Friday, 15 March 2013

Ruinor, il Portatore di Rovina



PROLOGO
LA LEGGENDA DELLA CULLA

Sulla Terra camminavano le Potestà, forze misteriose i cui poteri erano sconfinati. Non c'era posto per l'Uomo. L'Uomo viveva nascosto ad Ovest, vicino al Mare, in quei luoghi dove la sabbia si era mischiata con le foglie del terebinto e la resina del cipresso, che bagnate dalla rugiada dettero la vita ai Padri, i Primi Uomini. Quei luoghi erano chiamati la Culla.
L'Uomo viveva nascosto nella Culla, e le Potestà camminavano per la Terra. Le Potestà si combattevano, si divoravano e si distruggevano. Ma non morivano. Fin quando una Figlia dell'Uomo, Eunoè, si avventurò per le foreste della Terra. La Belva fiutò il suo odore e la inseguì per tre stagioni. Alla fine della quarta stagione la raggiunse e la sbranò per divorarla. Il sangue di Eunoè bagnò le Potestà e fu così che la Morte fece il suo ingresso nel mondo. Le Potestà cominciarono a diminuire di numero e gli uomini poterono fare il loro ingresso nel mondo. Le Potestà cominciarono a scomparire e gli uomini si propagarono per la terra portando ovunque la Morte.
La Culla fu dimenticata, la sua strada perduta. E fin quando l'Uomo non vi farà ritorno la Morte camminerà con lui per le strade del mondo.
Quando verrà l'Ultima Stagione, che non ha ancora bagnato la terra con le sue piogge, il vento raccoglierà il corpo di Eunoè, la terra restituirà il suo sangue e lei berrà l'acqua della sorgente in cui il cedro affonda le radici. Allora nasceranno nuove generazioni, le Potestà non potranno incutere loro alcun timore e la notte solleverà il suo velo rivelando ciò che teneva nascosto. I Figli dell'Uomo, allora, intraprenderanno la ricerca della strada che conduce alla Culla.


RUINOR
Anno 704 degli Ultimi Tempi, 531 del Quarto Ciclo Arano

La guida alzò un braccio e tirò le redini del cavallo. Immediatamente anche il gruppo che seguiva arrestò le sue cavalcature, fra il rumore sordo degli zoccoli che colpivano e strusciavano sul terreno cotto e indurito dal sole, il tintinnio delle briglie e delle armi e i nitriti di protesta dei cavalli. Davanti ai sette uomini si ergeva la muraglia verde scuro della giungla, e sul suo confine le rovine di un antico forte eretto con pietre non squadrate. Intorno al forte era ancora visibile la traccia lasciata da un fossato ormai interrato dal tempo.
-Questo è il confine di Ruinor-, disse la guida, incurante della nube di polvere che aleggiava sopra di loro e che copriva di una patina grigia la sua pelle nera come il giaietto.
Ruinor, il Portatore di Rovina, l'Impero degli Uomini Neri, che fino a cinque secoli prima aveva dominato tutte quelle terre per centinaia di chilometri in ogni direzione, punendo con la distruzione chi osava tentare la ribellione. Ora il Portatore di Rovina era caduto. Finito l'oro delle miniere di Profundia, esauriti i diamanti di Tan-ghejlàsh, Ruinor non aveva più potuto far fronte all'opulenza della sua corte imperiale, dello stuolo di dignitari e alla vastità degli Eserciti dei Distruttori. La fine era arrivata di colpo. Le guarnigioni di guardia ai confini, non pagate, si erano vendute come mercenari, le poche rimaste fedeli erano state ritirate all'interno dell'Impero. Ruinor si era affidato alla giungla e alla povertà per la sua sicurezza.
Gli antichi servitori non avevano cercato vendetta, ed avevano lasciato l'Impero al suo volontario isolamento, disinteressandosi completamente di ciò che accadeva nelle profondità della giungla. Le terre che erano state le Province Esterne dell'Impero erano troppo impegnate ad amministrare adeguatamente la riottenuta libertà per darsi pena di ciò che facevano gli aguzzini decaduti. Alcune voci erano giunte dalla foresta: parlavano di guerra civile, dicevano che l'Imperatore aveva condannato a morte più della metà dei Signori della Distruzione, i generali di Ruinor. Le ultime notizie parlavano di Akal-ghejlàsh, la capitale, assediata. Poi più niente. Ancora dopo cinquecento anni nessuno sapeva quale fosse stato il destino di Ruinor. L'Impero era scomparso inghiottito dalla foresta; ne rimanevano solo i ruderi delle fortezze di confine, ammassi pietrosi, torri diroccate, muri crollati.
Un guerriero nero fece avanzare il suo possente cavallo da guerra fino ad affiancare quello della guida. Il suo nome era Tasej-dan.
-Si sono infilati la dentro?- chiese.
Lo stallone scartò, cercando di mordere l'altro cavallo, ma Tasej-dan lo bloccò strattonando le redini, con un gesto incurante, che però fu capace di tirare indietro la testa del destriero. Quando la guida fu riuscita a calmare il suo cavallo spaventato rispose.
-Di sicuro.- Il suo sguardo era fisso su un punto della muraglia verde vicino alle rovine, dove si intravedeva una pista, forse ciò che rimaneva di una delle antiche strade lastricate che conducevano nel cuore dell'Impero. -Guarda. Quelle sono le impronte lasciate dai loro cavalli, che vanno verso est. Non sono più marcate come prima: non hanno carico.
"Hanno abbandonato i cavalli e si sono addentrati nella foresta.
Il grido di una pantera, giungendo dal folto della vegetazione, sottolineò le parole della guida. Tasej-dan si tolse l'elmo, per asciugarsi il sudore che gli imperlava il cranio rasato. Fece un cenno ed uno dei guerrieri gli si affiancò.
-Dosuj, tu rimarrai coi cavalli. Trovati un riparo fra quelle rovine ed aspetta per quattordici giorni. Poi fai ritorno a Donglaj e riferisci al Supremo che la missione è fallita.
Senza attendere risposta Tasej-dan scese da cavallo, raccolse le sue armi e l'equipaggiamento che i Codici dei Primi stabilivano che uno Shaghèj-tugàh, un Portatore di Morte, non abbandonasse mai. Quindi, preceduto dalla guida e seguito dagli altri quattro uomini, si incamminò verso la giungla.
Quando le ombre verdi della foresta li ebbero inghiottiti, il guerriero Dosuj condusse i cavalli verso le rovine, tirandoli per la cavezza. La pantera si fece sentire ancora, ma sembrava essersi allontanata. Ben presto il calore del giorno sarebbe scemato, mentre il pomeriggio inoltrato diventava sera e poi notte. Il buio doveva trovarlo al riparo e con un fuoco acceso, si disse, perché non conosceva i pericoli della foresta.

Mahaban faceva da guida negli intricati meandri vegetali della foresta. Lo seguiva Osul-dan, il Portatore di Morte, un sacerdote temorita addestrato ad uccidere fin dall'età di sette anni, e che già aveva concluso i sette cicli di sette anni di addestramento e crescita nell'arte di portare la morte. Il sette era il numero sacro di Mogur, il Dio Massacratore, la divinità suprema in tutto Tèmor. Portava con sé tutto il bagaglio prescritto dai Codici dei Primi e da cui uno Shaghèj-tugàh non doveva separarsi neanche quando fosse stato costretto ad abbandonare il suo cavallo da guerra. La sera prima si era dipinto un teschio bianco sul volto, cosa che gli Shaghèj-tugàh facevano solo prima di combattere. Per i suoi compagni ciò non era un buon segno, perché significava che il sacerdote-guerriero si aspettava di essere raggiunto dagli inseguitori da un momento all'altro.
Alle spalle di Osul-dan camminava Eunoè la strega, Signora del Lete e che fu sposa di Anjej Kèlsh ibn-Kadàr, il Sacerdote Nero dell'Azazel. La seguivano Vass e Saghèl, yezdamiti dalla pelle olivastra, Alterazioni e guardie del corpo di Eunoè fin dall'inizio del suo esilio a Yezdam.
Mahaban si arrestò all'improvviso, si guardò intorno e si immerse tra dei cespugli carichi di bacche violastre. Gli altri lo seguirono fino ad una piccola radura formatasi intorno al tronco di un gigantesco albero i cui rami disposti a raggiera erano poco più alti di un uomo. Vicino al fusto erano ammassate numerose fascine di legna da ardere.
-Ci accampiamo qua-, disse Mahaban. -Tra poco sarà buio.

