Sunday 2 June 2013

Una parte della storia italiana che a qualcuno fa comodo sia dimenticata


Il brano seguente e' tratto dal libro "Canale Mussolini", opera di Antonio Pennacchi. Consiglio a tutti di leggerlo attentamente, o meglio ancora di leggere il libro intero, che spiega molte cose su un periodo importantissimo della storia italiana, di come ci si sia arrivati e di quali siano stati gli sviluppi. Lasciando da parte faziosita' politiche o di qualsiasi altra ideologia. Ricordatevi solo di chi siete figli e nipoti.

Nel 1928 – quando il Consorzio di bonifica di Piscinara aveva dato inizio all’impresa – c’era un problema solo: levare l’acqua. Quello era l’imperativo loro. Ma per levare l’acqua dovevano prima entrare nel territorio: «Come facciamo a scavare i canali senza le strade per portare sul posto le macchine, le maestranze e i materiali?». Ma anche per fare le strade bisogna prima portarci gli operai. Mica gli si possono far fare tutti i giorni venti o trenta chilometri avanti e indietro in mezzo alle paludi, prima di attaccare a lavorare. Bisogna farli dormire lì, vicino ai cantieri. Lei ha presente la storia se è nato prima l’uovo o la gallina? Ecco, qui è così. Qui non sono nate per prime le strade o i canali, prima è nata l’urbanizzazione e dopo la bonifica.
Lo scavo del Canale Mussolini inizia difatti nel 1928, ma due anni prima erano stati costruiti al Cancello del Quadrato – dove poi sorgerà Littoria – i fabbricati del Consorzio. Fino al 1914 al Quadrato non c’era niente, solo una riserva per il bestiame, chiusa da una staccionata di legno ed un cancello da cui appunto il toponimo Cancello del Quadrato.
Nel 1926 il Consorzio impianta qui il suo primo villaggio, perché il Quadrato sta al centro dell’area da bonificare – a metà strada tra l’Appia e il mare – ed è quindi il posto ideale per installarci la direzione strategica delle operazioni. Ma l’acqua vera viene da su, da nord le ho detto, e l’anno successivo – per poter cominciare a scavare il Canale Mussolini – costruiscono il Villaggio operaio di Sessano che oggi è Borgo Podgora.
A Sessano all’epoca non c’era niente, solo un casale e una vecchia torre cinquecentesca dei Caetani. Ma non c’è strada. C’è uno sfilo, ossia una specie di pista spesso impraticabile. Loro debbono quindi fare la strada per poi poter scavare il Canale, e allora ci fanno il Villaggio. Sulle prime mappe non è nemmeno disegnato l’incrocio, ma intanto fanno le case, una chiesetta, l’infermeria, gli alloggi per i tecnici e dirigenti e – più discosti e decentrati – sette casali per i dormitori operai. Fanno quindi il Villaggio per poter fare la strada per poter fare il Canale, e a tutto il resto ci penseranno dopo.
Nel corso della storia umana i villaggi e le città si sono formati normalmente quasi tutti sulle vie di traffico. A forza di passarci – o ai punti di guado o agli incroci con altri sentieri – ogni tanto qualcuno si ferma, costruisce una baracchetta e lì cominciano a fermarsi e magari a commerciare anche altri viandanti. Allora si sparge la voce e sempre più gente va lì e tira su una nuova baracchetta, un’altra ancora e nasce la città. Pure Roma è nata così: come emporio, come posto di scambio e di mercato tra Etruschi, Sabini e Latini. Sono quindi le strade e i traffici che normalmente fanno nascere le città.
In Agro Pontino è stato il contrario e sono state le città -quei villaggi – a far nascere le strade. E difatti sono «città di fondazione» perché non sono nati una casa qui e un’altra là spontaneamente, ma ci è venuto prima un geometra, quando ancora non c’era niente, e ha detto: «Qui ci verrà una casa, lì la chiesa, un’osteria, i carabinieri, la piazza e tutto il resto, e ogni casa che verrà dopo dovrà mantenere questa e quest’altra distanza dalla strada e da tutto il resto». E hanno cominciato a lavorare e a tirare su i muri.
