Friday 2 August 2013

Son pochi i danari... son pochi... son pochi...

   
Alla fine, un mormorar più forte della folla che occupava i luoghi superiori fece volgere a tutti il viso verso quella parte, e passando di bocca in bocca giunse la nuova, che già si scorgeva il drappello francese. Pochi minuti dopo compariva alla voltata d'una strada, che usciva di dietro una collina, ed avanzandosi, venne a porsi in battaglia nella parte superiore del campo, volgendo la fronte al mare. Scavalcati i guerrieri ed un centinajo e mezzo di compagni ed amici che eran con loro, lasciaron ai famigli i cavalli, e, saliti al luogo dei giudici, si dispersero sotto i lecci aspettando l'arrivo degli Italiani. Sulla strada di Barletta un nuvolo di polvere, fra il quale si potè presto distinguere il lampeggiar dell'armi, mostrò che non eran per farsi troppo aspettare. Le turbe sin allora disperse si strinsero ai confini della lizza, studiando ognuno di cacciarsi avanti, malgrado che i fanti di guardia, con que' modi amorevoli che in ogni tempo ha sempre usato la soldatesca in simili occasioni, battendo sul suolo, e talvolta sulle punte dei piedi i calci delle ronche e delle picche, ricacciassero indietro l'onda che tentava di sopraffarli.
     Giunsero gl'Italiani, si fermarono in faccia ai loro avversarj nell'ordinanza medesima, e scavalcati, salirono anch'essi sul rialzo degli elci. Dopo i saluti e le cortesie scambievoli, il signor Prospero e Bajardo, che erano i due padrini, s'abboccarono, e decisero che prima di tutto conveniva trarre a sorte i giudici. Il lettore si maraviglierà, son certo, di non trovar il famoso Bajardo fra i combattenti in così importante occasione, e vederlo invece adempiere le parti di padrino: gli dirò dunque che non ne abbiam provata minor maraviglia di lui, nè sapremmo formar su questo fatto altra congettura se non supporre che qualche ferita non interamente sanata gl'impedisse di trattar l'armi, o che forse la quartana che lo travagliava in quel tempo, troppo gli scemasse le forze: a ogni modo sappiamo certissimo che egli non era fra i campioni.
     Scritti dunque i nomi di alcuni caporali de' due eserciti spagnuoli, francesi ed italiani in egual numero; rotolati i brevi, e posti in un elmo, cadde la sorte su Fabrizio Colonna, Aubignì e Diego Garcia di Paredes; i quali, sedendo al luogo preparato per loro, aprirono su una tavola il libro dei Vangeli, e ricevettero il giuramento de' ventisei guerrieri: col quale s'impegnavano a non adoperar frode nel combattere; asserivano non aver incanti nè sui loro corpi, nè sull'arme; ed incontrar quel cimento valendosi della sola virtù e delle forze naturali. Furon letti di nuovo ad alta voce i patti coi quali si rimaneva d'accordo che ogni uomo potesse riscattar sè, l'arme e 'l cavallo mediante cento ducati: ed uno fra gl'Italiani, votando sulla tavola il sacco del danaro che avean recato, lo contò, e lo consegnò ai giudici. S'aspettava quindi che i Francesi facessero
altrettanto: visto che nessuno si moveva, Prospero Colonna disse loro più modestamente che potè: 
— Signori, e il vostro danaro?
Si fece avanti La Motta, e rispose sorridendo: — Signor Prospero, vedrete che questo basterà. Montò la stizza al barone romano per la millanteria inopportuna, ma si frenò, e disse soltanto: — Prima di vender la pelle conviene ammazzar l'orso. Ma non importa; e quantunque fosse patto fra noi di portar il riscatto, neppur per questo non vogliamo metter ostacoli alla battaglia. Signori, — aggiunse poi volto ai suoi, — avete udito: questo cavaliere tien la cosa per fatta; sta a voi a chiarirlo del suo errore.