Dosuj stava per coricarsi quando un moto di nervosismo fra i cavalli lo mise sul chi vive. Afferrò il giavellotto e si pose in ascolto, cercando di afferrare un rumore che non armonizzasse coi versi degli animali notturni o delle fronde mosse dal vento. Si era accampato all'interno di un recinto in pietre circolare, alto quasi cinque metri e praticamente integro. L'accesso era una stretta apertura da cui aveva faticato a far passare i cavalli, e che aveva richiuso con un intreccio di rami e cespugli spinosi. Gettò del combustibile sul fuoco per aumentarne la fiamma e puntò il giavellotto verso l'entrata. Un attimo dopo udì uno scricchiolio poco oltre i cespugli. A quel punto si aspettava che una qualche fiera, forse la stessa pantera che aveva udito quel pomeriggio, cercasse di entrare. Ma lo scricchiolio si ripeté in posizione diversa.
Da dove era arrivato il rumore? Dosuj cercò invano di capirlo, confuso ulteriormente da un terzo scricchiolio giunto da un punto diverso ancora. Che stava facendo quella bestia? Guardò i cavalli e li vide con le orecchie stese all'indietro. Ci fu un lungo silenzio, durante il quale neanche gli uccelli notturni si fecero sentire. I cavalli, però, erano sempre più inquieti: avevano cominciato a scalpitare, strattonando le cavezze e cercando di morderle, mentre roteavano gli occhi in preda al terrore. Il rumore fatto dai cavalli gli impediva di capire gli spostamenti della fiera. Che stava facendo la pantera? Forse se ne era andata. Il fuoco! Il fuoco l'aveva fatta desistere. Se si trattava della pantera. Ma come faceva ad esserne sicuro?
Poi percepì un quarto scricchiolio. Da dove era arrivato? da dove? Alto! Dall'alto! Troppo tardi: Dosuj, alzando lo sguardo, fece appena in tempo a vedere un'ombra più nera della notte che cadeva su di lui.
Nella notte si levarono le urla del guerriero, i nitriti dei cavalli frammisti ai colpi dei loro corpi che sbattevano contro le pareti di pietre e poi un ruggito che non aveva nulla a che spartire con quello di alcuna fiera.



-Dosuj è morto.
Tutti guardarono Tasej-dan che sedeva su un tronco, gli occhi fissi nelle braci del fuoco. Le fiamme facevano scintillare i suoi occhi e tingevano di rosso la tintura che si era da poco spalmato sul viso, creando un teschio sporco di sangue.
-Ne sei certo?- chiese uno dei guerrieri neri.
Tasej-dan annuì, senza distogliere lo sguardo dal fuoco.
-Ho avuto una visione, Asul. Una visione strana, come non mi capitava da molti anni. Ed ho udito un grido che giungeva da molto lontano: era la voce di tuo fratello. Mi spiace, sono sicuro.
Ci fu un momento di silenzio, poi fu Asul a parlare.
-E'morto con onore?
-Il suo avversario era troppo forte. E troppo abile.- Non disse che era convinto che non fosse umano. Tasej-dan sollevò lo sguardo sui due uomini bianchi che il Supremo gli aveva detto di proteggere alla loro partenza da Donglaj. -Domani combatteremo. Non so se raggiungeremo quelli che stiamo inseguendo o se sarà ciò che abbiamo alle spalle a raggiungerci prima. Prima del tramonto di domani verrà versato del sangue, state tutti saldi e pronti perché non sia il nostro.
-Agun.- Gli occhi duri del Portatore di Morte si fissarono sulla guida. -Si dice che tua madre fosse un'abitante della giungla, e anche il tuo nome è un nome straniero. Tu devi conoscere Ruinor meglio di noi.
La guida scosse il capo, nervoso. -Ruinor dorme, e dobbiamo fare in modo che continui a farlo. Era guidato da forze oscure e malefiche. Se dovessimo incontrarle e perderemo soltanto la vita potremo ritenerci fortunati.
-Ivar.- Un sussurro. Ivar si girò nel suo giaciglio, guardando il suo compagno. Asul montava la guardia al di là del fuoco.
-Cosa c'è?- rispose sussurrando a sua volta.
-Cosa credi che ci sia di vero in ciò che dicevano?
-Non lo so. E ora neanche mi importa.
-Qualcosa di vero deve esserci. Quella donna dice di essere Eunoè.
-E' solo un'impostora. Sono passati quasi trent'anni dalla morte di Zel, come può essere Eunoè?
-Ma se esistono forze...
-Taci! E lasciami dormire.
Ivar si rigirò e non prestò più attenzione all'altro. Di lì a poco anche Mor cercò di prendere sonno, però senza riuscirci.
Forze oscure e malvagie. Che dormono nel profondo della giungla da cinquecento anni. Doveva trattarsi senz'altro di superstizioni. Ma era proprio necessario correre il rischio di scoprire che non lo erano? Sì, era necessario, perché Eunoè... la donna che diceva di essere Eunoè... si stava addentrando nella foresta in cerca dell'aiuto non di quelle forze sconosciute ma dell'ultima delle Orde di Distruzione, i famosi eserciti ruinoriani.

Osul-dan attendeva. Il suo respiro si esalava in sintonia con quello della foresta. Ai suoi lati percepiva la presenza dei due yezdamiti, celati tra i cespugli, creature sempre meno umane, alterate da un rituale fin quasi all'anima. Oppure la loro anima era stata soltanto messa in luce?
Vass aveva un respiro simile al sibilo di un serpente. La pelle gli si era ricoperta di scaglie e due protuberanze si erano formate sui lati della testa e del collo, uguali a quelle del serpente delle terre dello Yezdam. Quell'uomo era doppio e velenoso come il serpente in cui era stato alterato, ma era stato reso così dall'Alterazione oppure l'Alterazione aveva portato allo scoperto la sua vera natura?
Saghèl si agitò inquieto. Osul-dan maledisse la stolidità del Toro, l'Alterazione del secondo yezdamita. Per la sua impazienza l'agguato poteva fallire.
Poi i nemici comparvero, camminando veloci su un tratto non ancora inghiottito dalla vegetazione di un'antica strada lastricata. Vicini, sempre più vicini. Osul-dan strinse l'impugnatura della spada, pronto a balzare allo scoperto e colpire non appena fossero giunti ad una distanza tanto ridotta da non avere più il tempo di reagire. Ma Saghèl scattò troppo presto. Con un muggito rabbioso si lanciò alla carica, testa bassa e le corna taurine rivolte verso i nemici.
Osul-dan bestemmiò il suo dio e si lanciò all'attacco sulla scia del Toro. Passarono solo tre secondi prima che incrociasse la spada con la sua nemesi, Tasej-dan. In quel momento un guerriero urlò, infilzato sulle corna del Toro.

Ivar arretrò nel momento in cui le lame dei due Portatori di Morte si incrociarono. Anuth urlava incornato dal Toro, Mor si guardava intorno stupito, senza capire, mentre Asul e Agun attaccavano l'Alterazione su due lati. Ma dov'era l'altro? Dov'era il Cobra?
Quando lo vide sbucare dai cespugli non poté fare niente per aiutare Asul. I denti velenosi dell'uomo-bestia gli affondarono nella spalla, mentre la spada di Asul lo colpiva ad un fianco. Ivar puntò la sua balestra e premette il grilletto, sprofondando il dardo nella testa del Cobra, in mezzo agli occhi. Il Cobra barcollò, lasciando andare Asul. Mor scagliò i suoi coltelli, conficcandone tre nella gola del serpente e uno in una gamba del Toro. Con un muggito Saghèl gli scagliò Anuth contro, poi si voltò e si tuffò nel folto della foresta, seguito da Osul-dan.
Calò il silenzio. Asul era un cadavere, orribilmente gonfio a causa del veleno; Anuth boccheggiava, incapace di urlare, e le sue budella erano sparse sulle pietre antiche. Tasej-dan pose fine alla sua agonia con un preciso colpo alla gola, poi raggiunse Ivar accanto al Cobra morto. Il dardo di balestra era affondato fino alle piume, ed Ivar cercava invano di estrarlo.
-Quando due Shaghèj-tugàh si affrontano, Mogur proibisce le frecce-, disse Tasej-dan.
Ivar sollevò lo sguardo su di lui fissando i suoi occhi minacciosi.
-Nessuno si intrometterà nella tua faida-, gli rispose. -Nessuno vuole rubare a Mogur uno spirito che gli spetta, neanche quello di un traditore della Visione come Osul-dan. Ma tu non intrometterti nella mia lotta.
Tasej-dan non rispose, continuando a fissare ancora per un po' Ivar negli occhi, forse cercandovi un segno di paura o debolezza. Non trovandovi nulla del genere soffocò la sua rabbia e gli voltò le spalle allontanandosi.
Mor si avvicinò ad Ivar. -Sei pazzo? Quello ti ammazza!
-Non preoccuparti: so come trattare coi Portatori di Morte. Ho già avuto a che fare con loro.
-A sì? Un mese fa dicevi di non essere mai stato a Tèmor.
-A Lankhmar c'erano molti mercenari tèmoriani.
-Questa è la giungla, non una nebbiosa e puzzolente città del Nord.
-Obbedirà agli ordini del Supremo, non può fare diversamente. Non ha alcuna scelta.

