due yezdamiti, celati
tra i cespugli, creature sempre meno umane, alterate da un rituale
fin quasi all'anima. Oppure la loro anima era stata soltanto messa in
luce?
Vass
aveva un respiro simile al sibilo di un serpente. La pelle gli si era
ricoperta di scaglie e due protuberanze si erano formate sui lati
della testa e del collo, uguali a quelle del serpente delle terre
dello Yezdam. Quell'uomo era doppio e velenoso come il serpente in
cui era stato alterato, ma era stato reso così dall'Alterazione
oppure l'Alterazione aveva portato allo scoperto la sua vera natura?
Saghèl
si agitò inquieto. Osul-dan maledisse la stolidità del Toro,
l'Alterazione del secondo yezdamita. Per la sua impazienza l'agguato
poteva fallire.
Poi
i nemici comparvero, camminando veloci su un tratto non ancora
inghiottito dalla vegetazione di un'antica strada lastricata. Vicini,
sempre più vicini. Osul-dan strinse l'impugnatura della spada,
pronto a balzare allo scoperto e colpire non appena fossero giunti ad
una distanza tanto ridotta da non avere più il tempo di reagire. Ma
Saghèl scattò troppo presto. Con un muggito rabbioso si lanciò
alla carica, testa bassa e le corna taurine rivolte verso i nemici.
Osul-dan
bestemmiò il suo dio e si lanciò all'attacco sulla scia del Toro.
Passarono solo tre secondi prima che incrociasse la spada con la sua
nemesi, Tasej-dan. In quel momento un guerriero urlò, infilzato
sulle corna del Toro.
Ivar
arretrò nel momento in cui le lame dei due Portatori di Morte si
incrociarono. Anuth urlava incornato dal Toro, Mor si guardava
intorno stupito, senza capire, mentre Asul e Agun attaccavano
l'Alterazione su due lati. Ma dov'era l'altro? Dov'era il Cobra?
Quando
lo vide sbucare dai cespugli non poté fare niente per aiutare Asul.
I denti velenosi dell'uomo-bestia gli affondarono nella spalla,
mentre la spada di Asul lo colpiva ad un fianco. Ivar puntò la sua
balestra e premette il grilletto, sprofondando il dardo nella testa
del Cobra, in mezzo agli occhi. Il Cobra barcollò, lasciando andare
Asul. Mor scagliò i suoi coltelli, conficcandone tre nella gola del
serpente e uno in una gamba del Toro. Con un muggito Saghèl gli
scagliò Anuth contro, poi si voltò e si tuffò nel folto della
foresta, seguito da Osul-dan.
Calò
il silenzio. Asul era un cadavere, orribilmente gonfio a causa del
veleno; Anuth boccheggiava, incapace di urlare, e le sue budella
erano sparse sulle pietre antiche. Tasej-dan pose fine alla sua
agonia con un preciso colpo alla gola, poi raggiunse Ivar accanto al
Cobra morto. Il dardo di balestra era affondato fino alle piume, ed
Ivar cercava invano di estrarlo.
-Quando
due Shaghèj-tugàh si affrontano, Mogur proibisce le frecce-, disse
Tasej-dan.
Ivar
sollevò lo sguardo su di lui fissando i suoi occhi minacciosi.
-Nessuno
si intrometterà nella tua faida-, gli rispose. -Nessuno vuole rubare
a Mogur uno spirito che gli spetta, neanche quello di un traditore
della Visione come Osul-dan. Ma tu non intrometterti nella mia lotta.
Tasej-dan
non rispose, continuando a fissare ancora per un po' Ivar negli
occhi, forse cercandovi un segno di paura o debolezza. Non trovandovi
nulla del genere soffocò la sua rabbia e gli voltò le spalle
allontanandosi.
Mor
si avvicinò ad Ivar. -Sei pazzo? Quello ti ammazza!
-Non
preoccuparti: so come trattare coi Portatori di Morte. Ho già avuto
a che fare con loro.
-A
sì? Un mese fa dicevi di non essere mai stato a Tèmor.
-A
Lankhmar c'erano molti mercenari tèmoriani.
-Questa
è la giungla, non una nebbiosa e puzzolente città del Nord.
-Obbedirà
agli ordini del Supremo, non può fare diversamente. Non ha alcuna
scelta.
Osul-dan
e Saghèl si fermarono per medicarsi le ferite.
-Avevi
detto che non ci sarebbero state armi da lancio!- inveì lo yezdamita
tornato umano.
-Frecce.
Ho detto frecce-, rispose Osul-dan reprimendo la rabbia che voleva
sfogare sull'altro. -Sei stato colpito da un pugnale, non da una
freccia.
-Vass
è stato ucciso da una freccia!
-Uno
degli stranieri ha trasgredito i Codici. C'era da aspettarselo. Per
questo Tasej-dan non ci ha inseguiti mentre fuggivamo.
Saghèl
bestemmiò tra i denti, pieno di rabbia, conscio che il disastro era
stato sfiorato a causa dell'incontrollabilità della sua Alterazione.
-Raggiungiamo
Mahaban, adesso?- chiese quando ebbe terminato gli improperi che
conosceva.
-No-,
rispose il nero distogliendosi dai suoi pensieri: un'Alterazione
perduta contro due semplici guerrieri uccisi era un bilancio
tutt'altro che favorevole per quello scontro. -Dobbiamo far perdere
tempo a Tasej-dan. Lo condurremo su una pista più lunga che Mahaban
mi ha spiegato come trovare. Lui ed Eunoè devono avere il tempo di
giungere ad Akal-ghèjlàsh per parlare coi Sacerdoti e convincerli.
-Convincerli
di cosa? Non sono dalla nostra parte?
-Non
è detto. Mahaban dice che sono tipi molto strani, che cambiano idea
senza apparente ragione.
-Mahaban
è o non è un Signore della Distruzione?
-A
Ruinor le cose non sono mai state semplici. E del resto sembra che ad
Akal-ghèjlàsh gli equilibri oscillino continuamente.
Saghèl
sbuffò sprezzante. -E se i Sacerdoti non si fanno convincere?
-Lasceranno
che a risolvere la questione sia il Serpente Piumato.
Eunoè
e Mahaban entrarono ad Akal-ghèjlàsh alle prime luci del ventesimo
giorno da che avevano varcato i confini della foresta. Fasci di luce
verde penetravano attraverso le fronde degli alberi, rivestendo di
una innaturale immobilità le gloriose rovine della capitale di
Ruinor. I palazzi di marmo verde e nero li osservarono avanzare in
silenzio con occhiaie che erano finestre vuote e, lentamente, quella
strana simbiosi di palazzi diroccati e lussureggiante vegetazione li
inghiottì, disorientando Eunoè con le sue geometrie sfuggenti e le
strade celate da grovigli di cespugli e felci e angolature illusorie.