     Sarà inutile il dire che' questi modi sprezzanti fecero ribollire il sangue agl'Italiani, ma nessuno rispose nè a La Motta, nè al signor Prospero, fuorchè con qualche digrigno, o qualche occhiata fulminante. Terminati questi apparecchi, furon dai giudici licenziate le due parti e data loro una mezz'ora per prepararsi; dopo la quale un trombetta a cavallo, situato all'ombra degli elci, accanto ai giudici, darebbe tre squilli di tromba, segnale dell'assalto.
     Ritornati a' loro cavalli e montati in sella, furon dai padrini disposti in fila a quattro passi di distanza l'uno dall'altro; e tanto il Colonna quanto Bajardo osservarono di nuovo i barbazzali, le cigne delle selle, le corregge e le fibbie dell'armature; e, se v'eran occhi esercitati ne' due campi, eran senza dubbio i loro.
     Finita questa rivista, fermato il cavallo nel mezzo della linea, il signor Prospero disse ad
alta voce: — Signori! non crediate ch'io voglia dirvi parola per eccitarvi a combattere da uomini pari vostri: vedo fra voi Lombardi, Napoletani, Romani, Siciliani. Non siete forse tutti figli d'Italia ugualmente? Non sarà ugualmente diviso fra voi l'onore della vittoria? Non siete voi a fronte di stranieri che gridan gl'Italiani codardi? Una cosa sola vi dico: vedete là quel traditor scellerato, Grajano d'Asti. Egli combatte per mantener l'infamia sul capo de' suoi compagni!... m'intendete!... Ch'egli non esca vivo di questo campo.
[...]
     Un araldo alla fine venne avanti in mezzo al campo, e bandì ad alta voce, che alcuno non ardisse favorire o disfavorire nessuna delle parti nè con fatti, nè con voci, nè con cenni: ritornato presso i giudici, il trombetta diede il primo squillo di tromba: diede il secondo... si sarebbe sentito volar una mosca: diede il terzo, i cavalieri con moto simultaneo allentate le briglie, curvati i dorsi sul collo dei cavalli, e piantando spronate che li levavan di peso, si scagliarono a slanci prima, poi di carriera serrata rapidissima gli uni su gli altri, levando il grido viva Italia! da una parte, e viva Francia! dall'altra, che s'udì fino al mare. Avean circa centocinquanta passi da correre per incontrarsi. S'alzò a poco a poco la polvere, crebbe, si fece più densa, gli avvolse prima che si fossero giunti, li coperse e nascose affatto come un nuvolo quando si dieder di cozzo, urtandosi i cavalli fronte contra fronte, e i cavalieri rompendo le lance sugli scudi e le corazze degli avversarj con quel fragore che produce una frana di massi che rovinano su un pendìo senza ostacoli da prima, poi trova una selva nella quale si caccia, e fiacca, sradica, fracassa ciò che trova. Fu tolto così agli spettatori la vista del primo scontro, ed appena in quell'ammasso confuso e polveroso d'uomini e di cavalli potevan distinguere il balenar dell'armi percosse dal sole, e qualche brano di penne, che la furia dei colpi aveva lacerate, volare avvolgendosi in quel turbine, ed allontanarsene poi sollevati dal vento. Il frastuono rimbombò per le valli dei dintorni; Diego Garcia si percosse col pugno sulla coscia per la maraviglia e per la smania di non esser anch'esso là in mezzo; e questo fu il solo atto che si notasse fra gli spettatori attoniti ed immoti.
     Rimase per alcuni secondi riunito quel gruppo di battaglia, ed un certo luccicar più sottile che qua e là balenava a traverso la polvere, mostrò che i cavalieri avevan posto mano alle spade: s'udiva uno scrosciar di ferri, un martellar così a minuto, come se in quello spazio fossero state in opera dieci paja d'incudini. Tutto quell'ammasso pieno d'una luce vivissima, e direi guizzante in se stessa, era simile ad una macchina di fuoco d'artifizio, quando è velata in parte dal fumo: tanto era complicato e rapido il muoversi, lo stringersi, l'aprirsi, il ravvolgersi che faceva in tutte le sue parti.