Osul-dan e Saghèl si fermarono per medicarsi le ferite.
-Avevi detto che non ci sarebbero state armi da lancio!- inveì lo yezdamita tornato umano.
-Frecce. Ho detto frecce-, rispose Osul-dan reprimendo la rabbia che voleva sfogare sull'altro. -Sei stato colpito da un pugnale, non da una freccia.
-Vass è stato ucciso da una freccia!
-Uno degli stranieri ha trasgredito i Codici. C'era da aspettarselo. Per questo Tasej-dan non ci ha inseguiti mentre fuggivamo.
Saghèl bestemmiò tra i denti, pieno di rabbia, conscio che il disastro era stato sfiorato a causa dell'incontrollabilità della sua Alterazione.
-Raggiungiamo Mahaban, adesso?- chiese quando ebbe terminato gli improperi che conosceva.
-No-, rispose il nero distogliendosi dai suoi pensieri: un'Alterazione perduta contro due semplici guerrieri uccisi era un bilancio tutt'altro che favorevole per quello scontro. -Dobbiamo far perdere tempo a Tasej-dan. Lo condurremo su una pista più lunga che Mahaban mi ha spiegato come trovare. Lui ed Eunoè devono avere il tempo di giungere ad Akal-ghèjlàsh per parlare coi Sacerdoti e convincerli.
-Convincerli di cosa? Non sono dalla nostra parte?
-Non è detto. Mahaban dice che sono tipi molto strani, che cambiano idea senza apparente ragione.
-Mahaban è o non è un Signore della Distruzione?
-A Ruinor le cose non sono mai state semplici. E del resto sembra che ad Akal-ghèjlàsh gli equilibri oscillino continuamente.
Saghèl sbuffò sprezzante. -E se i Sacerdoti non si fanno convincere?
-Lasceranno che a risolvere la questione sia il Serpente Piumato.

Eunoè e Mahaban entrarono ad Akal-ghèjlàsh alle prime luci del ventesimo giorno da che avevano varcato i confini della foresta. Fasci di luce verde penetravano attraverso le fronde degli alberi, rivestendo di una innaturale immobilità le gloriose rovine della capitale di Ruinor. I palazzi di marmo verde e nero li osservarono avanzare in silenzio con occhiaie che erano finestre vuote e, lentamente, quella strana simbiosi di palazzi diroccati e lussureggiante vegetazione li inghiottì, disorientando Eunoè con le sue geometrie sfuggenti e le strade celate da grovigli di cespugli e felci e angolature illusorie.
Agli occhi di Eunoè Akal-ghèjlàsh era definitivamente morta. Un tappeto di erba verde e spesso e soffice muschio aveva ricoperto il lastricato delle strade; i tetti delle case erano crollati, o erano stati sfondati da contorti alberi dal legno scuro e umido; i giardini invasi da palme svettanti o cespugliose, felci e orchidee e altre piante epifite; i portici celati da cascate di liane gigantesche; i vestiboli pieni di terriccio di foglie in cui avevano messo radice innumerevoli varietà di rampicanti i cui tralci fioriti di bianco, rosso, rosa o viola, o carichi di frutti arancioni o verdi o neri, fuoriuscivano dalle finestre e dalla porte per ricoprire le pareti crepate dei palazzi. Niente faceva pensare che quella città ospitasse ancora l'Orda di Distruzione come sosteneva Mahaban.
Il dubbio cominciò a rodere Eunoè. Possibile che avesse fatto male a fidarsi di Mahaban? Del resto non c'era nessun altro in grado di aiutarla. Gli Eletti dell'Impero Arano e della Mezzaluna le si erano rivoltati contro, e a Kartagèn le cose erano andate ancora peggio. Solo a Tèmor la Società degli Eletti l'aveva accettata, e solo perché avevano bisogno di ogni aiuto possibile per rovesciare la gerarchia guerriero-sacerdotale che deteneva il potere dalla scomparsa dell'Impero di Ruinor.
-Akal-ghèjlàsh non è morta come credi-, disse Mahaban interrompendo il filo dei suoi pensieri.
-Davvero?- rispose con un sorriso sarcastico, che, però, serviva più che altro a soffocare la rabbia dovuta ad aver lasciato trasparire così facilmente i suoi pensieri. -A guardarmi attorno direi proprio che lo è.
Mahaban la guardò di sottecchi e si limitò a sorridere a sua volta. Ma dopo una pausa aggiunse: -A guardarti non si direbbe neanche che hai quasi ottanta anni.
-Infatti ne ho di più. Molti di più.
Mahaban annuì. A quella donna non piaceva perdere, si disse. Neanche una piccola scaramuccia verbale come quella.
-Occorrono almeno quattro giorni-, disse Mahaban, -camminando di buon passo, per raggiungere il centro della città da questa periferia. Ti rendi conto di quanta popolazione contenevano?
-E se ne sono andati tutti?
-Molti. Quando l'Impero collassò non fu più possibile far arrivare abbastanza cibo per tutti, e il commercio morì con l'esaurirsi delle ricchezze della città. La popolazione tornò ai villaggi di origine nella foresta o alle piccole città montane nel sud. Molti lasciarono Ruinor per altre nazioni. Per chi rimase ci fu guerra, fame e malattie. E si dice che ci fu anche di peggio.
-Di peggio?
-Sono i Sacerdoti a raccontarlo. Quegli uomini possiedono una sorta di memoria collettiva per cui ricordano tutte le esperienze e il sapere dei loro predecessori. Dicono che le forze che proteggevano Ruinor ci si rivoltarono contro, rese folli dal sangue umano versato nella città durante la guerra civile. Creature immonde, abomini camminarono per queste strade uccidendo e nutrendosi di chiunque incontravano; nebbie fetide calavano sugli eserciti accampati che scomparivano nel nulla; la notte si udiva urlare nei palazzi e al mattino vi si trovavano solo cadaveri disseccati.
-Tu non ci credi, però.
Mahaban si strinse nelle spalle. -Sono storie che parlano di molti secoli fa. E quelle che parlano di poteri occulti che aiutarono i Signori della Distruzione a creare l'Impero sono ancora più antiche. Se il potere segreto di cui parlano i Sacerdoti esiste, o sta dormendo o non si trova più all'interno di questa foresta.
Eunoè fu contrariata da quelle parole. -Attento al tuo scetticismo: potrebbe essere la nostra rovina.
Mahaban sputò per terra. -Il Serpente Piumato è un animale, non un dio. E l'Orda obbedisce a me, non ai Sacerdoti.
-E l'imperatore?
-L'Imperatore è un mago degenerato, dai gusti sessuali pervertiti. Non si fa mai vedere fuori del suo palazzo. Anzi, se ne resta sempre chiuso nelle sue camere con le sue innumerevoli sorelle. Che i Sacerdoti lo temano sta ad indicare quanto siano deboli.
-Comunque ci serve ogni aiuto possibile. Ruinor non deve essere divisa internamente per affrontare Tèmor.
-Non ti serve Ruinor, ti basta la mia Orda.

-Maledizione!- Saghèl guardò il Portatore di Morte. -Eunoè e Mahaban sono stati lenti. Hanno solo mezza giornata di vantaggio.
-Troppo poco, vero-, grugnì lo yezdamita. -Ce l'abbiamo un'ora su Tasej-dan?
-Un poco di più, credo. Dobbiamo trovare un luogo in cui affrontarli.