Agli
occhi di Eunoè Akal-ghèjlàsh era definitivamente morta. Un tappeto
di erba verde e spesso e soffice muschio aveva ricoperto il
lastricato delle strade; i tetti delle case erano crollati, o erano
stati sfondati da contorti alberi dal legno scuro e umido; i giardini
invasi da palme svettanti o cespugliose, felci e orchidee e altre
piante epifite; i portici celati da cascate di liane gigantesche; i
vestiboli pieni di terriccio di foglie in cui avevano messo radice
innumerevoli varietà di rampicanti i cui tralci fioriti di bianco,
rosso, rosa o viola, o carichi di frutti arancioni o verdi o neri,
fuoriuscivano dalle finestre e dalla porte per ricoprire le pareti
crepate dei palazzi. Niente faceva pensare che quella città
ospitasse ancora l'Orda di Distruzione come sosteneva Mahaban.
Il
dubbio cominciò a rodere Eunoè. Possibile che avesse fatto male a
fidarsi di Mahaban? Del resto non c'era nessun altro in grado di
aiutarla. Gli Eletti dell'Impero Arano e della Mezzaluna le si erano
rivoltati contro, e a Kartagèn le cose erano andate ancora peggio.
Solo a Tèmor la Società degli Eletti l'aveva accettata, e solo
perché avevano bisogno di ogni aiuto possibile per rovesciare la
gerarchia guerriero-sacerdotale che deteneva il potere dalla
scomparsa dell'Impero di Ruinor.
-Akal-ghèjlàsh
non è morta come credi-, disse Mahaban interrompendo il filo dei
suoi pensieri.
-Davvero?-
rispose con un sorriso sarcastico, che, però, serviva più che altro
a soffocare la rabbia dovuta ad aver lasciato trasparire così
facilmente i suoi pensieri. -A guardarmi attorno direi proprio che lo
è.
Mahaban
la guardò di sottecchi e si limitò a sorridere a sua volta. Ma dopo
una pausa aggiunse: -A guardarti non si direbbe neanche che hai quasi
ottanta anni.
-Infatti
ne ho di più. Molti di più.
Mahaban
annuì. A quella donna non piaceva perdere, si disse. Neanche una
piccola scaramuccia verbale come quella.
-Occorrono
almeno quattro giorni-, disse Mahaban, -camminando di buon passo, per
raggiungere il centro della città da questa periferia. Ti rendi
conto di quanta popolazione contenevano?
-E
se ne sono andati tutti?
-Molti.
Quando l'Impero collassò non fu più possibile far arrivare
abbastanza cibo per tutti, e il commercio morì con l'esaurirsi delle
ricchezze della città. La popolazione tornò ai villaggi di origine
nella foresta o alle piccole città montane nel sud. Molti lasciarono
Ruinor per altre nazioni. Per chi rimase ci fu guerra, fame e
malattie. E si dice che ci fu anche di peggio.
-Di
peggio?
-Sono
i Sacerdoti a raccontarlo. Quegli uomini possiedono una sorta di
memoria collettiva per cui ricordano tutte le esperienze e il sapere
dei loro predecessori. Dicono che le forze che proteggevano Ruinor ci
si rivoltarono contro, rese folli dal sangue umano versato nella
città durante la guerra civile. Creature immonde, abomini
camminarono per queste strade uccidendo e nutrendosi di chiunque
incontravano; nebbie fetide calavano sugli eserciti accampati che
scomparivano nel nulla; la notte si udiva urlare nei palazzi e al
mattino vi si trovavano solo cadaveri disseccati.
-Tu
non ci credi, però.
Mahaban
si strinse nelle spalle. -Sono storie che parlano di molti secoli fa.
E quelle che parlano di poteri occulti che aiutarono i Signori della
Distruzione a creare l'Impero sono ancora più antiche. Se il potere
segreto di cui parlano i Sacerdoti esiste, o sta dormendo o non si
trova più all'interno di questa foresta.
Eunoè
fu contrariata da quelle parole. -Attento al tuo scetticismo:
potrebbe essere la nostra rovina.
Mahaban
sputò per terra. -Il Serpente Piumato è un animale, non un dio. E
l'Orda obbedisce a me, non ai Sacerdoti.
-L'Imperatore
è un mago degenerato, dai gusti sessuali pervertiti. Non si fa mai
vedere fuori del suo palazzo. Anzi, se ne resta sempre chiuso nelle
sue camere con le sue innumerevoli sorelle. Che i Sacerdoti lo temano
sta ad indicare quanto siano deboli.
-Comunque
ci serve ogni aiuto possibile. Ruinor non deve essere divisa
internamente per affrontare Tèmor.
-Non
ti serve Ruinor, ti basta la mia Orda.
-Maledizione!-
Saghèl guardò il Portatore di Morte. -Eunoè e Mahaban sono stati
lenti. Hanno solo mezza giornata di vantaggio.
-Troppo
poco, vero-, grugnì lo yezdamita. -Ce l'abbiamo un'ora su Tasej-dan?
-Un
poco di più, credo. Dobbiamo trovare un luogo in cui affrontarli.
Più
che una piazza sembrava un'arena. Colonne rigate si ergevano lungo
tutta la circonferenza, sorreggendo archi e statue di creature
deformi e mostruose, ibridi di uomini e animali e demoni, alcuni
crollati ma per lo più ancora eretti sebbene corrosi dal tempo. Un
soffice tappeto di muschio verde smeraldo ricopriva tutto il
lastricato.
-Cosa
rappresentano queste statue?- chiese Mor accennando ad esse.
-I
numi protettori di Ruinor-, rispose Agun. -Demoni che gli Imperatori
evocarono con poteri malefici.
-Guardate.
I
due bianchi e Agun seguirono lo sguardo di Tasej-dan. Davanti a loro,
uscito da dietro una colonna, si ergeva Osul-dan.
-Nessuno
si intrometta.
Tasej-dan
avanzò incontro al suo avversario, che attese a piè fermo. I due
erano divisi da poco più di trenta metri quando Osul-dan si lanciò
di corsa oltre il colonnato della gigantesca piazza. Stupito,
Tasej-dan reagì solo dopo un attimo di esitazione, ma si gettò
all'inseguimento dell'altro Shaghèj-tugàh.
-Ehi!
Dove vanno?
Un
muggito malefico si levò a coprire le parole di Mor. I tre si
voltarono e videro il Toro precipitarsi su di loro.
Li
travolse. Agun cadde lontano dal suo giavellotto, Ivar dovette usare
la sua balestra per deviare un colpo di mazza che la fracassò, e Mor
fu afferrato per la gola dalla presa possente dell'Alterazione. Agun
si rialzò prontamente e la sua daga saettò per ritrarsi luccicante
di carminio. Il Toro muggì, agitando le corna, e roteò la mazza in
un arco semi orizzontale. Agun urlò e cadde con un ginocchio
fracassato.