      L'ansietà di poter veder qualche cosa e sapere a chi toccasse il primo onore, era tale che ormai si stava per prorompere in grida; e già s'udiva un crescente bisbiglio, che fu però soffocato dai cenni degli araldi, non meno che dal vedere uscir fuori da quel viluppo un cavallo sciolto, talmente coperto di polvere, che neppur più si capiva di che colore avesse la sella: scorrendo pel campo di mezzo galoppo si trascinava fra le zampe la briglia mezza lacerata, e, mettendovi su or un piede, or un altro, si veniva dando strappate al freno che gli facevan abbassar il capo, e lo mettevano a rischio di cadere; una larga ferita dietro la spalla versava una fontana di sangue nero e segnava la traccia; dopo non molti passi cadde sulle ginocchia sfinito, e si arrovesciò sul terreno. Fu conosciuto esser della parte francese.
      Gli uomini d'arme intanto accoppiatisi combattevano spada a spada, e così due a due dando e ribattendo quei grandissimi colpi, e volteggiandosi intorno scambievolmente, per torre il lor vantaggio, venivan dilatando la zuffa serrata dal primo assalto; la polvere cacciata dal vento più non toglieva la vista dei combattenti; si conobbe che l'uomo d'armi scavalcato era Martellin de Lambris. Fanfulla, per disgrazia del Francese, gli si trovò contra, e con quella sua pazza furia, nella quale era pur molta virtù e somma perizia, gli appiccò alla visiera la lancia in modo che lo spinse quant'era lunga a fargli assaggiar s'era soda la terra, e nel fare il bel colpo alzò la voce in modo che s'udì fra tanto strepito, e gridò: — E uno! — poi vedendosi non lontano La Motta che al colpo di Fieramosca avea perduta una staffa, seguitava: — I danari non basteranno... sono pochi i danari...
[...]
     Nel tempo impiegato a conseguir questa prima vittoria, Ettore Fieramosca aveva bensì colla lancia fatto staffeggiare La Motta, ma non gli era riuscito scavalcarlo. Era d'altra forza, e d'altro valore che il prigioniere di Fanfulla. Fieramosca geloso dell'onore riportato da questo, avea cominciato colla spada a lavorare in modo che lo sprezzatore degli Italiani con tutta la sua virtù a stento potea stargli contra. Le ingiurie profferite da lui la sera della cena, quando avea detto che un uomo d'arme francese non si sarebbe degnato aver un Italiano per ragazzo di stalla, tornarono in mente a Fieramosca; e mentre spesseggiava stoccate e fendenti, schiodando e rompendo l'arnese del suo nemico, e talvolta ferendolo, gli diceva con ischerno: — Almeno la striglia la sappiamo menare? Ajutati, ajutati, che ora son fatti, e non parole.
      Non potè colui sopportar lo scherno, e menò un colpo al capo con tal furia che, non giugnendo Ettore ad opporre lo scudo, tentò ribatterlo colla spada; ma non resse, volò in pezzi, e quella del Francese cadendo sul collarino della corazza lo tagliò netto, e ferì la spalla poco sopra la clavicola. Fieramosca non aspettò il secondo: spintosi sotto, l'abbracciò tentando batterlo in terra; l'altro, lasciata la spada pendente, tentava di sferrarsi. Ciò appunto volea Fieramosca: sviluppatosi da lui prima che avesse potuto riprender la spada, dato di sprone al cavallo, lo fece lanciarsi da una parte; ed ebbe tempo di spiccar l'azza che pendea dall'arcione, colla quale tornò addosso all'avversario.