Più che una piazza sembrava un'arena. Colonne rigate si ergevano lungo tutta la circonferenza, sorreggendo archi e statue di creature deformi e mostruose, ibridi di uomini e animali e demoni, alcuni crollati ma per lo più ancora eretti sebbene corrosi dal tempo. Un soffice tappeto di muschio verde smeraldo ricopriva tutto il lastricato.
-Cosa rappresentano queste statue?- chiese Mor accennando ad esse.
-I numi protettori di Ruinor-, rispose Agun. -Demoni che gli Imperatori evocarono con poteri malefici.
-Guardate.
I due bianchi e Agun seguirono lo sguardo di Tasej-dan. Davanti a loro, uscito da dietro una colonna, si ergeva Osul-dan.
-Nessuno si intrometta.
Tasej-dan avanzò incontro al suo avversario, che attese a piè fermo. I due erano divisi da poco più di trenta metri quando Osul-dan si lanciò di corsa oltre il colonnato della gigantesca piazza. Stupito, Tasej-dan reagì solo dopo un attimo di esitazione, ma si gettò all'inseguimento dell'altro Shaghèj-tugàh.
-Ehi! Dove vanno?
Un muggito malefico si levò a coprire le parole di Mor. I tre si voltarono e videro il Toro precipitarsi su di loro.
Li travolse. Agun cadde lontano dal suo giavellotto, Ivar dovette usare la sua balestra per deviare un colpo di mazza che la fracassò, e Mor fu afferrato per la gola dalla presa possente dell'Alterazione. Agun si rialzò prontamente e la sua daga saettò per ritrarsi luccicante di carminio. Il Toro muggì, agitando le corna, e roteò la mazza in un arco semi orizzontale. Agun urlò e cadde con un ginocchio fracassato.
Ivar scattò. Il Toro gli voltava le spalle, ancora sbilanciato dallo slancio della pesante mazza e la mano sinistra impacciata da Mor, che stretto alla gola scalciava a quasi un metro da terra. Ivar saltò, impugnando la spada a due mani, la punta aguzza rivolta verso il basso, ed affondandola con tutta la sua forza e il suo peso appena sopra la scapola sinistra di Saghèl, lacerando la spessa pelliccia nera e i muscoli duri come acciaio. La lama sprofondò e l'elsa toccò il pelo scuro, l'odore di animale gli riempì le narici, poi si mescolò con quello acido e metallico del sangue. Il Toro tremò, dalla gola gli uscì un verso liquido, soppresso da un colpo di tosse seguito da un gorgoglio. Barcollò, sporse la lingua rossa e perse la presa su Mor. Del muco uscì dalle nari, mescolandosi ad un filo di bava sanguinolento che colò fino a terra. Un secondo brivido ed il Toro cadde in ginocchio.
Ivar si accorse solo dopo alcuni secondi che non era più sospeso e che i suoi piedi toccavano terra. Lasciò la presa sulla spada e si allontanò dall'Alterazione, che poco dopo piombò a terra faccia in avanti, la lama della spada incastrata nella cassa toracica.
-Maledizione!- imprecò Mor tra un colpo di tosse e l'altro.
-Sei stato fortunato-, disse Ivar, -non lagnarti.
"Agun, mi dispiace ma dovrai pensare da solo alla tua gamba. Se ci hanno aspettato è segno che Eunoè non è lontana.
La guida annuì. -Aspetterò il ritorno di Tasej-dan.
-Bene.
Detto questo Ivar raccolse alcune provviste, il giavellotto di Agun e partì, senza dare a Mor il tempo di dire la sua.

Osul-dan si fermò al centro di una passerella che univa due palazzi e lì affrontò Tasej-dan.
-Sei pronto a pagare per i tuoi crimini?- chiese Tasej-dan.
Osul-dan rise, e la sua risata riecheggiò tra i due giganteschi palazzi in rovina. -Di quali crimini vai cianciando?
-Parlo di tradimento!- ruggì Tasej-dan. -Tradimento della Visione e degli ordini del Supremo! Ti sei venduto ad una società segreta.
Osul-dan rise ancora più forte. -Sei ancora così giovane e ingenuo, Tasej-dan? Chi credi che abbia dato a Takèl-dan il titolo di Supremo? Chi credi che abbia eliminato i suoi avversari e comprato gli Elettori? Takèl-dan era un membro della Società degli Eletti prima di tradirci tutti ripudiando Eunoè ed alleandosi per comodità politica ad altri Eletti degenerati. Lui ha tradito il fine ultimo della Società a cui aveva giurato abnegazione!
Durante il breve scambio di battute Tasej-dan aveva osservato attentamente il luogo e registrato ogni particolare con una pratica di memorizzazione acquisita con duri addestramenti a cui ogni Shaghèj-tugàh si sottoponeva. La passerella di marmo bianco era larga tre metri, priva di ringhiere o altre protezioni, e lunga almeno quindici metri. Formava un ponte fra i due palazzi e al di sopra di un canale pieno d'acqua spumeggiante che scorreva una ventina di metri più in basso. Avendo registrato ogni particolare, ogni minima informazione riguardo il luogo dello scontro, attaccò lanciandosi in una carica feroce.
Le due lame cozzarono sprizzando scintille verdi e blu, stridettero, si liberarono e tornarono ad incrociarsi. I due Shaghèj-tugàh spinsero con forza le lame una contro l'altra, cercando di valutare quanta forza fosse rimasta all'avversario dopo tante decadi di fughe e inseguimenti.
Tasej-dan fu il primo a disimpegnarsi per mirare un colpo alla testa di Osul-dan. L'altro parò e fece un passo all'indietro, parò anche la stoccata successiva, fintò un attacco a sua volta e si allontanò ulteriormente dall'avversario mentre questi assumeva una posizione difensiva.
I due guerrieri si fronteggiarono fissandosi negli occhi. Tasej-dan prese nuovamente l'iniziativa, slanciandosi ancora in un attacco violento con l'intenzione di travolgere Osul-dan, ma fu preso in contropiede. Osul-dan schivò l'affondo abbassandosi sotto la guardia dell'altro ed effettuando un mezzo affondo che fu solo in parte deviato dall'armatura di Tasej-dan. A quel punto fu Osul-dan a prendere l'iniziativa per non perdere il vantaggio acquisito mettendo a segno il colpo, anche se non poteva valutare l'effettivo danno inflitto. Effettuando una lunga serie di attacchi inframmezzati a finte costrinse Tasej-dan ad arretrare di una decina di passi. Era quasi sul punto di sbilanciarlo pericolosamente all'indietro quando questi, con una mossa azzardata quanto inaspettata, si bloccò, sorreggendo col proprio corpo il peso di Osul-dan ed arrestandone così lo slancio. Preso alla sprovvista Osul-dan non poté reagire adeguatamente, Tasej-dan riuscì a tenere la posizione e ribaltò la situazione, respingendo l'avversario con la rotazione della spada in un mezzo arco dal basso verso l'alto e sollevando la lama di Osul-dan, che rimase scoperto all'attacco successivo e che per non essere colpito fu costretto ad indietreggiare, schivando al millimetro il colpo.
Poi, improvvisamente, Tasej-dan si trovò proiettato in avanti da un affondo andato a vuoto, mentre Osul-dan si abbassava su un ginocchio e puntava la spada verso il suo basso ventre. Impossibilitato ad arrestarsi Tasej-dan torse il busto in un disperato tentativo di evitare l'aguzza trappola. Sentì il colpo al fianco, il forte bruciore e la resistenza della lama che lo strattonava all'indietro.
Poi tutto accadde in una frazione di secondo. Si rese conto che la lama di Osul-dan, grazie alla sua torsione, gli aveva trafitto il fianco talmente a sinistra che non aveva leso neppure il muscolo. In quello stesso momento Osul-dan gliela torse nella carne per liberarla, strappandogli quei pochi centimetri di carne che la trattenevano. Con la coda dell'occhio Tasej-dan vide la lama allontanarsi, portandosi dietro un ventaglio di gocce color carminio. Tutto si muoveva con una lentezza innaturale. Lui che volava addosso ad Osul-dan, la spada che si allontanava alla sua sinistra in un arco rosso. Ignorando il dolore, ancora mezzo avvitato in aria, completò la torsione e roteò la spada lungo l'unica traiettoria possibile alla ricerca del braccio di Osul-dan. Un attimo dopo inciampò nel corpo dell'avversario e perse il senso della posizione nello spazio.
Colpì il suolo violentemente, in parte con la schiena e in parte con la spalla destra, e il colpo gli scosse le ossa. Osul-dan gridò. Stordito dal dolore e dal colpo contro il suolo Tasej-dan rotolò e si rialzò, stentando a riacquistare l'equilibrio. D'istinto si tamponò con la mano sinistra il fianco ferito e recuperò una precaria posizione difensiva.
In ginocchio, voltandogli le spalle, Osul-dan si stringeva al petto il polso mozzato e sprizzante sangue. La sua spada giaceva a pochi centimetri dal bordo della passerella, con la mano amputata che ancora la stringeva. Tasej-dan ebbe un momento di smarrimento: non aveva veramente sperato, in cuor suo, che quella mossa disperata avesse successo. Poi Osul-dan si voltò a guardarlo, digrignando i denti come un animale e gli occhi iniettati di sangue e pieni di una luce malevola. Con un guizzo si lanciò sulla spada, afferrandola con la sinistra, mentre il moncherino schizzava sangue ovunque. La spada nuovamente in pugno, Osul-dan si alzò ad affrontare la sua nemesi. Il dolore aveva acceso nei suoi occhi una luce folle.
-Non mi avrai! Non sarai tu ad uccidermi!
Un attimo dopo Tasej-dan lo guardò mentre si gettava nel canale. Si sporse a guardare, pieno di stupore, ma non vide nulla. L'acqua spumeggiante lo aveva inghiottito. Tasej-dan si chiese se potesse essere sopravvissuto a quel tuffo. Al tuffo forse sì, ma ferito e con l'armatura indosso sarebbe andato a fondo ed affogato.