Ivar
scattò. Il Toro gli voltava le spalle, ancora sbilanciato dallo
slancio della pesante mazza e la mano sinistra impacciata da Mor, che
stretto alla gola scalciava a quasi un metro da terra. Ivar saltò,
impugnando la spada a due mani, la punta aguzza rivolta verso il
basso, ed affondandola con tutta la sua forza e il suo peso appena
sopra la scapola sinistra di Saghèl, lacerando la spessa pelliccia
nera e i muscoli duri come acciaio. La lama sprofondò e l'elsa toccò
il pelo scuro, l'odore di animale gli riempì le narici, poi si
mescolò con quello acido e metallico del sangue. Il Toro tremò,
dalla gola gli uscì un verso liquido, soppresso da un colpo di tosse
seguito da un gorgoglio. Barcollò, sporse la lingua rossa e perse la
presa su Mor. Del muco uscì dalle nari, mescolandosi ad un filo di
bava sanguinolento che colò fino a terra. Un secondo brivido ed il
Toro cadde in ginocchio.
Ivar
si accorse solo dopo alcuni secondi che non era più sospeso e che i
suoi piedi toccavano terra. Lasciò la presa sulla spada e si
allontanò dall'Alterazione, che poco dopo piombò a terra faccia in
avanti, la lama della spada incastrata nella cassa toracica.
-Maledizione!-
imprecò Mor tra un colpo di tosse e l'altro.
-Sei
stato fortunato-, disse Ivar, -non lagnarti.
"Agun,
mi dispiace ma dovrai pensare da solo alla tua gamba. Se ci hanno
aspettato è segno che Eunoè non è lontana.
La
guida annuì. -Aspetterò il ritorno di Tasej-dan.
-Bene.
Detto
questo Ivar raccolse alcune provviste, il giavellotto di Agun e
partì, senza dare a Mor il tempo di dire la sua.
Osul-dan
si fermò al centro di una passerella che univa due palazzi e lì
affrontò Tasej-dan.
-Sei
pronto a pagare per i tuoi crimini?- chiese Tasej-dan.
Osul-dan
rise, e la sua risata riecheggiò tra i due giganteschi palazzi in
rovina. -Di quali crimini vai cianciando?
-Parlo
di tradimento!- ruggì Tasej-dan. -Tradimento della Visione e degli
ordini del Supremo! Ti sei venduto ad una società segreta.
Osul-dan
rise ancora più forte. -Sei ancora così giovane e ingenuo,
Tasej-dan? Chi credi che abbia dato a Takèl-dan il titolo di
Supremo? Chi credi che abbia eliminato i suoi avversari e comprato
gli Elettori? Takèl-dan era un membro della Società degli Eletti
prima di tradirci tutti ripudiando Eunoè ed alleandosi per comodità
politica ad altri Eletti degenerati. Lui ha tradito il fine ultimo
della Società a cui aveva giurato abnegazione!
Durante
il breve scambio di battute Tasej-dan aveva osservato attentamente il
luogo e registrato ogni particolare con una pratica di memorizzazione
acquisita con duri addestramenti a cui ogni Shaghèj-tugàh si
sottoponeva. La passerella di marmo bianco era larga tre metri, priva
di ringhiere o altre protezioni, e lunga almeno quindici metri.
Formava un ponte fra i due palazzi e al di sopra di un canale pieno
d'acqua spumeggiante che scorreva una ventina di metri più in basso.
Avendo registrato ogni particolare, ogni minima informazione riguardo
il luogo dello scontro, attaccò lanciandosi in una carica feroce.
Le
due lame cozzarono sprizzando scintille verdi e blu, stridettero, si
liberarono e tornarono ad incrociarsi. I due Shaghèj-tugàh spinsero
con forza le lame una contro l'altra, cercando di valutare quanta
forza fosse rimasta all'avversario dopo tante decadi di fughe e
inseguimenti.
Tasej-dan
fu il primo a disimpegnarsi per mirare un colpo alla testa di
Osul-dan. L'altro parò e fece un passo all'indietro, parò anche la
stoccata successiva, fintò un attacco a sua volta e si allontanò
ulteriormente dall'avversario mentre questi assumeva una posizione
difensiva.
I
due guerrieri si fronteggiarono fissandosi negli occhi. Tasej-dan
prese nuovamente l'iniziativa, slanciandosi ancora in un attacco
violento con l'intenzione di travolgere Osul-dan, ma fu preso in
contropiede. Osul-dan schivò l'affondo abbassandosi sotto la guardia
dell'altro ed effettuando un mezzo affondo che fu solo in parte
deviato dall'armatura di Tasej-dan. A quel punto fu Osul-dan a
prendere l'iniziativa per non perdere il vantaggio acquisito mettendo
a segno il colpo, anche se non poteva valutare l'effettivo danno
inflitto. Effettuando una lunga serie di attacchi inframmezzati a
finte costrinse Tasej-dan ad arretrare di una decina di passi. Era
quasi sul punto di sbilanciarlo pericolosamente all'indietro quando
questi, con una mossa azzardata quanto inaspettata, si bloccò,
sorreggendo col proprio corpo il peso di Osul-dan ed arrestandone
così lo slancio. Preso alla sprovvista Osul-dan non poté reagire
adeguatamente, Tasej-dan riuscì a tenere la posizione e ribaltò la
situazione, respingendo l'avversario con la rotazione della spada in
un mezzo arco dal basso verso l'alto e sollevando la lama di
Osul-dan, che rimase scoperto all'attacco successivo e che per non
essere colpito fu costretto ad indietreggiare, schivando al
millimetro il colpo.
Poi,
improvvisamente, Tasej-dan si trovò proiettato in avanti da un
affondo andato a vuoto, mentre Osul-dan si abbassava su un ginocchio
e puntava la spada verso il suo basso ventre. Impossibilitato ad
arrestarsi Tasej-dan torse il busto in un disperato tentativo di
evitare l'aguzza trappola. Sentì il colpo al fianco, il forte
bruciore e la resistenza della lama che lo strattonava all'indietro.
Poi
tutto accadde in una frazione di secondo. Si rese conto che la lama
di Osul-dan, grazie alla sua torsione, gli aveva trafitto il fianco
talmente a sinistra che non aveva leso neppure il muscolo. In quello
stesso momento Osul-dan gliela torse nella carne per liberarla,
strappandogli quei pochi centimetri di carne che la trattenevano. Con
la coda dell'occhio Tasej-dan vide la lama allontanarsi, portandosi
dietro un ventaglio di gocce color carminio. Tutto si muoveva con una
lentezza innaturale. Lui che volava addosso ad Osul-dan, la spada che
si allontanava alla sua sinistra in un arco rosso. Ignorando il
dolore, ancora mezzo avvitato in aria, completò la torsione e roteò
la spada lungo l'unica traiettoria possibile alla ricerca del braccio
di Osul-dan. Un attimo dopo inciampò nel corpo dell'avversario e
perse il senso della posizione nello spazio.
Colpì
il suolo violentemente, in parte con la schiena e in parte con la
spalla destra, e il colpo gli scosse le ossa. Osul-dan gridò.