All’inizio è il Consorzio di bonifica – consorzio tra i vecchi proprietari latifondisti – che parte all’assalto della palude e si mette a fare i villaggi. Ma quando partono, ancora non sanno dov’è che devono arrivare. Partono un po’ alla cieca, devono solo asciugare l’acqua e poi si vedrà: faranno grandi aziende agrarie capitalistiche e meccanizzate, e i quattro o cinque villaggi che hanno costruito per bonificare gli torneranno magari utili come borghetti “residenziali” in cui tenere i pochi operai o braccianti che ogni tanto potranno servire nelle aziende. Stop. Nemmeno gli passa per la testa – nel 1928 – che tra capo e collo gli sta per arrivare la tegola dell’Opera nazionale combattenti che gli espropria tutto.
Questa Opera nazionale combattenti era nata prima dell’avvento del Duce e del fascismo, era nata nel 1917 durante la Prima guerra mondiale. L’aveva fatta Nitti – un liberaldemocratico di sinistra – non solo per dare in qualche
modo assistenza ai reduci, ma soprattutto per mantenere le promesse che erano state fatte dopo Caporetto, ovvero che a guerra finita si sarebbe data finalmente «la terra ai contadini». Questa Opera combattenti s’era pure messa a bonificare qualcosina in giro per l’Italia, ma nel 1929 – quando il Duce decide di metterci a capo il conte Cencelli – era oramai in via di smobilitazione, si occupava di tutto senza occuparsi più di niente. Un carrozzone all’italiana. Pieno di raccomandati.
Cencelli ci entra con la frusta, caccia centinaia di persone, ne assume altre e lo rimette in piedi: «Qui bisogna bonificare le terre e darle ai contadini». Questo era il mandato che il Duce e il Rossoni gli avevano affidato spedendolo nel Pontino come un proconsole, con pieni poteri e carta bianca dappertutto. Lui appena arriva comincia a strillare che fino a adesso hanno battuto la fiacca, che non si fa così una bonifica e che di questo passo ci vogliono generazioni.
A quelli del Consorzio gli piglia lo scorbuto, anche se la bonifica idraulica rimane formalmente competenza loro, mentre l’Opera dovrebbe solo organizzare, gestire e sovrintendere la parte agraria e umana della bonifica. Essendo però oramai divenuta con gli espropri il più grande proprietario, adesso anche nei Consorzi è l’Opera il maggiore azionista e Cencelli il ras assoluto. In realtà, i settantamila ettari appoderati nel Pontino non è che l’Opera li avesse presi proprio tutti con l’esproprio, strappandoli brutalmente ai vecchi proprietari. Una parte sì, ma un’altra parte di terreni – per fare prima ed evitare lungaggini burocratiche e ricorsi giudiziari – l’aveva direttamente comprata dai proprietari stessi, anche se al prezzo stracciato che diceva lei: «O prendi i soldi che ti offro, oppure ti faccio il decreto di esproprio». Ai privati quindi non fu tolto tutto e al principe Caetani, per esempio, furono lasciati i latifondi al di là dell’Appia (dove ora sorgono i Giardini di Ninfa ndr), tra l’Appia e i monti, ma a condizione che bonificasse pure lui e li frazionasse a singoli poderi -costruendo naturalmente stalle e casali e mettendoci dentro i mezzadri – se no Cencelli gli levava tutto.
E il principe Caetani – che per settecento anni non aveva mai mosso un dito in palude, prosciugato un secchio, scalzata una ranocchia – bonificò, colonizzò e immise pure lui di corsa sulle terre sue, famiglie intere di mezzadri provenienti dall’Umbria e dalle Marche.
Cencelli dunque si mette fin dall’inizio a pestare calli -Rossoni e il Duce lo avevano scelto proprio per questo, perché era un carro armato – e in un batter d’occhio si piglia a male parole con tutti. Ora è vero che erano tutti fascisti e tutti agli ordini del Duce, però come lei sa c’è stato fascismo e fascismo e soprattutto eravamo in Italia, tutti figli di Roma e di Romolo e Remo. E se hanno litigato quei due che erano fratelli gemelli, si figuri un po’ questi che non erano neanche cugini. Nelle manifestazioni ufficiali e davanti al popolo stavano tutti assieme sopra il palco e non facevano che sorridersi e salutarsi con il Cencelli, e tutti a dire: «Il fascismo di qua! la bonifica fascista di là! tutti in un sol corpo unito per la Patria e per il Duce». Ma appena scendevano dal palco le coltellate facevano fumo. Tale e quale adesso peraltro. Sia a destra che a sinistra.