Agun si era steccato alla meglio il ginocchio fratturato. Sapeva che non sarebbe mai guarito completamente, che sarebbe rimasto storpio a vita. Però, se a tornare fosse stato Osul-dan invece di Tasej-dan, non avrebbe avuto quel problema.
Udì un soffio alle sue spalle e si girò, vedendo infine la creatura che da tanti giorni li seguiva. Sicuramente la stessa creatura che aveva ucciso Dosuj. Ne aveva sempre avvertito la presenza, alle loro spalle, ma non si era mai mostrata. Cacciava prede solitarie, chi rimaneva indietro.
Mentre la creatura avanzava lenta verso di lui impugnò la daga, sapendo che non avrebbe avuto nessuna possibilità, anche se fosse stato sano. Sarebbe morto, ma non gli importava, si rese conto. La cosa non lo spaventava minimamente. La morte, anche il tipo di morte che gli si stava prospettando, era preferibile alla vita da storpio.

Udendo le grida Tasej-dan affrettò il passo, ma quando giunse alla piazza era già tutto finito. Riconobbe subito per Agun il corpo smembrato e semi divorato, ma non trovando i corpi di Mor ed Ivar rimase perplesso. Cosa era accaduto?
Si avvicinò all'Alterazione morta. Era stata uccisa con la spada di Ivar. Tasej-dan si meravigliò: nessun uomo poteva avere tanta forza da riuscire a trapassare con una spada un'Alterazione. Per non parlare dell'angolazione con la quale era stata affondata la lama: o il Toro si era messo in ginocchio o Ivar aveva spiccato un salto davvero notevole.
No, decise infine Tasej-dan. Come già sospettava Ivar non era un semplice umano. Qual era il suo segreto?
L'attacco lo prese totalmente alla sprovvista. Fu gettato a terra, la bocca contro il muschio, e mentre una schiuma nera gli riempiva gli occhi e le orecchie, accecandogli i sensi, si dette dello stupido per non aver capito subito in quale sequenza si erano svolti i fatti.

Il cuore di Akal-ghèjlàsh batteva ancora. Eunoè osservò soddisfatta i tre colli costellati di edifici abitati. Una parte minima della città, ma sempre grande rispetto alle città della restante parte del continente. Costruiti in pietra marrone chiaro, gli edifici, cinti da mura, svettavano più alti della giungla che aveva invaso il resto della città.
Un grande e apparentemente placido fiume dalle acque torbide e rossastre li divideva dalla loro meta. Un ponte ciclopico passava da una riva all'altra, in un lieve arco, costellato di statue, colonne e bassorilievi che coprivano ogni centimetro degli alti parapetti. E ogni immagine era più grottesca della precedente: demoni, ibridi, sacrifici umani, culti di adorazione, tutte immagini oscene nella loro degradazione, amplessi in cui uomini o donne si mescolavano e univano a mostri e animali.
A monte e a valle della loro posizione Eunoè poteva vedere altri due ponti uguali a quello che stavano per attraversare, entrambi crollati nel fiume.
-Questo sembra integro. Come mai gli altri due sono crollati?- chiese indicando i ponti in rovina.
-Sono stati distrutti-, rispose Mahaban guardando i ponti velati di bruma. -Fu durante la guerra civile. I Signori della Distruzione avevano assediato l'Imperatore nella Cittadella e lui fece distruggere due ponti su tre per avere un solo accesso da difendere.
Eunoè annuì. -Non mi hai detto chi vinse quella guerra-, chiese poi.
Il ruinoriano si strinse nelle spalle. -Nessuno. Furono la fame e le malattie a porre fine alle battaglie.
-La fame, le malattie e ciò che camminava per le strade di notte-, aggiunse Eunoè.
-Sono solo storie.
-Anch'io sono solo una storia?
-Muoviamoci!
Mahaban avanzò sul ponte ed Eunoè lo seguì. Stavano approssimandosi al momento decisivo.
Attraversarono il ponte, e il cuore cominciò a battere loro forte nel petto quando avvistarono un manipolo di soldati che li attendevano sull'altra sponda. Avevano corazze di bronzo e lunghe lance ornate di folte nappe di pelo giallo.
-Sono i Nakh-Shah, gli Uomini-Leone.
-Fanno parte dell'Orda?
-No. Sono le guardie dei Sacerdoti. Non vedo nessuno dei miei guerrieri, non capisco perché.
Si fermarono a cinque metri dai soldati, negri giganteschi dalle folte capigliature e i lineamenti grossolani, molto diversi da quelli sottili di Mahaban.
-Salute, Sar Mahaban-, disse il capo delle guardie.
-Salute, Banut-, rispose Mahaban, tranquillizzato dal fatto che il suo titolo di generale non fosse stato omesso. La testa di leone ruggente sulla bronzea corazza della guardia lo fissava minacciosa.
-I Sacerdoti vi aspettano. Seguitemi.
Mahaban ed Eunoè si incamminarono dietro a Banut, mentre i venti soldati della guardia si aprivano a ventaglio per fare loro da ala.
Occorse un cammino di altre due ore per giungere al palazzo dei Sacerdoti. Mahaban ed Eunoè furono condotti in due camere servite con un complesso sistema di tubature di acqua corrente. Poterono così lavarsi e cambiarsi gli abiti con vesti che furono portate loro da delle serve insieme a vassoi pieni di frutta fresca e secca e carne aromatizzata. Serviti e riveriti nel migliore dei modi ma, come ebbero modo di accorgersi praticamente subito, in quelle camere erano prigionieri. Così, mentre fuori dalle finestre il cielo si tingeva di lievi colori pastello, cancellati poi dalle calde tenebre della notte tropicale, e nel palazzo i servitori passavano di stanza in stanza ad accendere le lampade ad olio, non rimase loro che riposarsi in attesa dell'incontro con i Sacerdoti.

Ivar e Mor raggiunsero il ponte sul grande fiume il giorno successivo rispetto ad Eunoè e Mahaban. Sconvolti dalla stanchezza e affamati lo attraversarono senza pensare a cosa avrebbero trovato dall'altra parte.
Vi trovarono sei soldati, con corazze di bronzo che ostentavano teste di leone ruggenti. Tutti impalati con le loro lance. E una ragazzina ghignante seduta sulla murata del ponte. Guardando bene i sei cadaveri Ivar si rese conto, dalle loro ferite, che erano già morti quando erano stati infilzati sulle lunghe lance.
-Sei stata tu?- chiese Ivar.
La ragazzina rise. -Io? E come avrei potuto?
Ivar osservò i candidi denti di lei che risaltavano contro il nero della pelle e delle labbra sottili. Erano inquietantemente aguzzi.
-Aspettavi noi?
-Sì. Ho un messaggio dell'Imperatore.
-Non sapevamo ci fosse un imperatore- interloquì Mor.
-Ma l'Imperatore sa di voi Eletti- Sorrise allo sconcerto dei due. -L'Imperatore mi manda a dirvi di affrettarvi verso il suo palazzo. E' quello con tre torri. Troverete lì chi state cercando.
Ivar e Mor si voltarono a cercare con lo sguardo il palazzo imperiale tra le fitte costruzioni. Dopo averlo individuato tornarono a guardare la ragazzina, ma questa era scomparsa.
-Ivar?- chiese Mor con voce permeata di un leggero tremore. -Sei ancora sicuro che si tratti solo di politica?
Ivar sorrise. -Andiamo-, disse come tutta risposta.