Stordito dal dolore e dal colpo contro il suolo Tasej-dan rotolò e
si rialzò, stentando a riacquistare l'equilibrio. D'istinto si
tamponò con la mano sinistra il fianco ferito e recuperò una
precaria posizione difensiva.
In
ginocchio, voltandogli le spalle, Osul-dan si stringeva al petto il
polso mozzato e sprizzante sangue. La sua spada giaceva a pochi
centimetri dal bordo della passerella, con la mano amputata che
ancora la stringeva. Tasej-dan ebbe un momento di smarrimento: non
aveva veramente sperato, in cuor suo, che quella mossa disperata
avesse successo. Poi Osul-dan si voltò a guardarlo, digrignando i
denti come un animale e gli occhi iniettati di sangue e pieni di una
luce malevola. Con un guizzo si lanciò sulla spada, afferrandola con
la sinistra, mentre il moncherino schizzava sangue ovunque. La spada
nuovamente in pugno, Osul-dan si alzò ad affrontare la sua nemesi.
Il dolore aveva acceso nei suoi occhi una luce folle.
-Non
mi avrai! Non sarai tu ad uccidermi!
Un
attimo dopo Tasej-dan lo guardò mentre si gettava nel canale. Si
sporse a guardare, pieno di stupore, ma non vide nulla. L'acqua
spumeggiante lo aveva inghiottito. Tasej-dan si chiese se potesse
essere sopravvissuto a quel tuffo. Al tuffo forse sì, ma ferito e
con l'armatura indosso sarebbe andato a fondo ed affogato.
Agun
si era steccato alla meglio il ginocchio fratturato. Sapeva che non
sarebbe mai guarito completamente, che sarebbe rimasto storpio a
vita. Però, se a tornare fosse stato Osul-dan invece di Tasej-dan,
non avrebbe avuto quel problema.
Udì
un soffio alle sue spalle e si girò, vedendo infine la creatura che
da tanti giorni li seguiva. Sicuramente la stessa creatura che aveva
ucciso Dosuj. Ne aveva sempre avvertito la presenza, alle loro
spalle, ma non si era mai mostrata. Cacciava prede solitarie, chi
rimaneva indietro.
Mentre
la creatura avanzava lenta verso di lui impugnò la daga, sapendo che
non avrebbe avuto nessuna possibilità, anche se fosse stato sano.
Sarebbe morto, ma non gli importava, si rese conto. La cosa non lo
spaventava minimamente. La morte, anche il tipo di morte che gli si
stava prospettando, era preferibile alla vita da storpio.
Udendo
le grida Tasej-dan affrettò il passo, ma quando giunse alla piazza
era già tutto finito. Riconobbe subito per Agun il corpo smembrato e
semi divorato, ma non trovando i corpi di Mor ed Ivar rimase
perplesso. Cosa era accaduto?
Si
avvicinò all'Alterazione morta. Era stata uccisa con la spada di
Ivar. Tasej-dan si meravigliò: nessun uomo poteva avere tanta forza
da riuscire a trapassare con una spada un'Alterazione. Per non
parlare dell'angolazione con la quale era stata affondata la lama: o
il Toro si era messo in ginocchio o Ivar aveva spiccato un salto
davvero notevole.
No,
decise infine Tasej-dan. Come già sospettava Ivar non era un
semplice umano. Qual era il suo segreto?
L'attacco
lo prese totalmente alla sprovvista. Fu gettato a terra, la bocca
contro il muschio, e mentre una schiuma nera gli riempiva gli occhi e
le orecchie, accecandogli i sensi, si dette dello stupido per non
aver capito subito in quale sequenza si erano svolti i fatti.
Il
cuore di Akal-ghèjlàsh batteva ancora. Eunoè osservò soddisfatta
i tre colli costellati di edifici abitati. Una parte minima della
città, ma sempre grande rispetto alle città della restante parte
del continente. Costruiti in pietra marrone chiaro, gli edifici,
cinti da mura, svettavano più alti della giungla che aveva invaso il
resto della città.
Un
grande e apparentemente placido fiume dalle acque torbide e rossastre
li divideva dalla loro meta. Un ponte ciclopico passava da una riva
all'altra, in un lieve arco, costellato di statue, colonne e
bassorilievi che coprivano ogni centimetro degli alti parapetti. E
ogni immagine era più grottesca della precedente: demoni, ibridi,
sacrifici umani, culti di adorazione, tutte immagini oscene nella
loro degradazione, amplessi in cui uomini o donne si mescolavano e
univano a mostri e animali.
A
monte e a valle della loro posizione Eunoè poteva vedere altri due
ponti uguali a quello che stavano per attraversare, entrambi crollati
nel fiume.
-Questo
sembra integro. Come mai gli altri due sono crollati?- chiese
indicando i ponti in rovina.
-Sono
stati distrutti-, rispose Mahaban guardando i ponti velati di bruma.
-Fu durante la guerra civile. I Signori della Distruzione avevano
assediato l'Imperatore nella Cittadella e lui fece distruggere due
ponti su tre per avere un solo accesso da difendere.
Eunoè
annuì. -Non mi hai detto chi vinse quella guerra-, chiese poi.
Il
ruinoriano si strinse nelle spalle. -Nessuno. Furono la fame e le
malattie a porre fine alle battaglie.
-La
fame, le malattie e ciò che camminava per le strade di notte-,
aggiunse Eunoè.
-Sono
solo storie.
-Anch'io
sono solo una storia?
-Muoviamoci!
Mahaban
avanzò sul ponte ed Eunoè lo seguì. Stavano approssimandosi al
momento decisivo.
Attraversarono
il ponte, e il cuore cominciò a battere loro forte nel petto quando
avvistarono un manipolo di soldati che li attendevano sull'altra
sponda. Avevano corazze di bronzo e lunghe lance ornate di folte
nappe di pelo giallo.
-Fanno
parte dell'Orda?
-No.
Sono le guardie dei Sacerdoti. Non vedo nessuno dei miei guerrieri,
non capisco perché.
Si
fermarono a cinque metri dai soldati, negri giganteschi dalle folte
capigliature e i lineamenti grossolani, molto diversi da quelli
sottili di Mahaban.
-Salute,
Sar Mahaban-, disse il capo delle guardie.
-Salute,
Banut-, rispose Mahaban, tranquillizzato dal fatto che il suo titolo
di generale non fosse stato omesso. La testa di leone ruggente sulla
bronzea corazza della guardia lo fissava minacciosa.
-I
Sacerdoti vi aspettano. Seguitemi.
Mahaban
ed Eunoè si incamminarono dietro a Banut, mentre i venti soldati
della guardia si aprivano a ventaglio per fare loro da ala.
Occorse
un cammino di altre due ore per giungere al palazzo dei Sacerdoti.