Quelli del Consorzio – in fin dei conti – fino al giorno prima avevano comandato a bacchetta. Giravano avanti e indietro come fossero i padroni delle Paludi. Ogni geometra del Consorzio si sentiva un padreterno, ogni assistente un dio e pure il cavallaro si credeva san Michele Arcangelo. E all’improvviso arriva Cencelli e mette tutti sull’attenti: «Guai a chi fiata, guai a chi dice una parola». È ovvio che gli abbia roso e si siano messi a rispondere a muso duro. Ma non era solo una lotta di potere personale e di ambizioni: «E che sei, meglio di me?». Dietro c’era proprio un diverso modo di intendere sia la bonifica che il fascismo. Destra e sinistra, diciamo così.
Le bonifiche difatti non sono un’invenzione di Mussolini, ma un problema che l’Italia unitaria s’era posta subito dopo il Risorgimento e l’unificazione nazionale. Tutte le pianure del Centrosud erano completamente abbandonate da secoli e la gente s’era ritirata sopra i monti, prima per la difesa dalle
invasioni dei barbari e dei saraceni, e poi per i latifondi e la malaria. Un deserto. Ed è quindi già alla fine dell’Ottocento che si iniziano a fare – ma sempre e soprattutto in Valpadana – le prime leggi e i primi grandi interventi di bonifica per iniziativa dei privati, che intendevano giustamente incrementare le colture e i guadagni. Non è che fossero filantropiche.
Nell’Italia centromeridionale invece – che era quella che ne aveva più bisogno, perché più povera e più malarica -non s’era mai mossa una paglia, poiché non esisteva un ceto imprenditoriale vero e i ricchi proprietari si accontentavano di raccogliere quello che arrivava e di mangiarselo nei loro palazzi di città. È così che dai circoli di Nitti e della Banca Commerciale nasce l’idea – per modernizzare il Mezzogiorno – di farlo diventare anche lui capitalista a tutti i costi: «Se i ricchi del Sud non sono capaci, andiamo noi del Nord al posto loro». Ma con i soldi dello Stato ovviamente.
E così fanno nel Pontino, col finanziere Clerici, i Caetani e Omodeo. Ma finì a scandali. Intanto i ricchi proprietari del Sud s’erano incazzati, Nitti era caduto, era caduta la “vecchia Italia” ed era arrivato al potere il Duce, che non aveva però una gran classe dirigente e la sera – prima d’addormentarsi – ogni tanto pure lui dentro il letto si chiedeva: «Ma a me mi sa che un Paese non si può dirigere solo coi manganelli e le schioppettate. A me mi sa che mi ci vuole pure qualche tecnico». Così i tecnocrati dei circoli nittiani passano al fascismo, lui se li prende perché gli fanno comodo e loro ripartono: aggiustano il tiro e ripartono. Chiedono scusa agli agrari meridionali e fanno marcia indietro: «Va bene, bonificheremo con voi attraverso i Consorzi dei proprietari». Loro sono di scuola economica liberale, avrebbero voluto i padroni moderni del Nord, ma a questo punto si accontentano pure di quelli retrivi del Sud. Tertium non datur e un padrone privato ci deve stare per forza, perché senza capitalismo non si va avanti. Ma nel loro mestiere sono bravi e finalmente – dopo secoli e secoli di incuria e d’abbandono da parte dei
proprietari – nel 1928 la bonifica idraulica comincia per davvero. Con i Consorzi dei proprietari. Ma chi è che paga secondo lei?
Ecco: tutta la bonifica idraulica, con lo scavo di fossi e canali e la sistemazione d’ogni corso d’acqua, era a totale carico dello Stato. Gli altri lavori invece – ossia ogni opera edile e stradale, le alberature, il consolidamento delle dune, la bonificazione dei laghi, la provvista di acqua potabile e di energia elettrica – lo Stato li pagava solo per il novantadue per cento, mentre l’altro otto per cento se lo dovevano sobbarcare i poveri proprietari. Ha capito?