Eunoè e Mahaban furono introdotti in un grande salone il cui pavimento era un variopinto mosaico rappresentante un gigantesco serpente con una cresta di penne lungo metà del dorso e lasciati soli.
-Mahaban, dov'è la tua Orda?- chiese Eunoè.
-I Sacerdoti devono essere riusciti ad allontanarla-, rispose il generale con voce carica di rabbia. -O sono riusciti a corrompere qualcuno dei miei luogotenenti o hanno creato a bella posta un'emergenza lontano dalla città.
Un gong risuonò cupo, una tenda scivolò di lato con un lieve fruscio e nove uomini avanzarono nella sala in fila. Vestivano tutti una veste marrone scuro senza decorazioni e di taglio semplice e tutti avevano in testa un cerchietto d'oro. Eunoè li guardò attentamente: la loro pelle non era nera come quella degli altri ruinoriani di varie etnie che aveva incontrato fino ad allora, ma di una tonalità spenta e grigiastra, quasi malata. Possibile fosse una casta chiusa di un'altra razza? Poi si accorse che erano tutti uguali. Raddoppiò l'attenzione: erano tutti e nove lo stesso uomo, solo che le nove copie avevano tutte età differenti. Non c'erano dubbi, non poteva trattarsi solo di persone molto simili. Aveva davanti lo stesso uomo in nove età differenti contemporaneamente!
-Non ti stupire, Eunoè.- Era stato il più vecchio dei nove, il primo ad entrare, che aveva parlato, ma la sua voce era come se fosse composta da molte voci sovrapposte. -Sei giunta alla fine ed all'inizio del cerchio.
-Cosa dite? Cosa significa?- Una sensazione per lei rara le aveva riempito improvvisamente il cuore a quelle parole: la paura. Non paura dovuta ad un timore fisico, bensì di rimanere delusa nelle aspettative e nelle sue certezze, di trovare qualcosa che non era ciò che cercava.
-Taci ora, affronteremo dopo questo argomento.
"Sar Mahaban, vieni avanti.
Mahaban avanzò, impettito e con una mano sull'elsa della spada. Nei suoi gesti spavaldi Eunoè lesse timore ed incertezza.
-Sar Mahaban-, continuò il Sacerdote la cui voce era composta da quella di tutti e nove i Sacerdoti. -Ti sei comportato da stolto!
-Cosa!?- Mahaban urlò, la rabbia montante dentro di lui aveva cancellato ogni paura.
-Con le tue azioni sconsiderate ci hai condotto tutti sull'orlo della rovina-, incalzò il Sacerdote. -La violenza che hai perpetrato ed il sangue che hai versato per consolidare il tuo potere, le stragi che hai commesso in nome dell'unificazione dell'Impero, hanno nuovamente destato il potere oscuro che dorme sotto la nostra città. Abbiamo dovuto allontanare l'Orda di Distruzione da Akal-ghèjlàsh per impedire che i demoni tornassero a camminarvi liberamente, e non è detto che non accada ugualmente.
-Voi e i vostri demoni! Pazzi arroganti! L'Orda è mia, non avevate il diritto di allontanarla dalla città senza il mio permesso!
-L'Orda è un catalizzatore. Freme della violenza che rinforza il potere oscuro. Per la nostra incolumità andava allontanata.
"Adesso dobbiamo trovare un modo di imbrigliare le forze che così impunemente hai risvegliato.
-Non esiste nessuna forza occulta!- urlò Mahaban afferrando la spada.
L'aveva già snudata a metà quando con uno schianto la grande porta della sala si spalancò e i due battenti andarono a sbattere contro le pareti. Tutti si voltarono a guardare una ragazzina ghignante dai denti appuntiti che stava al centro del portone.
-Sacerdoti!- annunciò la ragazzina ad alta voce. -L'Imperatore desidera vedervi. Immediatamente. E vuole vedere anche i vostri... ospiti.
I nove sacerdoti si guardarono l'un l'altro, ammutoliti e con espressioni a metà fra la paura e lo stupore. Eunoè osservò turbata quell'improvviso mutamento. Poi i nove attraversarono la sala, dicendo a Mahaban ed Eunoè di seguirli. Tutti e undici si incamminarono dietro la ragazzina, che li condusse fuori della sala, oltre i cadaveri di alcuni Uomini-Leone col collo spezzato e gli occhi resi vitrei dalla morte pieni di terrore puro, e poi fuori nelle strade, diretti verso il palazzo dell'Imperatore.

L'Imperatore era un uomo alto e dall'aspetto giovanile, coi capelli raccolti in numerose lunghe treccine. La sua pelle era nera come il giaietto, uniforme e priva di alcuna sfumatura: anche le labbra e il palmo delle mani avevano lo stesso colore. Li aspettava seduto scompostamente su un trono disadorno e posto a livello del pavimento, un gomito puntellato su un bracciolo e la testa appoggiata alla mano dello stesso braccio, una gamba accavallata sull'altro bracciolo. Fece un sorriso alla ragazzina, che era evidentemente una sua consanguinea, la quale rispose con un cenno del capo e proseguì fino ad una porta dorata posta dietro il trono, oltre la quale scomparve richiudendosela alle spalle.
-Perché ci hai convocati?- chiese minaccioso uno dei Sacerdoti di mezza età.
-Calma-, rispose l'Imperatore con un sorriso soave. -Non ci siamo ancora tutti.
-Che vuol dire?- chiesero altri due Sacerdoti alzando il tono della voce di un'ottava.
In quel momento Ivar e Mor irruppero nella sala, le armi in pugno, sudati e coperti di croste di fango e polvere.
-Bene-, esclamò giovialmente l'Imperatore. -Adesso ci siamo tutti.
Mahaban ed Eunoè fissarono i due Eletti appena sopraggiunti.
-Io ti conosco-, disse Eunoè con un sorriso soddisfatto rivolta ad Ivar. -Ivar Ixtriamyz detto l'Acuto, il deicida di Lankhmar. Ti ho posseduto un tempo.
-Solo il mio corpo, non il mio spirito-, rispose Ivar con un ringhio, sotto lo sguardo allibito di Mor.
Il sorriso di Eunoè si accentuò. -Ciò che ho posseduto una volta è mio per sempre.
-Smettila, donna!- ordinò l'Imperatore con una voce tanto dura che parve zittire anche il fruscio della brezza. -Al confronto delle forze che governano qui nel cuore di Ruinor i tuoi poteri sono niente.
Eunoè non riuscì a ribattere subito come avrebbe voluto: le parve che la lingua le fosse divenuta priva di vita in bocca. E quando infine stava per riuscirci dalla stanza oltre la porta dorata giunse uno schianto, seguito da un coro di urla femminili. Un ruggito spaventevole sommerse le grida, poi seguirono altri schianti e dei colpi come di corpi sbattuti contro i muri.
Il volto dell'Imperatore sbiancò.
-Nooo!- Il suo urlo disperato sovrastò il fracasso che giungeva da oltre la porta chiusa. -La mia Famiglia!- Saltò dal trono, corse alla piccola porta dorata, ne afferrò le maniglie e le scosse con violenza nel vano tentativo di aprire la porta: sembrava che dall'altro lato qualcuno la tenesse serrata.
Intanto, mentre l'Imperatore scuoteva la porta e lanciava urla disperate e strazianti nel loro dolore, le urla, i ruggiti, i tonfi sordi e il rumore di carne squarciata continuavano. Finché, improvvisamente com'era cominciato, tutto tacque. Il silenzio immobilizzò l'Imperatore, che parve pietrificarsi, col pomo della porta ancora stretto tra le mani, e rimase in ascolto.
Poi la porta esplose, scaraventando l'Imperatore a terra, che rotolò insieme a schegge di legno dorato fino in mezzo al gruppo dei Sacerdoti e degli Eletti.
Mentre l'Imperatore si rialzava un uomo, nudo tranne per un perizoma, avanzò attraverso la porta. Nella sinistra, rivolta verso terra, impugnava una spada lorda di sangue; con la mano destra trascinava per i capelli un corpo, a malapena riconoscibile per quello di una giovane donna o di una ragazza, fosse la stessa ragazzina dai denti aguzzi che aveva condotto lì i Sacerdoti e gli Eletti. L'uomo aveva dipinto sul volto un teschio bianco. Alle sue spalle, oltre la porta, c'era lo spettacolo di una stanza devastata, le pareti sporche di schizzi di sangue e macchie grigie di materia cerebrale, il pavimento cosparso di corpi smembrati e organi interni.
-Tasej-dan-, sussurrò Ivar.
-No-, rispose l'Imperatore. -Non è più Tasej-dan. O meglio, non è più soltanto Tasej-dan.
Il Portatore di Morte rise sguaiatamente, gettando indietro il capo, rivelando lunghi canini e un grosso verme grigio al posto della lingua.
-Hai detto bene, Imperatore-, rispose con voce roca e sfrigolante come sangue versato su una lastra rovente. -Ora siamo in tanti, qui dentro. E siamo venuti tutti a cercare te.
Voltò la testa verso il cadavere della ragazzina e gli sputò il verme sulla faccia. Quello si scavò svelto una galleria sotto la pelle sanguinolenta e lì cominciò a riprodursi velocemente. Il perizoma che copriva i lombi del guerriero nero si strappò, mentre il suo pene si trasformava in un serpente dimenante, che si contorse staccandosi dalla sua carne e cadde a terra. Contemporaneamente la carne intorno alle orecchie si spaccò sprizzando icore scuro. E mentre vermi a centinaia prendevano a brulicare fuori dalle ferite del cadavere della ragazzina, dai lati della testa di Tasej-dan presero ad emergere due musi ferini, uscendo dagli squarci della carne, quelli di un lupo e di un cane, seguiti dalle zampe e dal resto dei corpi, che nella loro nascita tiravano via la carne dal teschio del Portatore di Morte.
Ivar notò con la coda dell'occhio che anche l'Imperatore aveva iniziato a mutare, acquistando massa e dimensioni, trasformandosi in un enorme diavolo zannuto e nero. Senza indugiare oltre richiamò l'Alterazione Bestiale che covava in lui e che da così tanto tempo bramava risvegliarsi. Dopo una manciata di secondi la Iena troneggiava al centro del gruppo degli umani.