Mahaban ed Eunoè furono condotti in due camere servite con un
complesso sistema di tubature di acqua corrente. Poterono così
lavarsi e cambiarsi gli abiti con vesti che furono portate loro da
delle serve insieme a vassoi pieni di frutta fresca e secca e carne
aromatizzata. Serviti e riveriti nel migliore dei modi ma, come
ebbero modo di accorgersi praticamente subito, in quelle camere erano
prigionieri. Così, mentre fuori dalle finestre il cielo si tingeva
di lievi colori pastello, cancellati poi dalle calde tenebre della
notte tropicale, e nel palazzo i servitori passavano di stanza in
stanza ad accendere le lampade ad olio, non rimase loro che riposarsi
in attesa dell'incontro con i Sacerdoti.
Ivar
e Mor raggiunsero il ponte sul grande fiume il giorno successivo
rispetto ad Eunoè e Mahaban. Sconvolti dalla stanchezza e affamati
lo attraversarono senza pensare a cosa avrebbero trovato dall'altra
parte.
Vi
trovarono sei soldati, con corazze di bronzo che ostentavano teste di
leone ruggenti. Tutti impalati con le loro lance. E una ragazzina
ghignante seduta sulla murata del ponte. Guardando bene i sei
cadaveri Ivar si rese conto, dalle loro ferite, che erano già morti
quando erano stati infilzati sulle lunghe lance.
-Sei
stata tu?- chiese Ivar.
La
ragazzina rise. -Io? E come avrei potuto?
Ivar
osservò i candidi denti di lei che risaltavano contro il nero della
pelle e delle labbra sottili. Erano inquietantemente aguzzi.
-Aspettavi
noi?
-Sì.
Ho un messaggio dell'Imperatore.
-Non
sapevamo ci fosse un imperatore- interloquì Mor.
-Ma
l'Imperatore sa di voi Eletti- Sorrise allo sconcerto dei due.
-L'Imperatore mi manda a dirvi di affrettarvi verso il suo palazzo.
E' quello con tre torri. Troverete lì chi state cercando.
Ivar
e Mor si voltarono a cercare con lo sguardo il palazzo imperiale tra
le fitte costruzioni. Dopo averlo individuato tornarono a guardare la
ragazzina, ma questa era scomparsa.
-Ivar?-
chiese Mor con voce permeata di un leggero tremore. -Sei ancora
sicuro che si tratti solo di politica?
Ivar
sorrise. -Andiamo-, disse come tutta risposta.
Eunoè e Mahaban furono introdotti in un grande salone il cui pavimento era un variopinto mosaico rappresentante un gigantesco serpente con una cresta di penne lungo metà del dorso e lasciati soli.
-Mahaban,
dov'è la tua Orda?- chiese Eunoè.
-I
Sacerdoti devono essere riusciti ad allontanarla-, rispose il
generale con voce carica di rabbia. -O sono riusciti a corrompere
qualcuno dei miei luogotenenti o hanno creato a bella posta
un'emergenza lontano dalla città.
Un
gong risuonò cupo, una tenda scivolò di lato con un lieve fruscio e
nove uomini avanzarono nella sala in fila. Vestivano tutti una veste
marrone scuro senza decorazioni e di taglio semplice e tutti avevano
in testa un cerchietto d'oro. Eunoè li guardò attentamente: la loro
pelle non era nera come quella degli altri ruinoriani di varie etnie
che aveva incontrato fino ad allora, ma di una tonalità spenta e
grigiastra, quasi malata. Possibile fosse una casta chiusa di
un'altra razza? Poi si accorse che erano tutti uguali. Raddoppiò
l'attenzione: erano tutti e nove lo stesso uomo, solo che le nove
copie avevano tutte età differenti. Non c'erano dubbi, non poteva
trattarsi solo di persone molto simili. Aveva davanti lo stesso uomo
in nove età differenti contemporaneamente!
-Non
ti stupire, Eunoè.- Era stato il più vecchio dei nove, il primo ad
entrare, che aveva parlato, ma la sua voce era come se fosse composta
da molte voci sovrapposte. -Sei giunta alla fine ed all'inizio del
cerchio.
-Cosa
dite? Cosa significa?- Una sensazione per lei rara le aveva riempito
improvvisamente il cuore a quelle parole: la paura. Non paura dovuta
ad un timore fisico, bensì di rimanere delusa nelle aspettative e
nelle sue certezze, di trovare qualcosa che non era ciò che cercava.
-Taci
ora, affronteremo dopo questo argomento.
"Sar
Mahaban, vieni avanti.
Mahaban
avanzò, impettito e con una mano sull'elsa della spada. Nei suoi
gesti spavaldi Eunoè lesse timore ed incertezza.
-Sar
Mahaban-, continuò il Sacerdote la cui voce era composta da quella
di tutti e nove i Sacerdoti. -Ti sei comportato da stolto!
-Cosa!?-
Mahaban urlò, la rabbia montante dentro di lui aveva cancellato ogni
paura.
-Con
le tue azioni sconsiderate ci hai condotto tutti sull'orlo della
rovina-, incalzò il Sacerdote. -La violenza che hai perpetrato ed il
sangue che hai versato per consolidare il tuo potere, le stragi che
hai commesso in nome dell'unificazione dell'Impero, hanno nuovamente
destato il potere oscuro che dorme sotto la nostra città. Abbiamo
dovuto allontanare l'Orda di Distruzione da Akal-ghèjlàsh per
impedire che i demoni tornassero a camminarvi liberamente, e non è
detto che non accada ugualmente.
-Voi
e i vostri demoni! Pazzi arroganti! L'Orda è mia, non avevate il
diritto di allontanarla dalla città senza il mio permesso!
-L'Orda
è un catalizzatore. Freme della violenza che rinforza il potere
oscuro. Per la nostra incolumità andava allontanata.
"Adesso
dobbiamo trovare un modo di imbrigliare le forze che così
impunemente hai risvegliato.
-Non
esiste nessuna forza occulta!- urlò Mahaban afferrando la spada.
L'aveva
già snudata a metà quando con uno schianto la grande porta della
sala si spalancò e i due battenti andarono a sbattere contro le
pareti. Tutti si voltarono a guardare una ragazzina ghignante dai
denti appuntiti che stava al centro del portone.
-Sacerdoti!-
annunciò la ragazzina ad alta voce. -L'Imperatore desidera vedervi.
Immediatamente. E vuole vedere anche i vostri... ospiti.
I
nove sacerdoti si guardarono l'un l'altro, ammutoliti e con
espressioni a metà fra la paura e lo stupore. Eunoè osservò
turbata quell'improvviso mutamento. Poi i nove attraversarono la
sala, dicendo a Mahaban ed Eunoè di seguirli. Tutti e undici si
incamminarono dietro la ragazzina, che li condusse fuori della sala,
oltre i cadaveri di alcuni Uomini-Leone col collo spezzato e gli
occhi resi vitrei dalla morte pieni di terrore puro, e poi fuori
nelle strade, diretti verso il palazzo dell'Imperatore.