Tu avevi un pezzetto di terra – migliaia d’ettari – che stava sott’acqua, ci crescevano solo le ranocchie e se te lo volevi andare a vendere, non se lo pigliavano nemmeno regalato. All’improvviso te lo ritrovi tutto asciutto, con le strade, i ponti, le file d’alberi e i pali della luce. Lei che dice, quanto vale di più? Be’, tu non ci hai speso una lira, ha fatto tutto lo Stato. Tu sì e no hai cacciato l’otto per cento per il ghiaietto della strada. Anzi, se poi su quel pezzo di terra – che prima stava tutto sott’acqua e adesso è bello e soleggiato e ci puoi arrivare anche in carrozza – ti ci costruisci una casa le stalle i fienili e tutto quello che ti pare, pure lì il trentotto per cento lo paga lo Stato. Lei permette allora che il Duce nel 1931 abbia detto «Ma va’ in malora va’, ma tu sei scemo»? Quello sarà stato pure Mussolini e avrà fatto la dittatura, il totalitarismo, le leggi speciali, le guerre, le persecuzioni contro gli ebrei – ci ha portato al disastro, insomma – ma da giovane era stato socialista come mio nonno e pure a San Sepolcro, quando ha fondato il fascio, aveva un programma di sinistra. Allora ha detto: «Sai che c’è? A me mica mi sta bene che io caccio i schèi e il guadagno poi va ai proprietari. A questo punto do la terra ai contadini». Ha chiamato Cencelli e gli ha detto: «Mettiti l’elmetto».
E quello se l’è messo. Tanto è vero che il giornale dell’Opera combattenti si chiamava “La conquista della terra”. Cosa crede che volesse dire? Proprio
esattamente quello: conquista. All’arma bianca. Ed è stata lotta dura. A coltello appunto.
Certo il Duce non appariva troppo, mandava avanti Rossoni e Cencelli. Ma questo è il dato di fatto: non litigavano perché si stavano antipatici, s’azzannavano perché era uno scontro di classe, era la rivoluzione che il Rossoni e Mussolini avevano sempre detto a mio nonno e l’Opera combattenti era la «guardia rossa» – un po’ fasciocomunista -di questa rivoluzione. Togliere le terre ai ricchi per darle ai poveri non è in fin dei conti – si vada a controllare i sacri testi di Marx, Lenin, Mao Tse Tung – una cosa che normalmente fanno le destre. La fanno solo le sinistre rivoluzionarie, nella storia dell’uomo.
Se avessero vinto i Consorzi, oggi sarebbe completamente diverso il panorama sia fisico che sociale della regione pontina. Lei ci vedrebbe in tutto due o tremila persone – invece di mezzo milione – e ognuno di noi starebbe ancora al paesello suo d’origine a puzzarsi dalla fame. Altro che borghi e Latina-Littoria. Ed ecco perché i villaggi costruiti dal Consorzio in Agro Pontino cambiano tutti nome e l’Opera combattenti – dicendo formalmente di voler solo onorare le battaglie sanguinose in cui più s’erano sacrificati i suoi “combattenti” del ‘15-18 – gliene mette di nuovi per ora e per sempre, e così Sessano diventa Borgo Podgora, Passo Genovese si trasforma in Borgo Sabotino, Casal dei Pini in Borgo Grappa e il Villaggio Capograssa in Borgo San Michele.
Littoria poi la facemmo proprio dove già stava il Villaggio del Quadrato. Ma lo buttammo giù tutto, però. Raso al suolo. Pietra su pietra. Il Consorzio aveva costruito gli edifici neanche quattro anni prima. C’era il ben di Dio in quel villaggio: cinema, dopolavoro, capannoni, magazzini, officine, decauville. Ma raso al suolo a fundamentis: «Delenda Quadrato». Che bisogno c’era di buttarlo giù? Avremmo potuto riutilizzare almeno qualcosa, oppure si poteva farla un po’ più in là Littoria – anche solo cento metri – e si salvava tutto. Ma non c’è
battaglia senza perdite, si figuri una rivoluzione. Pure in Francia – quando ci fu la Restaurazione – la prima cosa che fecero fu andare a sradicare gli «alberi della libertà» e in Italia, il 25 luglio, si andranno a buttare giù tutti i fasci di marmo dai muri. E lei vuole che Cencelli tenesse in piedi il Quadrato, che era stato il covo delle «guardie bianche» del Consorzio e della controrivoluzione? È la prima cosa che gli abbiamo buttato giù: «Vae victis».