  Il cadavere della ragazzina si rialzò in piedi, brulicante di grossi vermi grigi che ne ricoprivano ogni centimetro di pelle, e andò a porsi a fianco di Tasej-dan. Poi scoppiò il caos. Da porte e finestre si precipitarono nella stanza ibridi uomo-felino, grossi pipistrelli vampiri ed altre creature volanti. La Iena scagliò il giavellotto appartenuto al defunto Agun, che trafisse il Cane Garmr a metà di un balzo e lo inchiodò con un guaito di morte al muro. Alcuni Sacerdoti caddero e furono sbranati, altri fuggirono. Ivar artigliò e morse, fendendo la calca di creature ululanti. Vide l'Imperatore gettarsi sul cadavere brulicante di vermi e vomitargli addosso un getto di liquido giallognolo che lo consumò trasformandolo in una poltiglia informe. Poi cadde a terra sotto gli assalti del Lupo Fenrir e di un ibrido uomo-pantera. Ivar fu graffiato vicino agli occhi da un pipistrello, allora raccolse da terra un cadavere e cominciò a menare colpi all'impazzata usando il corpo come una clava.


Il più giovane dei sacerdoti corse con la velocità che solo la paura aveva potuto dargli. Semi accecato dal sangue che gli usciva da una ferita alla fronte andava continuamente a sbattere contro colonne e statue, inciampava e rotolava giù per le gradinate. La totale mancanza di esseri umani, il vuoto e il silenziò che trovò nei cortili dei palazzi, nelle piazze e nelle strade, sottolineati dalle urla e strida e dai ruggiti bestiali che giungevano dal palazzo dell'Imperatore, lo sconvolsero ancor più della carneficina operata dai demoni e a cui era scampato per puro caso.
Accecato e folle di paura corse fino al recinto del Serpente Piumato, posto sul retro del loro tempio, sicuro che solo il suo dio avrebbe potuto proteggerlo. Tolse i blocchi alle catene e i contrappesi, che da decenni aspettavano inutilizzati, sollevarono stridendo la saracinesca che chiudeva l'unico accesso al recinto, simile ad un labirinto, in cui il Serpente era rinchiuso.
-Serpente Piumato, Sovrano della Foresta, Signore di Akal-ghèjlàsh, aiutaci tu!- urlò.
Il Serpente Piumato avanzò dai meandri del labirinto in cui era stato rinchiuso quando ancora era giovane. Trascinò il suo gigantesco corpo verso la luce del sole, le rosse penne chitinose che formavano la sua cresta erette per l'eccitazione. Si sollevò per metà, abbagliato dalla luce. Vide in basso il piccolo uomo vestito del colore dei tronchi d'albero che sollevava le braccia verso di lui. La sua lingua sibilò annusando l'aria. Percepì l'odore della paura e del sangue misto a un odore antico di melma e fango, ma soprattutto percepì l'odore dell'odiato nemico, di colui che lo teneva prigioniero.
Il Serpente Piumato scattò, la bocca munita di molteplici file di fitti denti affilati come lame si avventò verso il basso e si richiuse con uno scatto. Il cadavere decapitato del Sacerdote cadde a terra.

Il silenzio invase il palazzo dell'Imperatore. Ivar si guardò attorno, cercando di riconoscere i cadaveri al di sotto dello strato di sangue e icore, brani di carne e arti demoniaci. Appeso al muro il Cane Garmr spenzolava la lingua dalla bocca aperta, da cui colava un filo di bava gialla. Pipistrelli e demoni giacevano ovunque in mucchi, e alcuni sacerdoti, i corpi sbranati, erano mescolati ad essi. Il cadavere ricoperto di vermi era solo una poltiglia semisolida, e il Lupo Fenris era buttato in un angolo con le fauci spaccate fino alle orecchie. Mahaban, appoggiato ad un muro, guardava con occhi spalancati la carneficina: la sua lama sbucava dalla schiena di un ibrido uomo-leopardo che anche nella morte lo stava azzannando alla gola. Il grosso Serpente Midgardsomar era tutto arrotolato da una parte, un pugnale d'argento conficcato nel cranio, e poco oltre Eunoè lo guardava fisso con occhi vitrei pieni di terrore. A quel punto Ivar si accorse che il cadavere che reggeva per una caviglia e che aveva usato fino a poco prima come un'arma era quello di Mor, a giudicare dal colore bianco della pelle, dato che le vesti erano state strappate via e che la testa e parte del busto, da cui un braccio si era staccato, erano ridotti in poltiglia.
Ivar alzò lo sguardo su Tasej-dan. Il teschio insanguinato, quello vero, strabuzzava gli occhi, con alcuni brandelli di carne sanguinolenta ancora attaccati vicino al naso storto. La punta di una lama fuoriusciva da appena sopra lo sterno. Poi la spada fu ritratta e uno sbocco di sangue zampillò nell'aria, scuro e caldo, fumante. Tasej-dan cadde in avanti, rivelando Osul-dan, che si teneva contro il petto il moncherino cauterizzato del braccio destro. Un ghigno di perversa soddisfazione comparve sul suo volto sporco di fango e sangue, poi anche lui cadde, mentre una melma nera cominciava a ribollire fuori da ogni squarcio delle carni di Tasej-dan.

Il Serpente Piumato proseguì nella ricerca dei suoi nemici e torturatori. Dopo il primo sacerdote ne aveva trovati altri due, nascosti in angoli sperduti e li aveva fatti a pezzi. Adesso si dirigeva dove il loro odore era più forte.
Quando giunse sul posto gli odori di sangue e morte e quello antico dell'abisso lo pervasero rendendolo folle, e non poté fare altro che attaccare.