L'Imperatore
era un uomo alto e dall'aspetto giovanile, coi capelli raccolti in
numerose lunghe treccine. La sua pelle era nera come il giaietto,
uniforme e priva di alcuna sfumatura: anche le labbra e il palmo
delle mani avevano lo stesso colore. Li aspettava seduto
scompostamente su un trono disadorno e posto a livello del pavimento,
un gomito puntellato su un bracciolo e la testa appoggiata alla mano
dello stesso braccio, una gamba accavallata sull'altro bracciolo.
Fece un sorriso alla ragazzina, che era evidentemente una sua
consanguinea, la quale rispose con un cenno del capo e proseguì fino
ad una porta dorata posta dietro il trono, oltre la quale scomparve
richiudendosela alle spalle.
-Perché
ci hai convocati?- chiese minaccioso uno dei Sacerdoti di mezza età.
-Calma-,
rispose l'Imperatore con un sorriso soave. -Non ci siamo ancora
tutti.
-Che
vuol dire?- chiesero altri due Sacerdoti alzando il tono della voce
di un'ottava.
In
quel momento Ivar e Mor irruppero nella sala, le armi in pugno,
sudati e coperti di croste di fango e polvere.
-Bene-,
esclamò giovialmente l'Imperatore. -Adesso ci siamo tutti.
Mahaban
ed Eunoè fissarono i due Eletti appena sopraggiunti.
-Io
ti conosco-, disse Eunoè con un sorriso soddisfatto rivolta ad Ivar.
-Ivar Ixtriamyz detto l'Acuto, il deicida di Lankhmar. Ti ho
posseduto un tempo.
-Solo
il mio corpo, non il mio spirito-, rispose Ivar con un ringhio, sotto
lo sguardo allibito di Mor.
Il
sorriso di Eunoè si accentuò. -Ciò che ho posseduto una volta è
mio per sempre.
-Smettila,
donna!- ordinò l'Imperatore con una voce tanto dura che parve
zittire anche il fruscio della brezza. -Al confronto delle forze che
governano qui nel cuore di Ruinor i tuoi poteri sono niente.
Eunoè
non riuscì a ribattere subito come avrebbe voluto: le parve che la
lingua le fosse divenuta priva di vita in bocca. E quando infine
stava per riuscirci dalla stanza oltre la porta dorata giunse uno
schianto, seguito da un coro di urla femminili. Un ruggito
spaventevole sommerse le grida, poi seguirono altri schianti e dei
colpi come di corpi sbattuti contro i muri.
Il
volto dell'Imperatore sbiancò.
-Nooo!-
Il suo urlo disperato sovrastò il fracasso che giungeva da oltre la
porta chiusa. -La mia Famiglia!- Saltò dal trono, corse alla piccola
porta dorata, ne afferrò le maniglie e le scosse con violenza nel
vano tentativo di aprire la porta: sembrava che dall'altro lato
qualcuno la tenesse serrata.
Intanto,
mentre l'Imperatore scuoteva la porta e lanciava urla disperate e
strazianti nel loro dolore, le urla, i ruggiti, i tonfi sordi e il
rumore di carne squarciata continuavano. Finché, improvvisamente
com'era cominciato, tutto tacque. Il silenzio immobilizzò
l'Imperatore, che parve pietrificarsi, col pomo della porta ancora
stretto tra le mani, e rimase in ascolto.
Poi
la porta esplose, scaraventando l'Imperatore a terra, che rotolò
insieme a schegge di legno dorato fino in mezzo al gruppo dei
Sacerdoti e degli Eletti.
Mentre
l'Imperatore si rialzava un uomo, nudo tranne per un perizoma, avanzò
attraverso la porta. Nella sinistra, rivolta verso terra, impugnava
una spada lorda di sangue; con la mano destra trascinava per i
capelli un corpo, a malapena riconoscibile per quello di una giovane
donna o di una ragazza, fosse la stessa ragazzina dai denti aguzzi
che aveva condotto lì i Sacerdoti e gli Eletti. L'uomo aveva dipinto
sul volto un teschio bianco. Alle sue spalle, oltre la porta, c'era
lo spettacolo di una stanza devastata, le pareti sporche di schizzi
di sangue e macchie grigie di materia cerebrale, il pavimento
cosparso di corpi smembrati e organi interni.
-Tasej-dan-,
sussurrò Ivar.
-No-,
rispose l'Imperatore. -Non è più Tasej-dan. O meglio, non è più
soltanto Tasej-dan.
Il
Portatore di Morte rise sguaiatamente, gettando indietro il capo,
rivelando lunghi canini e un grosso verme grigio al posto della
lingua.
-Hai
detto bene, Imperatore-, rispose con voce roca e sfrigolante come
sangue versato su una lastra rovente. -Ora siamo in tanti, qui
dentro. E siamo venuti tutti a cercare te.
Voltò
la testa verso il cadavere della ragazzina e gli sputò il verme
sulla faccia. Quello si scavò svelto una galleria sotto la pelle
sanguinolenta e lì cominciò a riprodursi velocemente. Il perizoma
che copriva i lombi del guerriero nero si strappò, mentre il suo
pene si trasformava in un serpente dimenante, che si contorse
staccandosi dalla sua carne e cadde a terra. Contemporaneamente la
carne intorno alle orecchie si spaccò sprizzando icore scuro. E
mentre vermi a centinaia prendevano a brulicare fuori dalle ferite
del cadavere della ragazzina, dai lati della testa di Tasej-dan
presero ad emergere due musi ferini, uscendo dagli squarci della
carne, quelli di un lupo e di un cane, seguiti dalle zampe e dal
resto dei corpi, che nella loro nascita tiravano via la carne dal
teschio del Portatore di Morte.
Ivar
notò con la coda dell'occhio che anche l'Imperatore aveva iniziato a
mutare, acquistando massa e dimensioni, trasformandosi in un enorme
diavolo zannuto e nero. Senza indugiare oltre richiamò l'Alterazione
Bestiale che covava in lui e che da così tanto tempo bramava
risvegliarsi. Dopo una manciata di secondi la Iena troneggiava al
centro del gruppo degli umani.
Il cadavere della ragazzina si rialzò in piedi, brulicante di grossi vermi grigi che ne ricoprivano ogni centimetro di pelle, e andò a porsi a fianco di Tasej-dan. Poi scoppiò il caos. Da porte e finestre si precipitarono nella stanza ibridi uomo-felino, grossi pipistrelli vampiri ed altre creature volanti. La Iena scagliò il giavellotto appartenuto al defunto Agun, che trafisse il Cane Garmr a metà di un balzo e lo inchiodò con un guaito di morte al muro. Alcuni Sacerdoti caddero e furono sbranati, altri fuggirono. Ivar artigliò e morse, fendendo la calca di creature ululanti. Vide l'Imperatore gettarsi sul cadavere brulicante di vermi e vomitargli addosso un getto di liquido giallognolo che lo consumò trasformandolo in una poltiglia informe. Poi cadde a terra sotto gli assalti del Lupo Fenrir e di un ibrido uomo-pantera. Ivar fu graffiato vicino agli occhi da un pipistrello, allora raccolse da terra un cadavere e cominciò a menare colpi all'impazzata usando il corpo come una clava.