Comunque eravamo rimasti che nel 1931 il Duce chiama Cencelli e affida all’Opera combattenti le Pontine. Da quel momento in poi i lavori ingranano la quarta: mattina e sera, tre turni continuati per lo scavo del Canale Mussolini, pure di notte con le fotoelettriche, con la pioggia e col bel tempo. Si fermeranno solo a lavoro finito, quando prima invece si scavava solamente di giorno e dal mese di novembre fino ad aprile, poi stop, e nei mesi estivi i lavori venivano interrotti per evitare le infezioni malariche. Per bonificare la sola Piscinara il Consorzio s’era dato sette anni di tempo -1936 e solo la parte idraulica, senza la colonizzazione e messa a coltura – sembrandogli pure di stare a fare il record dell’ora. Poi invece è arrivata l’Opera combattenti, che era peggio di Eddy Merckx, e prima che finisse il 1935 tutte le Paludi Pontine erano non solo prosciugate, ma piene di case, borghi e città.
Cencelli già dal febbraio 1931 – appena il Duce e Rossoni glielo avevano detto e quelli del Consorzio stavano ancora in mezzo alla boscaglia a rotolarsi nel fango coi bufali e i cinghiali – aveva sguinzagliato i suoi tecnici a fare sopraluoghi, misure, studi e progetti. E a novembre 1931 -quando entra in possesso dei primi quindicimila ettari per esproprio – parte davvero come un carro armato: strade, ponti, canali, disboscamenti, dissodamenti, case coloniche, magazzini e tutto quello che le pare. E per i contadini pensavano – all’inizio – che potessero bastare le case coloniche: «Che vogliono di più?». Però quelli dell’Opera erano gente che si sapeva accorgere degli errori e man mano che andavano in giro e si rendevano conto di ciò che stavano facendo
– una selva di poderi che spuntava ogni giorno come i funghi dall’ex fango – si rendevano anche conto che c’era qualcosa che non quadrava.
Ai primi di novembre del 1932 erano difatti cominciati ad arrivare i primi coloni – tra cui i Peruzzi – tutte grandi famiglie a struttura patriarcale. Ma un conto era pensarteli in mente tua dentro l’ufficio all’Opera questi contadini lindi e felici, un altro conto era vederli adesso in carne e ossa coi ragazzini, dentro e fuori dai poderi. Mica potevano solo lavorare. A questo i tecnici dell’Opera non avevano pensato. Quelli invece – i coloni – il sabato e la domenica ed ogni volta che potevano scappare, pigliavano le biciclette e via a Sessano, perché lì c’era l’osteria, il cinema e la sala da ballo. Era un via vai di biciclette e Sessano lo chiamavano “la piccola Parigi”.
Allora all’Opera hanno detto: «Qui bisogna che ci inventiamo dappertutto anche noi i borghi di servizio», veri e propri embrioni di città posti all’interno della maglia poderale – uno ogni duecento poderi, in media – completi di tutti i servizi: chiesa, scuola, casa del fascio, posta, telegrafo, carabinieri, cinema, campo sportivo, dopolavoro, eccetera. E quando all’inizio della nuova annata agraria – prima delle semine, nell’autunno 1933 – è arrivata la seconda e più grande ondata di coloni, ha trovato questi borghi già belli che fatti.
Cencelli però s’era pure pensato: «Ma questa è un’Olanda sterminata, come farà tutta questa gente che ci stiamo portando? Non gli servirà anche un’anagrafe o un cimitero?». E tra il febbraio e il marzo del 1932 – nel giro di soli tre mesi – gli era venuto in mente di fare oltre ai borghi un qualcosina di più grosso: «Sai che c’è? Mo’ ci faccio una città» (lui era mezzo reatino, era di Magliano Sabina), e subito aveva messo al lavoro un paio di ingegneri del suo ufficio tecnico. Quando il 5 aprile del 1932 il Duce ed il Rossoni vennero in palude per un giro d’ispezione, arrivati al Quadrato li portò sul terrazzo del casale e coi disegni in mano gli fece vedere di qui e di là, puntando con il dito in ogni direzione: «Qui faccio la chiesa, là il comune e laggiù il cimitero».