      Il buon destriere di Fieramosca ammaestrato ad ogni qualità di battaglia, cominciò, avvertito da un leggier cenno di briglia e di sprone, a rizzarsi come un ariete che voglia cozzare, e far volate avanti, senza mai scostarsi tanto dall'avversario che il suo signore non lo potesse giungere. Vedendolo lavorare con tanta intelligenza, pensava Fieramosca: "Ho pur fatto bene a condurti meco!". E si portò tanto virtuosamente coll'azza, che venne riacquistando sul Francese il vantaggio che aveva perduto.
       La zuffa di questi antagonisti che potean dirsi i migliori delle due parti, se non decideva della somma della battaglia, quasi però avrebbe deciso dell'onore. Sarebbe stato doppio biasimo per La Motta esser vinto, avendo egli manifestato tanto disprezzo pe' suoi nemici; doppia gloria a Fieramosca il riportarne vittoria. I suoi compagni, conoscendo che egli era atto a tal impresa, si guardarono dal prendervi parte; si guardavano anche i Francesi dal porgere ajuto al loro campione, onde non si dicesse che dopo tanti vanti non gli era bastata la vista di star contra un solo. Perciò, quasi senz'avvedersene, per alcuni minuti restaron tutti dal combattere fissando gli occhi ne' due guerrieri. In questi pensieri che abbiam accennati produssero un incredibile impegno di vincere, e combattevano con un accanimento, un'attenzione a non commetter errori, un'alacrità a profittar dei vantaggi, che la loro zuffa poteva dirsi un modello dell'arte cavalleresca.
      Diego Garcia di Paredes, che avea passata la sua vita nei fatti d'arme, pur colpito da maraviglia alla vista di così maestrevole battaglia, non potendo più star alle mosse, si era alzato in piedi; poi, venuto sull'estremo ciglio del greppo che dominava il campo, gli stava guardando avidamente. Veduto da lontano, con quel suo busto gigantesco piantato su due gambe erculee, e colle braccia naturalmente pendenti, pareva immobile al pari d'una statua; ma, ai vicini, il contrarsi de' muscoli sotto le strette vesti di pelle che portava, lo stringer delle pugna, e più di tutto lo sfavillar degli occhi, palesavano quanto bollisse internamente, e si rodesse di non poter essere ivi altro che spettatore.
      I riguardi che impedivano agli altri di turbar questa battaglia, o non vennero in mente, o non furon curati da Fanfulla che, lasciato il signor Prospero, veniva scorrendo pel campo; punse il cavallo, e colla spada in alto si serrò contro La Motta. Se n'avvide Ettore e gli gridò: —Indietro! — ma ciò non bastando, spinse il cavallo in traverso a quello del Lodigiano, e col calcio dell'azza gli diede a man rovescia sul petto onde con poco buon garbo gli fece rattener le briglie: — Basto io per costui, e son di troppo, — gli disse istizzito.
      Fu da tutti lodato l'atto cortese verso La Motta fuorchè da Fanfulla, che prorompendo in una di quelle esclamazioni italiane che non si possono scrivere, disse, mezzo in collera mezzo in riso: — Hai la lingua nelle mani!
     Voltò il cavallo, e messosi a guisa di pazzo fra i nimici, gli sconvolse senza assalirne nessuno in particolare; e finito così quel momento d'inazione, si rinnovò più calda che mai la battaglia. Fin dal principio, Brancaleone fisso nel suo proposito avea corso la lancia con Grajano d'Asti, e la fortuna si era mostrata uguale fra loro. Venuti alla spada, si mantennero ancora senza deciso vantaggio per nessun de' due: Brancaleone era forse superiore al suo nemico per robustezza ed anche per maestria, ma il Piemontese era gran giocator di tempo; e chi conosce l'arte dello schermire, sa quanto sia utile questa qualità.