Il
più giovane dei sacerdoti corse con la velocità che solo la paura
aveva potuto dargli. Semi accecato dal sangue che gli usciva da una
ferita alla fronte andava continuamente a sbattere contro colonne e
statue, inciampava e rotolava giù per le gradinate. La totale
mancanza di esseri umani, il vuoto e il silenziò che trovò nei
cortili dei palazzi, nelle piazze e nelle strade, sottolineati dalle
urla e strida e dai ruggiti bestiali che giungevano dal palazzo
dell'Imperatore, lo sconvolsero ancor più della carneficina operata
dai demoni e a cui era scampato per puro caso.
Accecato
e folle di paura corse fino al recinto del Serpente Piumato, posto
sul retro del loro tempio, sicuro che solo il suo dio avrebbe potuto
proteggerlo. Tolse i blocchi alle catene e i contrappesi, che da
decenni aspettavano inutilizzati, sollevarono stridendo la
saracinesca che chiudeva l'unico accesso al recinto, simile ad un
labirinto, in cui il Serpente era rinchiuso.
-Serpente
Piumato, Sovrano della Foresta, Signore di Akal-ghèjlàsh, aiutaci
tu!- urlò.
Il
Serpente Piumato avanzò dai meandri del labirinto in cui era stato
rinchiuso quando ancora era giovane. Trascinò il suo gigantesco
corpo verso la luce del sole, le rosse penne chitinose che formavano
la sua cresta erette per l'eccitazione. Si sollevò per metà,
abbagliato dalla luce. Vide in basso il piccolo uomo vestito del
colore dei tronchi d'albero che sollevava le braccia verso di lui. La
sua lingua sibilò annusando l'aria. Percepì l'odore della paura e
del sangue misto a un odore antico di melma e fango, ma soprattutto
percepì l'odore dell'odiato nemico, di colui che lo teneva
prigioniero.
Il
Serpente Piumato scattò, la bocca munita di molteplici file di fitti
denti affilati come lame si avventò verso il basso e si richiuse con
uno scatto. Il cadavere decapitato del Sacerdote cadde a terra.
Il
silenzio invase il palazzo dell'Imperatore. Ivar si guardò attorno,
cercando di riconoscere i cadaveri al di sotto dello strato di sangue
e icore, brani di carne e arti demoniaci. Appeso al muro il Cane
Garmr spenzolava la lingua dalla bocca aperta, da cui colava un filo
di bava gialla. Pipistrelli e demoni giacevano ovunque in mucchi, e
alcuni sacerdoti, i corpi sbranati, erano mescolati ad essi. Il
cadavere ricoperto di vermi era solo una poltiglia semisolida, e il
Lupo Fenris era buttato in un angolo con le fauci spaccate fino alle
orecchie. Mahaban, appoggiato ad un muro, guardava con occhi
spalancati la carneficina: la sua lama sbucava dalla schiena di un
ibrido uomo-leopardo che anche nella morte lo stava azzannando alla
gola. Il grosso Serpente Midgardsomar era tutto arrotolato da una
parte, un pugnale d'argento conficcato nel cranio, e poco oltre Eunoè
lo guardava fisso con occhi vitrei pieni di terrore. A quel punto
Ivar si accorse che il cadavere che reggeva per una caviglia e che
aveva usato fino a poco prima come un'arma era quello di Mor, a
giudicare dal colore bianco della pelle, dato che le vesti erano
state strappate via e che la testa e parte del busto, da cui un
braccio si era staccato, erano ridotti in poltiglia.
Ivar
alzò lo sguardo su Tasej-dan. Il teschio insanguinato, quello vero,
strabuzzava gli occhi, con alcuni brandelli di carne sanguinolenta
ancora attaccati vicino al naso storto. La punta di una lama
fuoriusciva da appena sopra lo sterno. Poi la spada fu ritratta e uno
sbocco di sangue zampillò nell'aria, scuro e caldo, fumante.
Tasej-dan cadde in avanti, rivelando Osul-dan, che si teneva contro
il petto il moncherino cauterizzato del braccio destro. Un ghigno di
perversa soddisfazione comparve sul suo volto sporco di fango e
sangue, poi anche lui cadde, mentre una melma nera cominciava a
ribollire fuori da ogni squarcio delle carni di Tasej-dan.
Il
Serpente Piumato proseguì nella ricerca dei suoi nemici e
torturatori. Dopo il primo sacerdote ne aveva trovati altri due,
nascosti in angoli sperduti e li aveva fatti a pezzi. Adesso si
dirigeva dove il loro odore era più forte.
Quando
giunse sul posto gli odori di sangue e morte e quello antico
dell'abisso lo pervasero rendendolo folle, e non poté fare altro che
attaccare.
L'urlo
dell'Imperatore fu atroce. Ivar si lanciò ruggendo ad afferrare la
spada di Tasej-dan, poi contro il Serpente Piumato.
Il
mostro serpentiforme aveva azzannato l'Imperatore ad un fianco e lo
stava scuotendo, tenendolo sollevato a due metri da terra, mentre
l'uomo-diavolo gli squarciava il muso e gli occhi con gli artigli
quanto più profondamente poteva. Ivar colpì a fondo il corpo del
serpente, cercando vanamente di mozzarlo, e un attimo dopo si ritrovò
imprigionato nelle sue spire. Continuando a colpire nello stesso
punto Ivar quasi riuscì a tagliare in due il Serpente, che d'un
tratto lasciò andare l'Imperatore e si voltò per morderlo. La Iena
bloccò la testa serpentina con una mano e le conficcò la spada nel
palato. Poi l'Imperatore l'afferrò da dietro, sbattendola a terra e
bloccandola il tempo necessario perché Ivar la trafiggesse con la
spada. Un ultimo fremito e il Serpente Piumato morì.
Riprese
sembianze umane Ivar rimase a guardare Eunoè, Signora del Lete,
accocolata contro un muro, oltre la carcassa di Midgardsomar, una
delle creature che un tempo aveva servito ed ora aveva ucciso in
preda alla paura. Era divenuta stranamente apatica.
L'Imperatore
sghignazzò. Il sangue aveva smesso quasi subito di fuoriuscire dalla
ferita al fianco, ma lo sbrano nelle sue carni aperto dai denti del
Serpente Piumato lasciavano presagire che aveva poche speranze di
sopravvivere nonostante i suoi poteri.
-Ivar
di Lankhmar-, disse l'Imperatore, -uccisore di Gull il dio-rana e ora
di molte altre creature chiamate dèi.
Ivar
guardò il sorriso sardonico dell'Imperatore, che era andato a
sedersi sul trono lordo di sangue, non tanto per recuperare
un'autorità di cui non aveva bisogno, ma perché le forze gli
stavano venendo meno.
-Credo
che tu sia curioso di venire a conoscenza della storia di Ruinor e
del suo Imperatore-demone.
Ivar
annuì.