«Ma Cencelli, sei impazzito?» si incazzò il Duce: «Questa è una città, ch’at vègna un càncher».
Bisogna infatti sapere che il Duce all’inizio era contrario alle città. Non le poteva vedere. Lui era per il ruralismo e la deurbanizzazione. Il primo nemico da battere era l’urbanesimo, era quella la fonte d’ogni male: la gente lasciava le campagne dove aveva lavorato in pace senza dare fastidio a nessuno, e veniva in città a fare gli scioperati e i disoccupati, a ubriacarsi nelle osterie e – mezzi ubriachi – a parlare pure di politica. «Altro che urbanesimo» aveva detto Mussolini, «tutti in campagna li voglio, gli italiani» e aveva fatto pure chiudere per sicurezza venticinquemila osterie in tutta Italia. In quelle poche che aveva lasciato aperte, fece attaccare un cartello con tanto di marca da bollo: “Qui non si parla di politica”. E con questa fissa della ruralizzazione era andato avanti per una decina d’anni, dal 1922 che era salito al potere fino al 5 aprile 1932 che era salito col Rossoni e il Cencelli sul terrazzo del casale del Quadrato: «Fuori dalle città, via in campagna» aveva continuato per tutti quegli anni, «è questa la vera mistica fascista». E il fascio – in campagna – la gente ce la teneva con la forza, anche se continuava a scappargli da tutte le parti per correre appunto in città. Lui però voleva costruire l’uomo nuovo – rurale e soldato – e lo doveva fare con le buone o le cattive. Fatto sta che quando Cencelli gli ha detto «città», al Duce gli è saltata la mosca al naso: «Ma come ti permetti? Mo’ ti meno».
«Ma no, Duce, ma che avete capito? Mica è una città vera, è una città per modo di dire, rurale; ma io a questi un’anagrafe, un cimitero, un minimo di servizi, quattro uffici del cavolo glieli debbo pure dare; saranno migliaia di persone, mica li posso lasciare tutti spersi in mezzo alle campagne che per un certificato o un funerale si debbono fare trenta o quaranta chilometri fino a Cisterna o Terracina. Abbiate pazienza, Duce, ma a me un minimo di comune con uno straccio di podestà mi ci vuole pure».
«Vabbene, va’» gli disse allora il Duce, che a furia di stare oramai da quasi dieci anni a Roma gli si era imbastardito anche il dialetto e ogni tanto parlava mezzo romagnolo e mezzo romanesco pure lui: «Ma che sia solo un comune rurale, Cence’! Non mi venite più a parlare di città perché divento una bestia».
«Non vi preoccupate, Duce. Ma che scherziamo? E mica sono scemo! Solo un comune rurale: l’anagrafe e basta.»
«Occhio, eh?» gli ripetè il Rossoni prima di venire via.
«Ancora? E che m’hai preso, per un ragazzino?» fece piccato il Cencelli. Poi però gliel’ho già detto che tipo che era, un carro armato con l’elmetto in testa. E pure reatino. Genti di pecore e di montagne.
Quando è rimasto solo, s’è rimesso a riguardare i disegni che avevano fatto i suoi tecnici e neanche gli sono più piaciuti: «Ma che vuoi che capiscano questi? Questi capiscono di canali e di paludi, ma a me per una città mi ci vuole almeno la supervisione artistica di un architetto». Così ne ha fatto chiamare uno da Roma – Oriolo Frezzotti – e gli ha detto: «In quarantott’ore voglio un progetto nuovo completo, se no non ti pago». E questo glielo ha fatto e lui è partito con le gare d’appalto. Era il 6 o 7 aprile quando ha chiamato l’architetto, e il 30 giugno c’erano già tutti i campi picchettati, le imprese sul terreno e la buca scavata della torre comunale.