      Fra i combattenti dell'altre coppie la vittoria era per tutto in forse, e quantunque la battaglia non durasse che da un'ora e mezzo circa, era stata però tanto ostinata e calda che si poteva facilmente conoscere gli uomini ed i cavalli aver bisogno d'un breve respiro, che venne loro conceduto di comune accordo dai giudici. La tromba ne diede il segno, ed i re d'armi entrando in mezzo spartirono i combattenti.
     Quel bisbiglio che udiamo sorger istantaneo nei nostri teatri al calar del sipario dopo uno spettacolo che si sia cattivata l'attenzione degli spettatori, nacque egualmente fra le turbe che circondavano il campo. I cavalieri tornati alla prima ordinanza scavalcarono: chi si traea la barbuta per rinfrescarsi la fronte e tergerne il sudore; chi, trovando l'arnese o la bardatura de' cavalli guasta in qualche parte, s'ingegnava di racconciarla. I cavalli, scotendo il capo e dimenando le mascelle, cercavan sollievo al dolore cagionato dalle scosse de' freni. E non sentendo più l'uomo in sella, si piantavan sulle quattro zampe, ed a capo basso davano un crollo prolungato facendo risonare le loro armature. I venditori del contorno trovandosi a polmoni freschi, alzaron più alte le grida, e i due padrini, mossi i cavalli, vennero a trovare i loro guerrieri.
      Per la prigonia d'uno de' Francesi, e per trovarsi gli altri malmenati e feriti quasi tutti, fu giudicato da ognuno, gli Italiani aver la meglio; e fra i molti che aveano scommesso per l'una o per l'altra parte, quelli che tenevan pe' primi cominciavano ad accigliarsi ed a dubitare. Il buon Bajardo aveva troppa esperienza di simili fatti per non accorgersi che le cose voltavan male pe' suoi. Studiando di non mostrar questo sospetto, gli incoraggiava, li poneva in ordinanza e veniva ricordando ad ognuno le regole dell'arte, i colpi da tentarsi ed il modo di difendersi.
      Prospero Colonna che vedeva i suoi avere minor bisogno di riposo per esser meno maltrattati dei nemici, dopo una mezz'ora, domandò che si riprendesse la battaglia, ed i giudici ne fecero dare il cenno. I cavalli, ai quali un ansar frequente facea ancora battere i fianchi, stimolati dallo sprone rialzarono il capo; e si lanciaron di nuovo gli uni contra gli altri. Ormai la vittoria si dovea decidere in pochi momenti: crebbe il silenzio, l'immobilità negli spettatori, l'accanimento e la furia nei combattenti. Le gale del vestire, le penne, gli ornamenti eran volati in brani, o bruttati di polvere e di sangue. Dal fianco di Fieramosca pendeva tagliata da un fendente la sua tracolla azzurra, l'elmo era rimasto nudo e basso, ma egli, ferito soltanto leggermente nel collo, si sentiva gagliardo del resto, e stringeva La Motta col quale si era di nuovo accozzato. Fanfulla avea a fronte Jacques de Guignes. Brancaleone seguitava la sua battaglia con Grajano, avvisando al modo di coglierlo sull'elmo, e gli altri compagni qua e là per il campo si raggiravano accoppiati coi Francesi combattendo la maggior parte coll'azza, e stringendoli mirabilmente.
      A un tratto s'alzò un grido fra gli spettatori: tutti, e persino i combattenti, volgendosi per conoscerne la causa, videro che la zuffa tra Brancaleone e Grajano era finita. Questi, curvo sul collo del destriere, coll'elmo ed il cranio aperti pel traverso, perdeva a catinelle il sangue che scorreva nei buchi della visiera sull'arme e giù per le gambe del cavallo, il quale stampava le pedate sanguigne. Rovinò in terra alla fine, e risonò sul suolo come un sacco pieno di ferraglia.
       Brancaleone alzò l'azza sanguinosa brandendola sul capo, e gridò con voce maschia e terribile:
— Viva l'Italia: e così vadano i traditor rinnegati!


da "Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta" di Massimo D'Azeglio

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