L'Imperatore
chiuse gli occhi ed emise un sospiro. -E' una storia antica. Si dice
che ebbe inizio prima che gli uomini migrassero dalla Culla e si
moltiplicassero fino ad abitare l'intero continente.
"Accadde,
in quei tempi remoti di cui conserviamo ben poca memoria, che delle
forze, delle potenze oscure prendessero forma nel fango e nella melma
antica su cui questa foresta già allora cresceva rigogliosa. Se vi
furono create o se vi nacquero da sole, spontaneamente, non si sa.
Comparvero, e questo è ciò che in fondo conta realmente. Erano ciò
che gli uomini della Mezzaluna hanno imparato a conoscere e temere
col nome di Misteri.
"Ma
contemporaneamente a loro comparve anche la stirpe da cui io
discendo, chiamata Famiglia. Forse per un bilanciamento naturale. I
Poteri Oscuri e la Famiglia furono nemici fin dal principio, sebbene
la materia che ci compone sia la stessa: le forze primieve cercavano
di lasciare le paludi della giungla, la Famiglia aveva il compito di
impedirlo, per preservare la propria stessa esistenza e natura. Per
questo scopo i miei antenati crearono Ruinor.
"Col
trascorrere dei secoli il sangue della Famiglia andò indebolendosi,
e con esso la sua forza. Tanto che un mio antenato, quando giunsero
quegli strani maghi che hai conosciuto col nome di Sacerdoti, non li
uccise né li scacciò come sarebbe stato bene, e finì anche per
accettarne l'aiuto. Le loro origini sono sconosciute, come troppe
cose in questa storia, la loro natura ed essi stessi sono un mistero:
erano lo stesso uomo, ma anche nove uomini diversi; il loro numero
non variava, perché quando uno di essi moriva di vecchiaia o veniva
ucciso un altro nasceva, e si riproducevano senza bisogno di donne.
"Cominciarono
a parlare di imbrigliare i Poteri Oscuri anziché soffocarli, e i
miei antenati dettero loro ascolto. Nacquero così le Orde di
Distruzione, immensi eserciti il cui vero compito era quello di
fungere da catalizzatori. I Poteri vennero così asserviti a e
mediante le Orde, che col potere così ottenuto dilagarono per il
mondo, creando il Portatore di Rovina, l'Impero di Ruinor. Ma quando
l'Impero collassò le tre forze che ne erano i pilastri presero a
farsi guerra tra loro, e i Poteri Oscuri ne approfittarono
liberandosi e lottando contro di noi. La Famiglia fu quasi
sterminata, i Signori della Distruzione dispersi e i Sacerdoti si
rivolsero all'adorazione del Serpente Piumato, scambiando nella loro
follia quell'animale mostruoso per un dio. Nonostante tutto
ritenevano ancora di poter imbrigliare i Poteri Oscuri ed utilizzarli
per i loro scopi.
"Da
allora la lotta fu estenuante, sebbene combattuta in segreto. I
Poteri Oscuri erano riusciti a piantare un seme fuori da Ruinor, e la
pianta che ne germogliò crebbe fino al suo scontro con la Chiesa del
Drago Verde. La morte di Anjèj-Kèlsh ibn Kadàr e la persecuzione
della Società degli Eletti sono solo due episodi di quello scontro,
che ha portato alla distruzione di entrambi i contendenti.
"Ora
la lotta è nuovamente confinata nel cuore di Ruinor, e dopo lo
scontro di oggi i Poteri Oscuri sono molto indeboliti. E forse
qualcuna di queste forze maligne è definitivamente morta e non
rinascerà più.
Ivar
ascoltò tutto in silenzio, fin quando l'Imperatore tacque.
-La
tua Famiglia è stata sterminata, però-, disse poi. -E tu sei in
punto di morte. Se dici che i Poteri Oscuri sono stati sconfitti solo
temporaneamente, è solo questione di tempo prima che riescano a
liberarsi.
-Oggi
è venuta a me una sposa-, rispose l'Imperatore. -Da lei nascerà un
nuovo ramo della Famiglia, con sangue giovane e forte. Io le darò un
figlio maschio, che una volta cresciuto si accoppierà con lei molte
volte. I loro figli si accoppieranno fra loro e coi genitori, e la
Famiglia tornerà numerosa.
-Numerosa
e dal sangue debole-, aggiunse Ivar.
-Questo
è inevitabile. A meno che tu non decida di rimanere, come marito
delle figlie di Eunoè.
Ivar
scosse la testa.
-Bene,
la scelta doveva essere tua. Ma ora é tempo che generi la mia
discendenza.
L'Imperatore
si alzò e andò da Eunoè. La fece distendere e le strappò di dosso
le vesti. Ivar ebbe un fremito di desiderio nel vedere quel corpo
bellissimo che già una volta, una volta soltanto, aveva posseduto.
Rimase
a guardare quell'amplesso, consumato senza passione alcuna. Quando
l'Imperatore si ritrasse da Eunoè, vide un piccolo mucchio di
sottilissimi tentacoli neri agitarsi fra le cosce di lei e subito
scomparire dentro il suo corpo.
-Perché
lei non dovrebbe tradirti?- chiese Ivar. -Serve i Poteri Oscuri.
-Non
può più-, rispose l'Imperatore. -Per paura ha ucciso uno di loro ed
ormai è segnata: non conoscono il perdono. E il mio seme, inoltre,
sarà un impedimento verso quella tentazione.
Tornando
a guardare Eunoè, Ivar vide che il suo ventre si era già
ingrossato.
-Resterai
per aiutarla nel parto?- chiese l'Imperatore. -Sarà una cosa facile
e veloce.
Ivar
annuì.
-Grazie.
Mio figlio penserà a seppellirmi.
Quando
Ivar si voltò di nuovo verso l'Imperatore vide che era morto.
Epilogo
LA
LEGGENDA DEL DIO SENZA NOME
I
Profeti del Dio Senza Nome da sempre percorrevano le terra, parlando
del loro Signore ed ammonendo gli uomini nel suo nome. Ma gli uomini
non li vedevano realmente, perché i loro occhi erano pieni delle
Potestà, e non potevano udire le loro parole, perché nelle orecchie
avevano le urla e i ruggiti delle Forze. E non potevano avvertirne la
vicinanza perché nel cuore avevano solo il desiderio di eguagliare
le Potenze.
Ma
quando il cammino giunse nuovamente all'inizio del cerchio il Dio
Senza Nome mandò i suoi Profeti a dire: -Quando vivevate nella
Culla, isolati dalle Potestà, udivate la mia voce. Ora, per lungo
tempo, non mi avete ascoltato. Ma ora ho liberato il vostro cuore, e
voi potrete mantenerlo puro.
E
i suoi Profeti tornarono a camminare per il mondo. E a tutti coloro
che si fermavano a parlare con loro dicevano: -Ora la strada è
sgombra. Il velo di nebbia è stato sollevato per tutti gli uomini
che desiderano mettersi a cercare. Incamminatevi verso il luogo da
cui giungeste in principio.
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