Nel frattempo però – era reatino, le ripeto – aveva convocato i giornali: «Mo’ facciamo una città, nuova di zecca» e aveva spedito alle massime personalità di Roma e del regno gli inviti per la sacra cerimonia della fondazione e posa della prima pietra. I giornali a loro volta se ne erano usciti a titoli di scatola: Nasce Littoria, la nuova città. “Il Messaggero” aveva scritto: “Un giorno sarà una metropoli”.
Non le dico al Duce gli attacchi di bile che gli sono presi, quando ha visto i giornali. Schiumava bava per tutta piazza Venezia: «Portatemelo qua, portatemelo qua che lo ammazzo con le mani mie».
Rossoni – appena visto il Duce così – subito s’era attaccato al telefono ad avvisare Cencelli: «Scappa figlio, gira alla larga da palazzo Venezia, datti malato e non farti vedere per un paio di giorni, perché se no sono dolori». E quello s’è nascosto.
Intanto il Rossoni cercava di rabbonire il Duce: «Ma dai Duce, è solo un comune rurale, non è una città; ma mo’ ti metti pure tu a dare retta ai giornali?».
«Ma porco qua e porco là, m’avete preso per coglione? Non mi fare incazzare anca tì, Rossón» e difatti – siamo seri – quello sarà stato anche un dittatore e il male assoluto, ma mica era proprio del tutto stupido. Littoria è progettata dall’inizio – e lui adesso lo vedeva dai disegni – con tre enormi piazze distinte e separate che contraddistinguono i tre rispettivi centri della futura città. Hai voglia a dirgli: «Non è città, è comune rurale». Ogni volta che glielo dicevi, lui si rincazzava come una bestia. Comunque, fatto sta, i contratti con le imprese erano già firmati. Non si poteva tornare indietro. Anche la festa per la posa della prima pietra, Cencelli aveva provato a disdirla. Ma gli inviti erano partiti e il giorno dopo s’è presentata un sacco di gente da Roma. Pure il vescovo di Terracina a benedire la pietra in questione. Solo il Duce non c’era. Non c’è voluto venire: «E neanche tu ci vai!» ordinò al Rossoni. E dal giorno dopo i giornali non scrissero più una riga. Aveva fatto mandare a tutte le redazioni un biglietto suo – firmato autografo del Duce – che diceva testualmente: “Tutta quella rettorica a proposito di Littoria, semplice comune e niente affatto città, Est in assoluto contrasto colla politica antiurbanistica del Regime Stop Anche la cerimonia della posa della prima pietra Est un reliquato di altri tempi Stop Non tornare più sull’argomento -Mussolini”. Proibito a tutti i giornali di darne la benché minima notizia e Cencelli – a questo punto – dovette proprio dare l’ordine ai sorveglianti dell’Opera di sparare a vista sul primo giornalista che si fosse affacciato in palude. Littoria oramai non si
poteva più non costruire, ma la si doveva costruire in silenzio: «Taci, che il nemico ti ascolta».
Purtroppo – come lei sa – è abbastanza inutile piangere sul latte versato o chiudere, come si suole dire, la porta della stalla quando i buoi sono già scappati. La notizia era oramai arrivata alla stampa estera, che aveva cominciato a scrivere sui giornali di tutto il mondo: “Questi fanno le città!”. E tutti ammirati. A bocca aperta. E cominciarono a voler venire a vedere di persona – sul posto – dall’America alla Russia, dalla Thailandia all’Ungheria. Pure i ministri sovietici e i presidenti dei kolchoz. A vedere come si faceva. E allora il Duce cambiò idea e ci prese gusto e cominciò pure lui a venirci almeno una volta a settimana, a con trollare l’andamento dei lavori, accompagnato sempre da qualche ambasciatore straniero.
A questo punto, giustamente, volle però anche tutto il merito – «È stata un’idea mia» diceva agli ambasciatori suddetti – e il 18 dicembre 1932, neanche sei mesi dopo la posa della prima pietra a cui non era voluto venire, venne proprio lui a inaugurare Littoria in pompa magna. E dopo non ha più smesso, s’è messo a fondare città a iosa – alla fine ne hanno fatte più di centocinquanta in tutta Italia, tra grandi e piccoline – ogni giorno fondava un borgo o una città. Il «mal della pietra», si chiama al mio paese.

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