L'urlo dell'Imperatore fu atroce. Ivar si lanciò ruggendo ad afferrare la spada di Tasej-dan, poi contro il Serpente Piumato.
Il mostro serpentiforme aveva azzannato l'Imperatore ad un fianco e lo stava scuotendo, tenendolo sollevato a due metri da terra, mentre l'uomo-diavolo gli squarciava il muso e gli occhi con gli artigli quanto più profondamente poteva. Ivar colpì a fondo il corpo del serpente, cercando vanamente di mozzarlo, e un attimo dopo si ritrovò imprigionato nelle sue spire. Continuando a colpire nello stesso punto Ivar quasi riuscì a tagliare in due il Serpente, che d'un tratto lasciò andare l'Imperatore e si voltò per morderlo. La Iena bloccò la testa serpentina con una mano e le conficcò la spada nel palato. Poi l'Imperatore l'afferrò da dietro, sbattendola a terra e bloccandola il tempo necessario perché Ivar la trafiggesse con la spada. Un ultimo fremito e il Serpente Piumato morì.

Riprese sembianze umane Ivar rimase a guardare Eunoè, Signora del Lete, accocolata contro un muro, oltre la carcassa di Midgardsomar, una delle creature che un tempo aveva servito ed ora aveva ucciso in preda alla paura. Era divenuta stranamente apatica.
L'Imperatore sghignazzò. Il sangue aveva smesso quasi subito di fuoriuscire dalla ferita al fianco, ma lo sbrano nelle sue carni aperto dai denti del Serpente Piumato lasciavano presagire che aveva poche speranze di sopravvivere nonostante i suoi poteri.
-Ivar di Lankhmar-, disse l'Imperatore, -uccisore di Gull il dio-rana e ora di molte altre creature chiamate dèi.
Ivar guardò il sorriso sardonico dell'Imperatore, che era andato a sedersi sul trono lordo di sangue, non tanto per recuperare un'autorità di cui non aveva bisogno, ma perché le forze gli stavano venendo meno.
-Credo che tu sia curioso di venire a conoscenza della storia di Ruinor e del suo Imperatore-demone.
Ivar annuì.
L'Imperatore chiuse gli occhi ed emise un sospiro. -E' una storia antica. Si dice che ebbe inizio prima che gli uomini migrassero dalla Culla e si moltiplicassero fino ad abitare l'intero continente.
"Accadde, in quei tempi remoti di cui conserviamo ben poca memoria, che delle forze, delle potenze oscure prendessero forma nel fango e nella melma antica su cui questa foresta già allora cresceva rigogliosa. Se vi furono create o se vi nacquero da sole, spontaneamente, non si sa. Comparvero, e questo è ciò che in fondo conta realmente. Erano ciò che gli uomini della Mezzaluna hanno imparato a conoscere e temere col nome di Misteri.
"Ma contemporaneamente a loro comparve anche la stirpe da cui io discendo, chiamata Famiglia. Forse per un bilanciamento naturale. I Poteri Oscuri e la Famiglia furono nemici fin dal principio, sebbene la materia che ci compone sia la stessa: le forze primieve cercavano di lasciare le paludi della giungla, la Famiglia aveva il compito di impedirlo, per preservare la propria stessa esistenza e natura. Per questo scopo i miei antenati crearono Ruinor.
"Col trascorrere dei secoli il sangue della Famiglia andò indebolendosi, e con esso la sua forza. Tanto che un mio antenato, quando giunsero quegli strani maghi che hai conosciuto col nome di Sacerdoti, non li uccise né li scacciò come sarebbe stato bene, e finì anche per accettarne l'aiuto. Le loro origini sono sconosciute, come troppe cose in questa storia, la loro natura ed essi stessi sono un mistero: erano lo stesso uomo, ma anche nove uomini diversi; il loro numero non variava, perché quando uno di essi moriva di vecchiaia o veniva ucciso un altro nasceva, e si riproducevano senza bisogno di donne.
"Cominciarono a parlare di imbrigliare i Poteri Oscuri anziché soffocarli, e i miei antenati dettero loro ascolto. Nacquero così le Orde di Distruzione, immensi eserciti il cui vero compito era quello di fungere da catalizzatori. I Poteri vennero così asserviti a e mediante le Orde, che col potere così ottenuto dilagarono per il mondo, creando il Portatore di Rovina, l'Impero di Ruinor. Ma quando l'Impero collassò le tre forze che ne erano i pilastri presero a farsi guerra tra loro, e i Poteri Oscuri ne approfittarono liberandosi e lottando contro di noi. La Famiglia fu quasi sterminata, i Signori della Distruzione dispersi e i Sacerdoti si rivolsero all'adorazione del Serpente Piumato, scambiando nella loro follia quell'animale mostruoso per un dio. Nonostante tutto ritenevano ancora di poter imbrigliare i Poteri Oscuri ed utilizzarli per i loro scopi.
"Da allora la lotta fu estenuante, sebbene combattuta in segreto. I Poteri Oscuri erano riusciti a piantare un seme fuori da Ruinor, e la pianta che ne germogliò crebbe fino al suo scontro con la Chiesa del Drago Verde. La morte di Anjèj-Kèlsh ibn Kadàr e la persecuzione della Società degli Eletti sono solo due episodi di quello scontro, che ha portato alla distruzione di entrambi i contendenti.
"Ora la lotta è nuovamente confinata nel cuore di Ruinor, e dopo lo scontro di oggi i Poteri Oscuri sono molto indeboliti. E forse qualcuna di queste forze maligne è definitivamente morta e non rinascerà più.
Ivar ascoltò tutto in silenzio, fin quando l'Imperatore tacque.
-La tua Famiglia è stata sterminata, però-, disse poi. -E tu sei in punto di morte. Se dici che i Poteri Oscuri sono stati sconfitti solo temporaneamente, è solo questione di tempo prima che riescano a liberarsi.
-Oggi è venuta a me una sposa-, rispose l'Imperatore. -Da lei nascerà un nuovo ramo della Famiglia, con sangue giovane e forte. Io le darò un figlio maschio, che una volta cresciuto si accoppierà con lei molte volte. I loro figli si accoppieranno fra loro e coi genitori, e la Famiglia tornerà numerosa.
-Numerosa e dal sangue debole-, aggiunse Ivar.
-Questo è inevitabile. A meno che tu non decida di rimanere, come marito delle figlie di Eunoè.
Ivar scosse la testa.
-Bene, la scelta doveva essere tua. Ma ora é tempo che generi la mia discendenza.
L'Imperatore si alzò e andò da Eunoè. La fece distendere e le strappò di dosso le vesti. Ivar ebbe un fremito di desiderio nel vedere quel corpo bellissimo che già una volta, una volta soltanto, aveva posseduto.
Rimase a guardare quell'amplesso, consumato senza passione alcuna. Quando l'Imperatore si ritrasse da Eunoè, vide un piccolo mucchio di sottilissimi tentacoli neri agitarsi fra le cosce di lei e subito scomparire dentro il suo corpo.
-Perché lei non dovrebbe tradirti?- chiese Ivar. -Serve i Poteri Oscuri.
-Non può più-, rispose l'Imperatore. -Per paura ha ucciso uno di loro ed ormai è segnata: non conoscono il perdono. E il mio seme, inoltre, sarà un impedimento verso quella tentazione.
Tornando a guardare Eunoè, Ivar vide che il suo ventre si era già ingrossato.
-Resterai per aiutarla nel parto?- chiese l'Imperatore. -Sarà una cosa facile e veloce.
Ivar annuì.
-Grazie. Mio figlio penserà a seppellirmi.
Quando Ivar si voltò di nuovo verso l'Imperatore vide che era morto.


Epilogo

LA LEGGENDA DEL DIO SENZA NOME

I Profeti del Dio Senza Nome da sempre percorrevano le terra, parlando del loro Signore ed ammonendo gli uomini nel suo nome. Ma gli uomini non li vedevano realmente, perché i loro occhi erano pieni delle Potestà, e non potevano udire le loro parole, perché nelle orecchie avevano le urla e i ruggiti delle Forze. E non potevano avvertirne la vicinanza perché nel cuore avevano solo il desiderio di eguagliare le Potenze.
Ma quando il cammino giunse nuovamente all'inizio del cerchio il Dio Senza Nome mandò i suoi Profeti a dire: -Quando vivevate nella Culla, isolati dalle Potestà, udivate la mia voce. Ora, per lungo tempo, non mi avete ascoltato. Ma ora ho liberato il vostro cuore, e voi potrete mantenerlo puro.
E i suoi Profeti tornarono a camminare per il mondo. E a tutti coloro che si fermavano a parlare con loro dicevano: -Ora la strada è sgombra. Il velo di nebbia è stato sollevato per tutti gli uomini che desiderano mettersi a cercare. Incamminatevi verso il luogo da cui giungeste in principio.




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